La finestra, il tetto e due alberi. E una sigaretta.

 

 

 

 

L’uomo era uscito.
Aveva acceso una sigaretta, ancora una e aveva volto il capo al muro a lato, attratto dal rumore che, fruscio indaffarato, proveniva nel buio dalle pietre, in alto a lato. Aveva cercato nel buio delle frasche lì il piccolo topo di campagna che aveva scorto solo poche ore prima nella luce della fine del giorno, correre tra i sassi, sfidando ogni legge di gravità quasi, a modo suo indaffarato.
Nel buio della presenza di quel ladro, innamorato di pesche troppo mature per essere rubate senza traccia e piccole mele selvatiche, gli giungeva però solo il rumore, e appena si girò e cominciò a fissare le singole pietre con gli occhi ormai assuefatti al buio, anche quello svanì: probabilmente l’animale aveva percepito la sua presenza e aveva giocato ancora una volta a rendersi invisibile come per mesi e mesi era riuscito perfettamente a fare.
Il tempo di una sigaretta. Mai misurato. Pensò.
Una parentesi fatta ad anello, perfetto, intatto e intangibile a cingere se stesso, come il fumo dalla bocca dell’attrice nei vecchi film americani in bianco e nero.

L’uomo era uscito.
Aveva acceso una sigaretta, l’ennesima della giornata, perché aveva bisogno di aria fresca nei polmoni e in casa in quel momento non voleva stare, fuori era migliore, nella notte fresca e leggermente ventilata di fine estate. Aveva acceso una sigaretta, preso nei suoi pensieri, perché troppa aria fresca senza un minimo di veleno l’avrebbe ucciso, sicuramente, perché non siamo animali più capaci di vivere la felicità senza un velo di malinconia e nicotina a fare da antidoto e contraltare.
Nel buio sentiva la sua faccia scottare.
Come lei sapeva potesse fare.

L’uomo era uscito. Aveva letto la lettera, pochi minuti prima.
E aveva fumato quella sigaretta pensando a mille lettere non scritte e a una quantità disordinata di parole che aveva scritto nei pensieri ma mai lasciato liberare. Aveva ogni volta imputato al suo segreto, e sempre negato e mascherato, pudore quell’argine, fisico no, ma vissuto come tale, che aveva fermato le dita tante volte da non poterle ora nemmeno numerare.
Persino nella scelta e nella rinuncia di specifiche parole.
Aggirate e nascoste come le pesche di quel muro, così mature.
A volte era stato il fumo di una sigaretta il pretesto per non mettersi a scrivere, rinviare e non fare. Ma nella notte colorata dai rumori e dal vento sottile di mare, sentì diverso, differente in gola, il senso e il sapore della sigaretta che aveva appena finito di fumare.
Rientrò perché avrebbe scritto, anche se non sapeva cosa, come, quanto, né con che parole.

L’uomo era uscito. Aveva fumato una sigaretta, ricordandosi di una finestra appannata di notte, un tetto e due alberi.
E di altre sigarette messe lì per quella necessità che anche la malinconia dell’amore potesse respirare. Aveva pensato.
A parole che si era proibito di dire, scrivere e sforzato anche di non pensare. Non per censura, e nemmeno per pudore, ma perché nemmeno aveva avuto bisogno di doverle dire, per sentirsele ascoltare. Come il fruscio del piccolo topo sul muro lì fuori.
La sua presenza fatta di pesche e mele, ritrovate cadute dal foro più alto del muro, e poi riprese e riportate su, con consapevolezza elementare. Senza bisogno nemmeno di farsi vedere.
Si accorse di scottare, e di essersi seduto a scrivere in modo del tutto naturalmente consapevole ed elementare.

L’uomo era uscito ed era rientrato e si era seduto.
Ne aveva fatte di cose.
Per mesi. Eppure ritornava lì, fisicamente, con una sensazione che non ammetteva soluzione di continuità alcuna, dietro quel vetro, con una regolarità che non richiedeva parole.
Pensò a quante cose non si concludono nella vita perché non si accetta nemmeno l’idea che possano cessare. Alla sensazione vissuta solo due sere prima, finendo di leggere di Murakami e di una ragazza giapponese che lui era certo di conoscere e avere incontrato e amato in una delle sue vite parallele. E a come leggendone la storia, lui, la piccola Sumire la amasse, riposto il libro, anche ora.
Pensò a quel vuoto umido, viscoso e dolente che lo aveva avvolto al finire delle parole sulle pagine del tascabile appena chiuso.
Pensò che una sigaretta era la stessa cosa in fondo, il tempo immisurato, immisurabile che è sospeso e non contiguo. Gli venne voglia di accenderne un’altra, ma continuò a battere la tastiera. Ne aveva fatte di cose, e ricacciò l’idea all’istante di cercarne un filo che fosse nesso e bussola e trama o ordito. E rincorse un attimo solo ogni parola che non aveva scritto in fila dopo le altre.
Ne ebbe vertigine. Ma aveva un buon sapore e potè quindi abbandonare quella ricerca e rimettersi a pensare.
Realizzò quello che sapeva già e nemmeno lo stupiva più scoprire e riscoprire: che in ogni cosa c’era la finestra. Che avrebbe potuto scrivere di ogni riflesso su quel vetro, goccia di condensa trasformata in pioggia, con la stessa minuzia di particolari con cui il piccolo topo avrebbe saputo distinguere ogni dettaglio del suo muro. Che sapendo dipingere avrebbe potuto disegnare ogni dettaglio del suo muro.
Il pavimento. Persino un copriletto.
Scrivere del rumore degli operai del piccolo cantiere nel mattino. Dei passi sull’assito provvisorio fuori dalla porta alla ricerca del sole. Era sabato e c’era il mercato sotto i portici, piccolo, poche bancarelle di cose piccole e di semplice sapore.
Rimpianse di non aver comprato un cappello buffo, di lana, a causa di una telefonata.
Con il finire dell’estate sarebbe stato forse provvidenziale. Ora.

L’uomo salvò il file.
Poi ricominciò a respirare in modo regolare, cosa che gli succedeva a volte alla tastiera dopo aver scritto le sue parole. Di accorgersi di aver scritto in apnea, come quando si svegliava a volte nel sonno senza fiato. E si metteva a guardarla dormire.
Si stupì di quel respiro e senti l’esigenza di limitarne, per la paura inconscia che la privazione avrebbe potuto dargliene dolore, la felicità profonda e quindi di fumare.
Chiuse, cercando di non far rumore, quella finestra perché lei, sdraiata, rannicchiata su un lato nel letto sfatto, scoperta e verniciata dalla poca luce prima dell’albeggiare, non prendesse freddo mentre dormiva e uscì a fumare.
Il tempo di una sigaretta, fumata in fretta, per prendere dell’aria e non scottare, quando sarebbe rientrato e si sarebbe stretto a lei, le guance e la fronte. Perché lei era lì, prima dell’alba, e lui aveva bisogno di poterla stringere ed abbracciare.
Al file, prima di uscire, dette un nome.
Poi lo cambiò per il loro patto di sempre.
E per pudore.