L'animale
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Non so che cosa sia.
L’animale che mi sento dentro.
E che sta, a fasi alterne, governandomi persino il respiro e il ventre.
E’ un’inquietudine sottesa che mi segue da giornate, che fa da sottofondo
persino ai rari attimi in cui credo sia via e mi riconosco lucido. Poi, ad
esempio, ora, siedo alla tastiera e l’animale sale. Sale. Sale.
E io faccio fatica a concludere il più piccolo gesto che da sempre mi è
familiare.
Lavoro al sito, ma più che lavorare giro in tondo intorno alla nuova pagina.
Studiavo così da ragazzo, ricordo giornate intere passate con l’animale.
Ma allora l’alibi era l’adolescenza. L’inquietudine. L’assenza di un punto
gravitazionale volutamente perseguito.
Era fame. Mangiavo pochissimo allora.
Fumavo quantità smodate di sigarette senza filtro.
Quasi non bevevo.
Era come vivere un bollitore che non arrivava mai alla decisione dei suoi cento
gradi vivere quelle giornate. Lo conoscevo bene l’animale.
Allora avevo un piccolo trucco, per domarlo, il mio flauto da incantatore e lo
sentivo calmare. Prendevo un foglio, un quaderno. Pennarelli e chine. Penne
all’inchiostro di china di vari spessori. Che tracciavano righe di soli quattro
colori, a volte meno. Nero, rosso, di un rosso colore sangue illuminato, blu che
sembrava azzurro mare e verde denso come la bachelite delle vecchie stilo
Pelikan.
Disegnavo i miei Mirò. Reinventati ad uso personale.
Mio. E dell’animale.
Profili di volti colto di lato, che si intrecciavano se volevo disegnare un
bacio, piccole stelle fatte di righe incrociate che spesso erano anche occhi.
Poi aggiungevo una , due, tre frasi.
La carta era quasi sempre a righe ed era già opaca e un po’ giallina, quasi un
ocra leggero prima ancora di essere invecchiata. Per qualche ora quei disegni
avevano ragione dell’inquietudine esistenziale mia e dell’animale.
Solo ore.
Ecco. Ora lo sento muoversi, cammina nello stomaco, mi sembra che salga e mi
pare quasi di soffocare. Non riesco a stare fermo. Ma mi alzo e dopo mille volte
nemmeno io so dove e che senso abbia alzarsi e andare.
Scarto le idee una dopo l’altra. E’ fisico l’animale ma non è solo sul campo di
battaglia fisico che ama vincere e governare.
Forse sarà perché sono giorni che vivo con troppe preoccupazioni. E poi sono
quasi sette che non esco da casa e sono anche stato davvero male.
In parte è fame chimica, lo so, la riconosco. Succede così quando decido, ed ho
deciso ora ancora, di smettere di fumare. Sudo. Ho dolori. Ho ansie che
sollevano il diaframma e mi fanno soffocare.
E poi, di fondo, è il vuoto.
L’assenza. L’attesa. Il chiedersi mille domani. Mille domande su come possano le
cose continuare.
L’animale ci scorre dentro. Ci sa fare.
Trova ogni ansa imputabile ad una qualsiasi di queste ragioni.
Sa lavorare.
Sa scavare.
E allora so cosa farei. Cosa dovrei davvero fare.
Andrei via.
Andrei lontano dove raggiungermi sia una scelta vera. E solo il fatto di aver
preso il treno, l’aereo, la nave, o tutti e tre i mezzi di locomozione, lo
stessero a dimostrare.
Andrei in India, ci tornerei ancora, come quasi 30 anni fa e venti dopo ancora.
Andrei dove, mentre sei in viaggio, non puoi pentirti, decidere di tornare
indietro e ritornare.
Dove non hai radici se non ricordi emozionali.
Dove non c’è comodità di linguaggio e comunicazione, o almeno dove è più
difficile comunicare. E sceglierei un piccolo villaggio, o alto sopra i monti
alti più della leggenda o a metà, sul mare. Lascerei detto dove sono.
La scelta non è poi quella di sparire, solo quella di andare. Ma nel villaggio
solo un generatore.
Niente parabole, telefoni, niente copertura cellulare satellitare.
Niente rete, messaggi, mail,
Lascerei detto dove sono. Forse scriverei, credo di sì, anzi senz’altro sì.
Per me solo. Anche le cose non scritte per me avrebbero solo me a guardare.
Per me. E per chi poi, magari ritornando, io, dopo, potrà, volendolo, magari
leggere in differita.
Sì, scriverei, perché in quel silenzio ascolterei. Me e l’animale.
Manderei solo lettere su carta, scritte lentamente, per essere leggibili, e con
fatica. Come un tempo usavo spesso fare.
Chiuse in buste di carta marrone. Con la grafia che fa trasparire in ogni
lettera deforme una emozione.
E aspetterei il giorno della settimana in cui arriva dalla città col mercato il
camion che ha funzione di postale. Aspetterei per leggere.
Lettere. Di altre persone e della loro lotta coi loro animali.
E poi, nell’ora calda che precede il tramonto e l’arrivo dell’ombra lunga a
dissetare, sarei in centro al paese, sotto gli enormi alberi di fico. Tutte le
sere. Vestito di chiaro, di cotone.
La sacca col computer in attesa che diano il via al generatore per poterlo
ricaricare.
Starei tutte e sere seduto lì. Un piccolo rametto di sandalo in bocca, al posto
della sigaretta perché avrei davvero finito anche di smettere di fumare.
Tutte le sere lì, come avrei scritto in ogni lettera mandata via per nave.
Ad aspettare.
Perché qualcuno magari sarebbe arrivato proprio quel giorno a liberare me
dall’animale.