Caleidoscopio
 

 



 

  Ci sono giorni strani.
Un po’ particolari.
In cui non si formulano distillate le domande, dentro i pensieri. In cui ti senti galassia, nebulosa, punti infiniti a cui non sai dare ordine nemmeno. Lentiggini su un corpo di pensieri. E pensi.
Pensi alla primavera.
Ad esempio. A come sia impossibile non rendersi conto, oltre a quel senso di stordimento che provi, continuo, quasi un’ebbrezza di equilibrio instabile, di come sia differente persino l’aria oltre alla luce. E pensi a mille desideri.
Vestiti dai colori che si risvegliano, e che scopri sempre nuovi. Perché la natura per non privare l’uomo di emozioni gli ha donato una memoria visiva che in parte trasfigura e in parte rinnova le immagini, riscrivendole come se fossero davvero, ogni stagione, nuove. Vergini di primavera, sono i miei colori, allora.
E pensi.
Al corpo, alla pelle, ai seni.
All’odore, che affondando il viso nell’abbraccio di un corpo tu ritrovi. Al sesso che ti si tende, e lo senti vivere a quei pensieri, come fosse un germoglio di stagione e chiama, grida, reclama la rugiada della bocca, della fica, il fresco della pelle su cui sfrega. Pulsa, lo senti, reclama e vuole, fino a gonfiarsi di pensieri e farsi vita.
Reclama aria, pelle, umori. Saliva che ne cinga e lucidi i desideri.
E pensi. Ad una porta che si chiude.
Un gesto usuale, ripetuto mille volte e poi mille ancora nella vita. A come poche tavole di legno sui cardini silenziosi, quattro mura, e scuri ai vetri, bastino per tagliare un mondo intero fuori, quando il mondo tu lo vuoi lì, in pochi metri quadri di alito bagnato e piccoli rumori, e ubriacanti odori.
Pensi all’odore della pelle, che respiri e che vira al crescere del suo piacere e dell’eccitazione.
A come solo il tocco delle dita possa cambiare tono alla voce, odore al corpo, calore, colore. Sapore, se affondi la bocca lì, dove la voglia piange lacrime e lucida e gonfia la porta dove entrerai a cercare nel suo anche il tuo piacere.
Una primavera scorsa, prima leggera, poi in felice fioritura, sulla punta delle dita. A far sudare il sesso e liberare del suo corpo tutti i fiori.
Pensi, che in quella stanza il tempo sia una variabile infinita, indefinita. A come sia impossibile coglierne il senso se i sensi tuoi e suoi sono tutti altrove. A come si potrebbe mai misurare il tempo di un brivido. Di un gemito o un sospiro.
Di un respiro che si ferma soffocato dal pulsare accelerato delle emozioni e del cuore. A come il tempo siano tempi, mille, e poi ancora mille e mille ancora, che se potessi scinderli così, coglierne ogni minima velatura e sfumatura, anche poche ore durerebbero una vita.
Pensi.
A come sia nascosto dentro scatole infinite, una dentro l’altra, a perdersi all’orizzonte, aperte sull’onda dell’orgasmo, come un gioco di specchi negli specchi, sempre più dentro e sempre più minute, l’attimo del piacere.
Pensi a quel nulla istantaneo, che rivolta a entrambi il corpo e i pensieri, dita di guanto rovesciate al sole, mentre godi. E lei gode.
Pensi alla primavera.
Ai suoi mille toni infiniti di una scatola di pastelli che non ha limite nella stagione che si apre al numero e varianza delle sfumature. E pensi a come il nero più nero nella sua stagione possa diventare rosso, blu, carminio, indaco, ocra e giallo sole.
Dalla finestra filtra la luce, ora. Rotta dai riflessi di cristallo e specchi, con cui di sbieco e di taglio solo la luce sa giocare. Si rompe, si scompone, sembra persino avere odore.
L’uomo alla scrivania la guarda e capisce che è da lì che ha cominciato a pensare.
Sorride. Di quella luce. Di quei colori.
Di quella stanza dove, dalla finestra, giocheranno sul corpo di lei. A dipingerla. In amore.
Poi toglie anche gli occhiali, perché gli occhi hanno sete, e quei colori, da quel caleidoscopio di pensieri, ad occhi chiusi, lui li vuole bere.
Li chiude in una lettera, incolla il lembo passandoci la lingua, lo preme. Scrive il suo indirizzo, scende, imbuca a lettera.
Racchiuso nella busta, travestito da parole, ha solo voglia di regalarle il sole.