Trittico della Moldava

 

 

Il volo

L'aereo.
La vibrazione ripercorsa e scossa del suo corpo. Lamiera che pulsa del contrasto al vento solido come un muro o un'emozione.
Il passaggio tra una nuvola e il sole, tremulo e quasi varco di porta, quasi da acqua a vapore. Dentro.

Poi l'affondare morbido, aria che si fa densa, quasi viscosa, fluido compatto da sciogliersi solo percorrendolo. Crema di uovo addensata rotta dal cucchiaio, a farsi cicatrice subito dopo che l'hai squarciata. Oltre.

E gli occhi che si chiudono perchè a volte si vede meglio ciechi. Si sentono i colori, gli odori e quella corsa dentro, avvolta, rimbomba di motore e sa cantare. I suoni.

Scosse di turbolenza, l'aria che si ribella e poi si fa doma. Sembra avvitarsi in volo e aggrapparsi al fluido come se avesse mille mani.
Nervi avidi di emozioni.

Tu. Puoi sentirla, lì, seduto, anche nel tremito delle lamiere, nel sibilo che filtra appena ovattato dal respiro dei motori.
Lei è l'aria e tu lì in volo, dentro, in lei, sciolto. Avvolto.
Scosso da turbolenze ed emozioni, tremito di lamiere, mille fili fatti di aria nell'aria sospesi, voglia che traccia rotte e cuce come un ago nubi.


La voce della hostess in quel momento sì, mi ha scosso.
Fatto tornare quel che erano un tavolino, una poltroncina scura, una retina di giornali, un volo. E l'aria aria, e non la corsa per lei, dentro di lei.
Fatto tornare il viaggiatore al tavolino, alla poltrona, alla retina dei giornali, all'interminabile attesa del bacio della terra alle ruote, che sembrano scontrarsi, e non farlo mai, quasi rinviassero per gioco un bacio.
Un bacio che si fa morbido, volvente, rotola su se stesso come se fosse scivolo di lingue, e scioglie l'attrito di quel che sembrava dovesse essere solo schianto magnetico improrogabile eppure a lungo atteso.

Hanno tardato molto a riconsegnare i bagagli.
Nell'area dei nastri trasportatori faceva un caldo infernale.
Un terribile desiderio di bere acqua avere aria sul viso e fumare.
La folla intorno, e i suoi rumori, i suoi percorsi di formica e le sue mille traiettorie di pensieri.
E tu. Hai desiderato ancora di essere in volo.
Ritrovando ancora, in ogni cosa di quel volo, lei.


Malastrana

All'atterraggio, là, in attesa, quasi prenotata, c'era.
C'era la nebbia.
Sottile, quasi grigia, fina, stesa a disegnare il corpo come un lenzuolo alla mattina.
Che uno dice, ora foriamo le nubi e la città nell'atterraggio offre le torri della sua scacchiera infinita, e arrocca solo per me re e torre su in collina.
Le nubi erano nebbia bassa al punto che il contatto con la pista è stato un imprevisto e la città si è offerta quasi piatta, immaginata più che vista, celata oltre le palazzine dell'aeroporto.
E la collina. Quella. Che se avesse un segno per ogni occhio che ci si è perso, ritrovato e riperso per scelta emotiva sarebbe carica di cicatrici.
Verde incastonato con le sue strade inerpicate e curve.
La notte, tardi, trovi poche persone a camminare lì. A Malastrana.
Poche persone e il battere ritmico di tacchi e passi, nel silenzio lasciato dietro di loro dai turisti, colpi di passi che non vedo, nella nebbia che non vela a sufficienza da negare, ma trasfigura.
Poche persone lì alle quattro prima che l'alba sciolga il velo del prestigiatore che avvolge il sonno della città fino al mattino.
Poche persone lì, sulla piccola via, inerpicata di infinite botteghe chiuse come gli occhi di un'amante prima del giorno.
Poche persone, mille fantasmi.
Di loro, impalpabili di nebbia e ombra, nessun passo, solo l'alito pulsante nelle tempie e nella testa, carica di assenzio.
E vino.
 


