Dialoghi impossibili

 
 
 
 
4. Paco Ignacio Taibo II e Faber  (sulla birra, il romanzo e la realtà e la libertà dalla logica di chi scrive)
 
 
 

Si erano incontrati nuovamente quasi per caso.
Si erano conosciuti qualche anno prima, Paco fumava le sue solite sigarette cubane e anche l'altro all'epoca coltivava  ancora il fumo, con gesti che ripeteva con voluttà e piacere circa cinquanta volte al giorno come un rito. E oggi nel sole calante dell’ultimo giorno dell’estate, per quei casi che succedono solo nei romanzi i due di quella notte astigiana si sono ritrovati seduti davanti a una birra a chiacchierare.
“vedi…” PIT II cominciò a parlare, i baffi appena sporchi un po’ di schiuma bianca.
“C'è gente convinta che un romanzo debba spiegare tutto. Che il romanzo debba essere il riparatore della vita e delle sue incoerenze. Ma la vita è mai stata coerente?”
Nemmeno coerente lo era ora, la vita, perché benchè Paco fosse sicuramente a Mexico City e lui per certo a Milano, erano davvero lì seduti, al tavolino sul marciapiede, a  parlarsi ora, come se fosse la cosa più realisticamente naturale.
"Ma sì, forse è perchè sono cose da romanzo e non richiedono spiegazioni “ azzardò l'uomo allo scrittore.
 "Sì, hai ragione, ma la coerenza, la continuità narrativa, la correttezza verso il lettore allora?" chiese l’uomo che delle mille avventure narrate dallo scrittore di Gijon era appassionato lettore.
“E perciò pensa che lo scrittore” Paco sorrise inarcando il taglio della bocca sotto i baffi folti e ora un po’ grigi di qualche anno prima “...che lo scrittore occupi questa posizione centrale nello spazio e nel tempo per dare un inizio e un finale alle storie (ma lei conosce qualche storia che abbia un finale, una cosa che si dovrebbe chiamare finale, finale-finale?), collegare, riempire vuoti e dissipare zone d'ombra; spiegare i comportamenti dei personaggi.”

Ecco, ascoltarlo, come fu già quella volta che lo scrittore gli narrò della rivolta degli studenti nel DF e lui si perse come in un romanzo letto a voce nelle sue parole, era una vera piccola magia.
L’autore continuò, interpretando nel senso giusto il silenzio e lo sguardo di chi lo stava a bere quasi, assetato più che della sua birra che si scaldava nel bicchiere, del concatenarsi della spiegazione. Quasi che fosse un’avventura e non un’improvvisata estemporanea lezione di scrittura.
“C'è chi crede che il romanzo abbia una funzione divulgativa e una vocazione pedagogica. Niente di più lontano dalla verità. Il romanzo non è fatto per mettere ordine nel caos. Il romanzo è fatto per mettere ordine in un beneamato cazzo.”  Disse proprio così, cazzo, in italiano, con la zeta che sembrava un po’ una esse doppia e trascinata, e dette, al suono, un significato più rimarcato, buffo e strano.
“Il romanzo non è nato per dare soddisfazione agli amanti dell'ordìne. E’ fatto per divertirsi con le vertigini, per creare casino, per goderne, per rimestarlo.
Non si tratta di rispondere a domande ma di farne altre, sempre nuove, sempre più inquietanti."
“Il romanzo, come la realtà reale”
e io seduto lì mi ritrovai ad assentire con il capo come se fossi davvero lì a lezione e non a bere birra con quello strano e buffo, tondo e baffuto uomo, dispensatore di emozioni
" Il romanzo come la realtà reale, come le storie che conosciamo tutti e le storie che ci capitano sempre, è pieno di parentesi tra i buchi, ellissi che ballano saltellando da una parte e dall'altra senza desiderare concretizzarsi, senza voglia di spiegarsi.
Credo di essere ben lontano dall'illusione che quando la vita diventa profondamente incoerente arrivi il romanzo a mettere una pezza.
D'altra parte non dobbiamo lamentarci troppo. Il romanzo è certamente il guercio in questo luminoso deserto messicano in cui abbondano i ciechi. “

E fu questo suo riferimento al guercio, al Messico e al suo romanzo forse più strano, scritto in onore dei moschettieri venti anni dopo, l’ultimo in ordine di tempo tra i suoi che io avessi letto, quello scandito in sezioni senza logica apparente se non alla narrazione in se stessa.  Con i capitoli a volte di trenta righe sole, con tutti i salti temporali e di personaggio che in lui da sempre amo, fu allora nel citare la sua terra di adozione, in quel modo inatteso, che mi sentii lì, dove scioglieva le sue storie, e non nel bar sotto casa mia a Milano, ai tavolini messi sul marciapiedi di fronte a dove il tram ferma, certezza realistica quotidiana,  ogni cinque minuti.
E fu così forse che pensai che anche a Mexico City toh, c’erano bar uguali, identici, e il tram che stavo vedendo scorrere davanti al nostro tavolino, caso strano,aveva lo stesso numero di quello che passa sotto casa mia.
E che il clima era lo stesso lì, oltre l’oceano di parole, nell’ultimo giorno dell’estate di noi due, e lo erano anche la piazza e la chiesa per qualche strana e misteriosa convenzione o trucco ed espediente narrativo, e che era solo per amore dell’illogicità della realtà e perché al lettore piaceva bere e avere ellissi, curve, falle in cui ebbro volare, che decidemmo di bere un’altra birra ancora.
Offrì lui, quelle prima,appena terminate, le avevo pagate 10 euro io.
Lui pagò in pesos ma il barista li incassò, e non se ne stupì. E non ebbe nulla da ridire.

(Il testo in corsivo nel dialogo è tratto da Ritornano le ombre di Paco Ignacio Taibo II )