Le gallerie
sotterranee
e i luoghi
magici
 

 
     

 
 
 
La strada per salire non era così bella.
Stretta, con ripidi tornanti, che erano anche gli unici punti in cui era possibile in caso di incrocio una manovra agevole e snella. Il ciglio a valle, prima di finire e farsi faggio o castagno, scivolava foglie e si celava, ma il paese in cima aveva solo 55 abitanti e loro la strada la giudicavano perfetta.
Cinquantacinque in tutto, inclusi 12 bambini, come mi disse con orgoglio, sorridendo, come se fossero un poco tutti figli suoi , poco dopo, mentre bevevo un ottimo caffè, il padrone dell’unico ristorante-con-funzione-di-bar-e-di-saleetabacchi del paese. Di quei bambini due, con la pelle ambrata, figli bellissimi di un bellissimo ragazzo di colore, altissimo, e di una bellissima e radiosa ragazza bianca coi capelli simil-punk li incontrai più tardi, recuperando l’auto lasciata all’entrata del paese in uno due posti auto liberi, subito dopo l’ultimo tornante.
All’inizio restai deluso.
Il paese si offriva podalico, ostico a ogni emozione dopo la tensione della salita ripida e in perenne ansia di un possibile incrocio improvvido. Poi l’asfalto della strada centrale lasciò per un attimo il passo ad un acciottolato di sassi di fiume, tondi di vita e passi. E quell’architettura asettica delle prime poche case, a metà tra il peggio del paese lombardo e il peggio di quello di uno del Piemonte, fu sostituita da portici stretti e scoscesi, passaggi celati, in sasso tra le case vecchie recuperate, canneti in fiore ricavati in una vecchia fonte lavatoio.
E, quando fui sazio di un castagno millenario col tronco largo come il portone del palazzo di città in cui vivo e di prati curati con amore di pittore puntinista o di iperrealista americano, inattesa, ho trovato la balconata naturale.
Davanti alla trattoria dove si fa tutto, quella che il padrone tiene aperto perché "tanto siamo in 55 e anche se non guadagno nulla dal lunedì al giovedì, sa, non c’è niente da fare se non stare in pace qui e mi piace che la gente abbia un posto dove trovarsi se ne ha voglia e poi chiuso o aperto a me cosa cambia".
Sono uscito dal locale sorridendo, con la bocca buona di caffè, e si era fatta l’ora del tramonto.
Sono rimasto lì. A perderci lo sguardo e guardarlo correre e giocare sulle balze del teatro di montagne.
Le file di montagne che alla luce piena poco prima mi erano sembrate un’unica macchia a toni misti, si sono fatte, separate, nette e stagliate, quinte e scenari. Sfalsati e tagliati dalla lama di luce radente.
Come se qualcuno le avesse messe lì, quelle strisce di tonalità diverse, ad anfiteatro, perché c’era quella balconata pronta, approntata apposta, in attesa solo della replica di questa sera, da cui guardarle.
Ho cominciato a capire.
Perché l’oste tiene aperto anche gratis per 55 persone così fortunate e così serene da avere messo al mondo tanti figli. Ho capito perché delle due strade di accesso alla balconata sulle montagne una è lasciata ripida e stretta, fatta per scoraggiarti e l’altra è meno ripida, ma lunghissima e ancora più stretta e quasi introvabile se sali dalla valle.
Ho capito.
Perché prima di farti il caffè ti guardano, e poi sorridono e te lo fanno buono, se passi un esame silenzioso e non ti assimilano all’unica pecora nera del villaggio "che scambia la strada per una pista da rally e corre e nemmeno usa il clacson"
E ho trovato un’altra uscita , una nuova, di quella galleria sotterranea di pensieri ed emozioni che unisce, inattesa, celata, imprevedibile e imperscrutabile alla logica, quelli che io, nella mia mappa immaginaria, chiamo i luoghi magici.