Anak Krakatoa
"Potrei elencartene i motivi. Dirti
quel che mi piace.
Quello che non mi piace.
Perchè così è impossibile guardarti, sentirti e immaginarti.
Perchè la gelosia è un vestito che ti sta male, svilisce e rende piccoli anche
gli occhi, come se non avessero visto nemmeno la luce del mattino.
Potrei fare un elenco, la lista di lavorazione di come si smonta con esatta
precisione un motore o un amore.
Vivisezione, dissezione, taglio in strisce sottili dell'impronta lasciata nel
pensiero. Un'ombra che svanisce, svapora se la guardi ora, sotto le parole.
Vorrei. Potrei.
Raccontare una sera, sulla riva del mare senza luna, di come il Krakatoa, un
mattino, alzando onde inumane, si lacerò e scivolò nel mare. Era l'isola più
grande nello stretto della Sonda, un potente e rispettato vulcano.
Sollevò sulle montagne, nelle isole attorno, acqua e navi, a trovare ormeggio
fin su nella foresta.
L'acqua ribolliva ancora ore, giorni e settimane dopo.
Nei templi dei villaggi, racconterei, di offerte di fiori, sacrifici animali,
ghirlande e sangue nelle tazze per placare il dio vulcano che rifiutò il cielo e
la luce.
E decise di morire.
E poi narrare dell'Anak Krakatoa. Il piccolo Krakatoa, anak in Indonesia è tutto
ciò che è piccino, nato dal ribollire delle acque anni dopo, che, anche ora, chi
va lì su quel mare, vede. Ombra approssimativa solo del vecchio vulcano.
Pallida miniatura, popolata, nessuno sa per quale stravaganza di natura, da più
serpenti di tutta la Sonda intera. Arrivati lì, dicono portati dalle ali degli
uccelli, uova appiccicose, recapitate ad un'isola che è, arida d'acqua e
spoglia, solo rocce.
Ecco.
Potrei. Volendo.
Raccontare. Di come cambia il modo di vedere persino le persone. Di come cambia
il loro odore. Si perda anche il sapore. Il loro udire.
Di vulcani grandi diventati un mito. E che guardando lì, vedendo dal tavolino
dell'hotel il surrogato, quasi sembra impossibile e irreale che siano mai
esistiti.
Tra Giava e Sumatra, ricordano ancora il Grande, è un mito, ricordandolo persino
più grande e temibile di quel che fosse, credo, perchè il piccolo, quel che si
vede ora, in confronto è solo 780k nella digitale, in mezzo a innumerevoli altre
foto."
Seduto al tavolino, a bordo della piscina, l'erba rasata e così strana per quel
posto e quel paese, l'uomo riempe di scrittura fitta e fina il retro di una
cartolina. Poi contempla con distrazione il disordine della sua sua scrittura,
quei caratteri che forse son davvero troppo uguali per essere letti senza
fatica. Sigla la firma, che si fa stretta perchè scrivendo ha occupato quasi
tutto lo spazio tra la descrizione della località e, in basso, i dati dello
stampatore .
Sulla spiaggia ormeggiate alte sulla sabbia, piroghe a bilanciere con
potentissimi motori. Tre ragazza scure di carnagione, i seni alti e duri sotto i
sarong camminano orgogliose a lato della bassa siepe che separa l'uomo seduto
dalla piccola via di terra battuta e sabbia sul litorale.
Le guarda, sono belle e altere, cariche di promesse e colore, ne sente quasi
l'odore legno e fiore, anche solo per l'incedere che sembra danzare.
Poi l'uomo finisce di bere l'arak che aveva nel bicchiere, fa un gesto al
cameriere, paga in moneta e gli porge la cartolina da spedire.
Da un 'occhiata sola ancora alla foto, sul lato che non è occupato dalle sue
parole. Nella foto l'Anak Krakatoa sembra anche lui un grandissimo vulcano, su
una cartolina, grande mentre la porge solo poco più del palmo della sua mano.
L'uomo infila i tong, si alza. Scende alla spiaggia, alle piroghe a bilancere,
cammina, per gioco, mania o scaramanzia, nelle impronte delle tre ragazze
passate poco prima.
Fra poco il tramonto si farà velocemente notte fonda, malan malan, notte notte,
in quel paese scende notte in fretta, alle sette sarà già buio pece, la luce e
il buio si sussseguono a tramonto e alba, lì a quella distanza così ridotta
dall'equatore, assai veloci.
Alle spalle, oltre il tratto di circa 30 miglia d'acqua,dove si perde l'onda
lunga dorme il vulcano. Quello di cui i pescatori, anche quella sera, volgendo
il motore e la poppa delle piroghe, ritornando alla spiaggia, non hanno paura.
Il piccolo vulcano.
Anak.
Nota a margine:
Passai su quella spiaggia, nello stretto
della Sonda, ora devastato dallo tsunami, una bella estate.
La spiaggia era a conca, come nei film più esotici, con la sabbia oro chiaro al
sole, che saliva anche ripida al centro del semiarco, fino alla soglia dei
bungalow di legno, il tetto era di paglia e i gechi martellavano il loro
richiamo d'amore tra travi e paglia ogni notte.
...toketoketoketoketoketo....
Erano un martello, a battere secco sul tek stagionato. Il loro suono improvviso,
raffica di percussione.
La mattina dopo, sulla spiaggia, sdraiato sul sarong azzurro che ancora oggi
uso, al mare, una ragazza del luogo, più chiara delle altre, mi spiegò dei gechi
e del loro sembrare mitragliatrici, machinegun ricordo che lei sorridendo,
nell’inglese da colonia imperiale, disse.
La sera non c’era corrente elettrica nei bungalow, e potevi leggere solo sotto
il patio del ristorante dove la gente si radunava oppure avevi la spiaggia per
passeggiare e camminare e il mare. Nel ristorante suonavano sempre, di
sottofondo lo stesso disco, fino all’esasperazione.
Per cui alla lettura, oggi se fossi lì, credo anche alla scrittura, rimanevano
dedicate le ore del sole.
Dietro i bungalow, a pochi metri, correva una strada a una corsia e mezza, E
dietro quella strada era foresta, fitta, a volte arrivava davvero il rumore
nella notte degli animali.
Era una spiaggia sospesa su un palcoscenico, tra il verde della giungla, un muro
vegetale, e il mare.
Il vulcano era di fronte. Inevitabile da guardare.
E la leggenda anche graziosa, a parte la devastazione naturale che già inflisse
nell’800 il magma di un vulcano, e un terremoto così forte da sprofondare una
montagna alta fino al cielo, a quella zona.
Sono terre di leggenda e di leggende, e so che chi le ama, l’Oriente ha questa
magia, restano mille dettagli nei ricordi, sapori di un piatto mangiato da una
bancarella su una strada, colori di mattine all’alba, rumori della folla,
silenzi vegetali.