Il pianoforte e il vino

La sala apre quasi mai, nel Castello lì in collina.
Residenza di sovrani e governanti, destinato a non conoscere nebbia alcuna. Isola sopra il bianco che sale le pendici, nave di mura, stucchi, lampadari infiniti.
Tavoli circolari, perché scorrano tonde le parole, assieme al vino e ai desideri. Piccole tresche, giochi di seduzione alimentati dagli specchi alle pareti, dalle statue di donne che reggono il soffitto facendone cielo. La ragazza dagli occhi di peltro chiaro si avvicina.
Scivola il rosso nel bicchiere.
Sorride.
Sembra più piccola e più giovane nella divisa di quanto probabilmente sia.
E’ bella, molto bella.
Sorridi perché altro non sapresti immaginare e perchè i sorrisi nascono da soli, da semi dimenticati magari da un paio di stagioni.
Note dal piano, la prima quando si comincia a suonare è inevitabilmente un colpo di cannone atteso, anche se è leggera. Il pianoforte lucido, riflette nella sala un po’ oscurata credo un migliaio di candele, arrossate, appena appena accese, appese.
L’uomo al piano è piccolo, il piano enorme.
Il piccolo uomo doma le note e il drago con le fauci aperte da cui escono a cascata.
Sembra guidare quel carro strano in punta di dita, conoscerne ogni segreto, intimo e nascosto, quasi negato. Sfuma in pausa e poi riparte, accelera fino a farsi orchestra intera e far chiedere, a chi davanti siede, quante mani, dita, emozioni si celino nell’uomo canuto seduto su quel trono, portato su a fatica da venti uomini per la lunga e ripida scalinata principale solo la mattina prima.
Eppure così leggero ora da volare appeso al filo delle note.
Gattaca. Poi Lezioni di Piano.
Ti accorgi di avere gli occhi chiusi e di essere contemporaneamente lì e altrove. Forse perché quello che l’uomo, buffo col cerchio degli occhiali in tartaruga, sembra catapultato lì da un ghetto anni venti, quello che estrae adesso dal suo piano da prestigiatore lo conosci,e la familiarità richiama altre familiarità, e fa volare.
Ad occhi chiusi. Via.
E perché la corsa delle dita ha ritmo di passione, di corpi stretti, di braccia, sessi, fiati, reni e ripetuto ritmico morire. Sei lì e sei con lei in una stanza sopra un letto.
Un copriletto a terra. Come un mantello di raso bordeaux gettato prima di salire quelle scale.
Nell’ombra di due luci incrociata dai comodini il lenzuolo accoglie ombre di due corpi incrociati e uniti. Ics di gambe e braccia che si richiude in un abbraccio umido, come un fiore in assenza di luce.
La donna che ti siede a fianco aspetta che la musica si lasci riassorbire nell’aria, che torna a farsi quasi fisicamente calma e placata dopo la tempesta, fisica e reale delle note.
Sorride e ti chiede perché ad occhi chiusi sorridevi, e dove eri con la testa, prima, mentre il Maestro suonava.
Perché sorridevi, ma soprattutto perché in quel modo, e dove eri mentre sorridevi.
Sorride e tu sorridendo rispondi. Perchè i sorrisi nascono da soli, da semi dimenticati magari da un paio di stagioni.
E a lei hai anche voluto e ancora vuoi bene.
E sai che con lei farai l’amore.
“Qui e altrove. Ma ti giuro, ero felice e stavo bene “
Poi le carezzi il viso e riprendi in mano il bicchiere.
Il Maestro Nyman chiude l’ultimo inchino ed esce dal salone.
Qualcuno ridà tensione a tutti i lampadari e a un cielo argentato di lampadine.

(A Michael Nyman, a una ragazza che sorride quando serve il vino. E a una ragazza che ascolta la musica guardando te mentre sorridi ad occhi chiusi)