Caran d'Ache
(Abbey Gardens, Tresco, 2005 - Robin Borrett)
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Capita.
Persino a me, a volte.
Oggi sì.
Oggi sono stanco. Al punto di non aver parole ma solo voglia di un sonno che
sappia di primavera e fiori. Che abbia piccolissimi rumori come sottofondo
perché il silenzio è nero.
E i rumori, persino quelli che definiresti fastidiosi, sono colori.
Stanco del lavoro che è motore d’ansia, che pure ho imparato a governare, al
punto che è difficile per chi mi circonda percepirne la bava viscida e
insinuante da fuori.
Stanco di una altalena di nubi e sole. Che non lascia nemmeno alle ombre il
tempo di farsi statue di sale. E alle pozzanghere di asciugare.
Ma una primavera vera, assortita carandache, millecolori, a
tuttotondocomeunasfera… ?
La voglio, la desidero, mi manca.
Come la figurina di Mariolino Corso nell’album Panini della mia preistoria di
bambino coi santini.
Stanco di essere roccia in un mondo di sabbia. Dove si innalzano castelli
orgogliosi al cielo come se fossero cemento le parole.
E poi basta l’ombra di un’onda, nemmeno occorre che abbia fragore perché, memore
di altre spiagge e altri tzunami, abbia ragione, parola che da sola inquieta
l’animo del viaggiatore, e spiani implacabile e crudele torri, guglie, persino i
pinnacoli coi mostri più meravigliosi, scolpiti in aria nel gioco dell’uomo da
sempre col terrore…
Che poi questo continuo incessante, ininterrotto gioco del lambire e devastare è
una metafora fin troppo facile mi pare.
Stanco di attendere che la mia volontà e la mia forza entrino in un ago e si
facciano trasfusione.
Pensavo ad un racconto oggi.
Da scrivere, nuovo.
In una stanza buia, per sottrazione totale della luce, come se la luce la si
potesse veramente non solo togliere ma assorbire.
Un buio solido, lo avrei definito per iperbole paradossale.
Un uomo e una donna.
Come spesso sono chiamati, per universale archetipo di ogni mia emozione, i
personaggi quando ne narro, e faccio mie, cose ed emozioni. La donna ha freddo,
non è vestita e nel buio percepisce solo l’immensità del nero, anche se la
stanza ha confini ben definiti nella realtà, muri contro cui sbattere o aderire
nell’attimo della paura. E insidie vissute nella mente prima ancora che col
corpo nel suo esplorare.
Non è vestita e vede solo col corpo, con i piedi legge la stanza al pari di
quello che fa, tastandola accecata, lungo i muri con le dita, temendo inciampi
celati dall’oscurità, spigoli, schegge nascoste e acuminate.
Improvvise voragini in cui sentire il piede cedere improvviso, come se avessero
sottratto o reso trasparente e ridotto a un velo il suolo.
Non è vestita e ha freddo.
Oltre che paura.
Trema eppure nel freddo e nel tremare suda. E’ fradicia di sudore.
L’uomo vorrebbe guidarla con la voce, persino andare in quel buio a cercarla,
tentoni.
Non lo può fare.
Pensandoci ora, forse non è nemmeno un racconto ma il ricordo rinato di un
incubo serale, strappato ad un divano dalla stanchezza o dalla cattiva
digestione. E riemerso come idea, quasi fosse nuovo e non già, in un suo
passato,nel sonno precedente alla giornata, sogno e fonte di battito accelerato
e sudore. Ma importa poco credo.
Immaginavo nel racconto che l’uomo fosse razionale.
Che non potendo, perché nemmeno lo saprei dire, gridare e chiamare, forse quel
buio aveva assorbito oltre alla luce e ogni colore anche la possibilità di
articolare e emettere e percepire un qualsiasi rumore, avesse scelto di mettersi
proprio in un angolo.
Le spalle al muro, dove si incontrano due muri.
Pensando che lei nell’angoscia del suo cercare lui, o una porta dove trovare
nuovamente luce e calore, mai avrebbe attraversato l’ignoto al centro della
stanza, mai avrebbe abbandonato quell’unico, e per questo quasi rassicurante
almeno in parte, contatto passo passo con quei muri.
E che scorrendo in quella trepida esplorazione di dita a sfiorare impaurite in
cerca di continuità solida e rassicurazione, in quell’incedere che immaginava
incerto ad ogni passo, come se ogni volta si aspettasse di trovare il vuoto e di
precipitare, come se temesse sotto improvviso un nulla infinito, sarebbe giunta
a lui.
Anche nella peggiore delle ipotesi, qualora alla partenza fossero stati vicini e
lei cercandolo avesse sbagliato strada, perché la stanza non era, non poteva
essere infinita e dopo il periplo delle dita lì sarebbe dovuta arrivare. O
tornare.
Se fosse stato un sogno nero dimenticato dalla ragione prima di diventare l’idea
di un racconto non lo so davvero.
Se fosse un sogno so che l’uomo nella notte si sarebbe svegliato carico di gelo
sulla pelle per il sudore. Prima di sapere come andava a finire.
Perché così è il dormire se dormi male e con tensione.
Ma in un racconto si può giocare fino alla fine, con la fine.
E lo farei anche ora.
Se solo non fossi così stanco.
Al punto di non aver parole ma solo voglia di un sonno che sappia di primavera e
fiori. Che abbia piccolissimi rumori come sottofondo perché il silenzio è nero.
E i rumori, persino quelli che definiresti fastidiosi, sono colori.
Se chiuderò gli occhi crollando sul divano, avrò sogni. E mangerò leggero, prima
del tracollo, perché non ci sia il buio che inghiotte la luce ma solo immagini
carandache, millecolori.
A tuttotondocomeunasfera.