Fotogrammi e parole.
Macchie nere su bianco digitale

 
  (René Magritte - Fotogrammi)  

 
 
 
Di cosa e come scrivere dopo mesi di silenzio dei tasti e delle dita. Forse di quel silenzio.
Il silenzio più rumoroso della mia vita.
Se fossi un regista o uno sceneggiatore credo lo renderei in qualche modo in un film, per come l’ho vissuto. Intanto perché nel silenzio a volte si agitano fin troppe voci, e alla fine il silenzio sembra nascere dall’elisione che, incontrandosi, le fa azzerare, come due poli elettrici, che opposti fanno lo zero, così quei suoni interiori. Urlano forte, potrebbero diventare montagne di parole, ma si sommano e si azzerano, onde contrarie e contrastanti nello stesso stagno di pensiero. Se fossi un regista, le userei ora.
Oppure le terrei per come ho imparato ad ascoltarmele dentro, quando non ne volevano sapere neanche stando ore alla tastiera di venire fuori, di sciogliersi da quel nodo che le azzerava e annullava mescolandole in questa miscela che faceva inesorabilmente zero. Userei l’urlo senza voce.
E il silenzio così concavo da farsi voragine di vertigine, come la rampa di una scala rimasta appesa a se stessa, dopo il crollo in un film spettacolare dell’intero grattacielo.
Userei i cieli.
Per rendere il tono delle voci, attraverso ombre e luci. Vita e soffocamento, alterni, dei colori.
Se fossi dietro una macchina da presa, userei anche il rumore del motore.
Che scandisce la pellicola che corre, lo amplificherei, è il rumore dell’idea che corre, quando si dipana e svela. Se salta un fotogramma il suono sospeso, da solo, rende il dubbio, l’attesa.
Due fotogrammi saltati ed ecco nascere da quel silenzio appena prolungato i più profondi interrogativi. Tre l’ansia, e da cinque in su puoi farla degenerare in paura.
Al riprendere della pellicola un sussulto, inevitabile al tuo cuore.
Come quando dopo un silenzio in cui ti eri perso nell’attesa, chi parlava ricomincia senza preavviso a parlare. Si impara a dire altro, in quel silenzio, io credo. Quando tacciono le dita ma parlano con l’eco di un tunnel, senza sbocco, dentro, le idee, le sensazioni, i sentimenti, le paure e i desideri.
E’ come averli scritti tutti dentro, averne fatto tappezzeria interiore.
Se provi a scriverne poi è come leggere i manifesti appesi ai muri. Dove il muro sei tu e i manifesti sono loro. Le parole che non hai scritto, non hai saputo, non hai potuto, non sei riuscito a scrivere per mesi e mesi.
Poi, come dentro un guscio, le prime parole picchiano e rompono e hanno ancora nuovamente voglia di uscire fuori.
Cominciano così, parlando di quando stavano celate, chiuse, si negavano alla dita, al monitor e alla tastiera. Non trovavano parole alle parole, non ritrovavano una via.
Forse perché in questo tempo e di questo tempo sospeso e in perenne attesa non avevano ancora maturato tutti i colori.
Erano abituate a parlare di passioni, avevano come luce, comunque, persino quando scrivevano di nero, solo il sole. Poi cambiano le cose. E si aggiungono, lasciando impreparate e mute le parole, altri colori e luci differenti, meno sicure. E le parole stanno dentro e non escono e si negano alla scrittura, forse hanno come te paura.
Poi battono piano, come le dita che non sono mai dieci ma cinque al massimo sulla tastiera e il ritmo è sempre quello che conosci, strano, familiare e strano. Rompono il guscio dell’indugio, all’improvviso lo sentono fragile, è un attimo, come ora. Le ascolto uscire.
Ne riconosco il passo, mi rincuorano, mi rassicurano nell’uscire.
Non sono soffocate e non sono soffocato da loro io.
Vogliono dire qualche cosa, non credo escano a caso proprio ora.
Forse fissare un appuntamento.
E dopo un altro e un altro e un altro ancora. Con me, per prima cosa, per prima tappa loro, questa volta.
Bentornate, mi aiutate anche voi a governare le ansie e le paure. Macchie nere, su un bianco candido. Digitale.