Si erano incontrati nuovamente quasi per
caso.
Si erano conosciuti qualche anno prima, Paco fumava le sue solite sigarette
cubane e anche l'altro all'epoca coltivava ancora il fumo, con gesti che
ripeteva con voluttà e piacere circa cinquanta volte al giorno come un rito. E
oggi nel sole calante dell’ultimo giorno dell’estate, per quei casi che
succedono solo nei romanzi i due di quella notte astigiana si sono ritrovati
seduti davanti a una birra a chiacchierare.
“vedi…” PIT II cominciò a parlare, i baffi appena sporchi un po’ di schiuma
bianca.
“C'è gente convinta che un romanzo debba spiegare tutto. Che il romanzo debba
essere il riparatore della vita e delle sue incoerenze. Ma la vita è mai stata
coerente?”
Nemmeno coerente lo era ora, la vita, perché benchè Paco fosse sicuramente a
Mexico City e lui per certo a Milano, erano davvero lì seduti, al tavolino sul
marciapiede, a parlarsi ora, come se fosse la cosa più realisticamente
naturale.
"Ma sì, forse è perchè sono cose da romanzo e non richiedono spiegazioni “
azzardò l'uomo allo scrittore.
"Sì, hai ragione, ma la coerenza, la continuità narrativa, la correttezza
verso il lettore allora?" chiese l’uomo che delle mille avventure narrate dallo
scrittore di Gijon era appassionato lettore.
“E perciò pensa che lo scrittore” Paco sorrise inarcando il taglio della
bocca sotto i baffi folti e ora un po’ grigi di qualche anno prima “...che lo
scrittore occupi questa posizione centrale nello spazio e nel tempo per dare un
inizio e un finale alle storie (ma lei conosce qualche storia che abbia un
finale, una cosa che si dovrebbe chiamare finale, finale-finale?), collegare,
riempire vuoti e dissipare zone d'ombra; spiegare i comportamenti dei
personaggi.”
Ecco, ascoltarlo, come fu già quella volta che lo scrittore gli narrò della
rivolta degli studenti nel DF e lui si perse come in un romanzo letto a voce
nelle sue parole, era una vera piccola magia.
L’autore continuò, interpretando nel senso giusto il silenzio e lo sguardo di
chi lo stava a bere quasi, assetato più che della sua birra che si scaldava nel
bicchiere, del concatenarsi della spiegazione. Quasi che fosse un’avventura e
non un’improvvisata estemporanea lezione di scrittura.
“C'è chi crede che il romanzo abbia una funzione divulgativa e una vocazione
pedagogica. Niente di più lontano dalla verità. Il romanzo non è fatto per
mettere ordine nel caos. Il romanzo è fatto per mettere ordine in un beneamato
cazzo.” Disse proprio così, cazzo, in italiano, con la zeta che
sembrava un po’ una esse doppia e trascinata, e dette, al suono, un significato
più rimarcato, buffo e strano.
“Il romanzo non è nato per dare soddisfazione agli amanti dell'ordìne. E’
fatto per divertirsi con le vertigini, per creare casino, per goderne, per
rimestarlo.
Non si tratta di rispondere a domande ma di farne altre, sempre nuove, sempre
più inquietanti."
“Il romanzo, come la realtà reale” e io seduto lì mi ritrovai ad assentire
con il capo come se fossi davvero lì a lezione e non a bere birra con quello
strano e buffo, tondo e baffuto uomo, dispensatore di emozioni
" Il romanzo come la realtà reale, come le storie che conosciamo tutti e le
storie che ci capitano sempre, è pieno di parentesi tra i buchi, ellissi che
ballano saltellando da una parte e dall'altra senza desiderare concretizzarsi,
senza voglia di spiegarsi.
Credo di essere ben lontano dall'illusione che quando la vita diventa
profondamente incoerente arrivi il romanzo a mettere una pezza.
D'altra parte non dobbiamo lamentarci troppo. Il romanzo è certamente il guercio
in questo luminoso deserto messicano in cui abbondano i ciechi. “
E fu questo suo riferimento al guercio, al Messico e al suo romanzo forse più
strano, scritto in onore dei moschettieri venti anni dopo, l’ultimo in ordine di
tempo tra i suoi che io avessi letto, quello scandito in sezioni senza logica
apparente se non alla narrazione in se stessa. Con i capitoli a volte di
trenta righe sole, con tutti i salti temporali e di personaggio che in lui da
sempre amo, fu allora nel citare la sua terra di adozione, in quel modo
inatteso, che mi sentii lì, dove scioglieva le sue storie, e non nel bar sotto
casa mia a Milano, ai tavolini messi sul marciapiedi di fronte a dove il tram
ferma, certezza realistica quotidiana, ogni cinque minuti.
E fu così forse che pensai che anche a Mexico City toh, c’erano bar uguali,
identici, e il tram che stavo vedendo scorrere davanti al nostro tavolino, caso
strano,aveva lo stesso numero di quello che passa sotto casa mia.
E che il clima era lo stesso lì, oltre l’oceano di parole, nell’ultimo giorno
dell’estate di noi due, e lo erano anche la piazza e la chiesa per qualche
strana e misteriosa convenzione o trucco ed espediente narrativo, e che era solo
per amore dell’illogicità della realtà e perché al lettore piaceva bere e avere
ellissi, curve, falle in cui ebbro volare, che decidemmo di bere un’altra birra
ancora.
Offrì lui, quelle prima,appena terminate, le avevo pagate 10 euro io.
Lui pagò in pesos ma il barista li incassò, e non se ne stupì. E non ebbe nulla
da ridire.
(Il testo in corsivo nel dialogo è tratto da Ritornano le ombre
di Paco Ignacio Taibo II ) |