Hey hey, my my

 

 

 

“Abbiamo dimenticato l’Autan!”
Ha esclamato appena seduta al tavolinetto del bar furgonato a due passi dallo stadio di San Siro, quello dedicato ad un gladiatore del calcio glorioso del passato.
A un tavolino a pochi passi ne hanno un flacone e sono gentili abbastanza da sorridere quando gliene chiedo un poco “in prestito”. Ma se L’Autan si presta, come si fa a renderlo dopo averlo spruzzato e spalmato?
Beck e focaccina crudo e formaggio, sette euro.
La ragazza ha un abito a fiori, corto. Sandali infradito. I capelli legati sulla nuca e riportati in alto, attorcigliati come sottili serpentelli castani.
E’ bellissima in questa notte torrida e umida della Milano d’estate.
Beve la Becks, mi passa la bottiglia bevo anch’io.
“Vuoi un morso di focaccia?” offro. Lei stacca solo un pezzo di pane e lascia tutta la farcitura, è pressochè vegetariana.
“Del concerto di stasera ne racconterai ai tuoi figli”. Rido dicendolo.
“… mi sa che è anche una delle ultime possibili occasioni di vederli suonare dal vivo”.
La coda all’ingresso del secondo anello, rosso, settore 347, fila due. Due code, fuori, lei si allontana col cellulare e fa una telefonata, poi mi raggiunge quando sono al controllo della security.
Poi ancora dentro e poi a sgomitare, lei avanti e io dietro, ogni tanto la perdo di vista se vieniamo divisi dal fiume di sudore umano che si dipana, nel flusso di migliaia di persone che sbagliano scala, e vanno da sinistra e destra e da destra a sinistra chiedendo “ma che fila è questa?”
“a che numero siamo?”
“Abbiamo sbagliato. Dovevamo andare verso destra”
Lo stadio è una fornace estiva, un tempio del sudore umano.
Colano volti sconosciuti, intorno, sotto e di lato.
Lei mi porge un fazzolettino, forse ha paura che mi liquefi totalmente se non argino il sudore. 38 gradi alle nove di sera in una conca chiusa. Lei attacca la bottiglietta d’acqua, me la porge.
Alle 21 esatte sale la musica. Divina.

Al terzo pezzo la ragazza è in piedi, balla, dondola, segue il ritmo e ondeggia lunghi capelli sulla schiena. Suonano As tears go by, in italiano.
“Sai. Avevo un 45 giri, all’epoca si usava, di questa canzone, avevo sedici anni credo, allora”
“E’ molto bella ma Jagger sembra prendere il mondo in giro per come scimmiotta l’italiano”, lei ridacchia.
E’ felice. Il concerto sale, pezzo dopo pezzo.
Come l’impossibilità a rimanere seduti, dietro protestano e quasi litighiamo, e la quantità di sudore. E l’emozione.
Let me please introduce to you, I’m a man of wealth and fame… e tutti in piedi.
A testimoniare la solidarietà urlata in un coro da mondiale al diavolo, che salta come una molla, smoking grigio e tuba da imbonitore, sui 50 metri del palco, amplificato sullo schermo gigantesco illuminato. Solidarietà al diavolo del rock.
Lei che ha meno della metà dei miei anni e si emoziona, danza, canta, grida.
Come non riesco a trattenermi dal fare io.
Lei è bellissima e sudata. Quasi rauca alla fine di Satisfaction, ultima canzone dell’addio, tirata e tirata.
E poi ancora tirata a sfinire prima il pubblico, che non avrebbe retto un altro minuto a ballare e cantare, che non loro lì sul palco, due secoli e mezzo di musica se li sommi tra di loro.
“Ma quanta roba si fanno? Nemmeno a venti anni reggi così per oltre due ore” si chiede la ragazza tornando all’auto, fradici di sudore. Mi accompagna a comprare una maglietta, che poi finirà come altre prima probabilmente col diventare suo pigiama.
E’ arrabbiata per i bis che non ci sono stati. “Forse dovevamo fare più casino nel chiederli, forse erano delusi perché non li abbiamo abbastanza reclamati…” sembra volerli quasi scusare della piccola delusione che ha nell’azzurro degli occhi mentre lo dice.
In auto, a cercare nell’aria condizionata che non basta, gira, accendi, ricircolo, ruota la griglia, uno stop al sudore.
E’ bello. Troppo bello vederla felice.
Delle mie stesse emozioni. Di una musica che non è solo mia.
Mi accende e mi passa l’ultima sigaretta della serata “però è l’ultima, mi bruciano gli occhi in auto se fumi ancora”
Sentenzia con aria assai seriosa.
Piccola donna. Bella e felice come una canzone.
“Sai che sei un tiranno peggio di tua madre”, e rido.
“Papà…” lei scrolla il capo e le scivolano i capelli sulla spalla. E sorride.
 


Dedicato

Ai Rolling Stones che hanno emozionato lei. E me. Ancor più di quello che entrambi avremmo anche mai aspettato.
Al rock e al blues che non hanno età o confine.
Ad una figlia. Che adoro.

“Hei hei, my my, rock and roll will never die…”
(Neil Young, Live Rust)