Dialoghi impossibili
3.
Marcel Proust
e Faber (sulla scrittura - sulla lettura estiva)
Seduti all’ombra del vecchio faggio in riva al fiume, poco sopra il borgo del
Castelvecchio, Marcel sfilò dalla cesta in cui avevano trovato ospitalità pane,
salumi e vino, un libro.
Che avevo portato con me perché ero arrivato oltre la metà della narrazione e
avevo voglia di finire.
Lo prese quasi con riverenza tra e mani e, la schiena posata al tronco ne fece
scorrere, tenendolo nella sinistra, con la destra le pagine veloci, non senza
averne prima saggiato consistenza e dedicato tempo sospeso alla copertina
colorata.
“Chi non ricorda come me quelle letture fatte all’epoca delle vacanze, che
nascondevamo, poi, in tutte quelle ore del giorno che erano abbastanza
tranquille e inviolabili da poter dare loro asilo?” esclamò, inatteso,
con una vena di nostalgia per nulla dissimulata nella voce, lasciandolo giacere,
richiuso, sulle ginocchia dei pantaloni di velluto grigio.
“Trovarsi qui ora, con te, un’altra estate, un altro fiume, il paniere, il cibo
e il libro, apre ricordi, di tempo perduto e andato, di vacanza lontane e di me
ragazzo. Una giornata di vacanza, la vecchia Félicie. Il villaggio di Méréglise…”
Mi accomodai meglio sull’erba, con l’incredibile e immotivata sensazione di
essere precipitato, senza nemmeno accorgermene, all’improvviso in un dipinto
impressionista. E ciò non solo per i colori di estate e ombra, quel piccolo
pranzo frugale col letterato, sull’erba rasa, o per la quiete di vento quasi
irreale, ma ancor più, credo, ripensandoci adesso a posteriori, per il suono
evocativo delle sue parole.
Lo incitai a proseguire spostando il mio sguardo sul suo viso, in visibile
chiara attesa delle sue parole.
“ Non ero rimasto a lungo a leggere nella mia camera, che già si doveva
andare al parco, a un chilometro dal villaggio. Ma dopo il gioco, obbligatorio,
acceleravo la fine della merenda portata nei panieri e distribuita ai ragazzi
sull’erba della riva del fiume, dove era stato posato il libro con la
proibizione di riprenderlo in mano.”
E mi narrò di quelle sue giornate e di quell’ansia di finire, quasi
compulsiva, le sue letture.
“ …ma, Maestro, quando finisce di leggere qualcosa che la ha assorbito e avvolto
nelle sue parole, non resta anche a lei un certo senso quasi dolente di
malinconia soffusa, di vertigine e di vuoto, dopo la parola fine ?” non potei
astenermi dal chiedere allo scrittore.
Lui riprese il racconto, quasi non avesse fatto nessuna pausa nella sua
narrazione.
“.. .poi l’ultima pagina era letta, il libro era terminato.
Bisognava fermare la corsa sfrenata degli occhi e della voce che seguiva tacita,
fermandosi solo per riprendere fiato con un respiro profondo.”
La bottiglia di vino mostrò il fondo, mentre riempivo l’ultimo mezzo bicchiere a
entrambi.
Due bicchieri di vetro grosso, pieni a metà di un vino reso ancor più rosso e
denso dall’ombra profonda del faggio, scanalati a lato, che avevano fascino,
ancor più lì lungo il fiume, di antica osteria.
“Ma è l’intelligenza dello scrittore, il mestiere, la capacità di affabulare
narrazioni, il ricordo ritrovato che riprende forma nuova o cosa che crea questa
magia? E questa maglia stretta che lega chi legge fino alla parola fine,
Maestro, è la sua intelligenza che ha governato le parole, vero?”
Bevve l’ultimo sorso, guardò l’opalescenza vermiglia pallida dell’eco del vino
sulla parete interna del bicchiere, in controluce, mentre il rosa pallido che lo
alonava scivolava al fondo e le ultime gocce ritrovandosi ritrovavano il colore
originale.
Poi sollevò lo sguardo.
Mi guardò.
Sorrise.
“ Ogni giorno attribuisco minore valore all’intelligenza.
Ogni giorno mi rendo conto meglio che soltanto prescindendo da essa lo scrittore
può afferrare nuovamente qualcosa delle sue impressioni passate, vale a dire
cogliere qualcosa di se stesso e la sola materia dell’arte” e posò
nell’erba umida dell’ora avanzata della sera, con cura del gesto, il suo
bicchiere.
(Il testo in corsivo nel dialogo è tratto da Il Piacere della Lettura
di M.P.)