Tufello Honey
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E' freschezza. E' qualità. La donna con il ciuffo rosso, appesa alla parete, poesia un po' grottesca di un mercato. Scheggia di paese. Una bancarella di libri popolari. Ma c'e' un albo illustrato di Ridolini ! Occhieggia lì tra improbabili libri di cucina e storia di lacrime e di amori e di personaggi schizzati della storia alla leggenda, gioco di scrittori che nessuno saprà mai essere nemmeno esistiti. Se Van fosse passato di qui in una giornata come questa chiusa tra un paio di acquazzoni, avrebbe cantato non Tupelo Honey. Tufello Honey suona quasi familiare. Come il suono del mercato alla schiusa delle persone. Un sacchetto di broccoli verdi come alberi bonsai da minestrone o come letto per la pasta. La verduriera di fiducia che si investe di ruolo e ricorda quel che manca alla cucina. "Ruchetta? " La piazza quadra e i passi ad angolo retto nel mercato. Un cesto di porcini, pochi, non grandi, quasi regolari e discreti come ogni mercanzia lì dentro. Passa una donna che ne tiene due in mano come fiori. Piccola gola di quartiere. Sapore di carezza familiare in ogni acquisto, voglia di allestire e vestire e offrire piccole cose anche ad un tavolo familiare e popolare. L'acquisto del pane e quel gusto, sapore di mezza pagnotta grande a crosta scura rotta dalle crepe, di entrare sulla crosta nel sacchetto, ospite, chiuso lì con l'odore di carta buona marroncina, lievito e farina, scivolare nei riti quotidiani di qualcuno e perdercisi volentieri. La gente non ha rumori distinti nel giro di giostra all'interno del mercato. L'aria sa di acquisti oculati. Scegliendo il dove il come il quando e il quanto. Mercato di romanzo popolare. Quartiere fatto per passi familiari. E' come entrare in una casa di cui conosci ogni passo e ogni scaffale senza nemmeno esserci mai entrato prima. Fino a sapere dove sta per necessità ineluttabile ogni cosa. Ci son quartieri e ci sono case in cui forse probabilmente hai semplicemente già vissuto. Strade squadrate da geometria abitativa, ricerca d'ordine umano nella logica di strade, un parco che non ha mai conosciuto glorie né credo grandi amori clandestini. Neppure la siepe alla ringhiera e alla chiusura conosce verde e rami. Probabilmente da mai, a giudicare dal contorcersi di rami spogli e secchi in disordine totale. Scale che portano di scala in scala di casa in casa. Piramide di case a degradare, in leggera salita, ogni passaggio schiude una vista che rinnova uguale. La corte con le case mute al mattino. Scale che in un film monteresti poi con passi affrettati di rientro e poi ancora con passi frenetici di fuga al mattino, verso le zone del lavoro. Con il gioco delle luci a dare ritmo e senso del tempo. Il tempo lì è sospeso. Sospeso nelle strade e nella menta selvatica o inselvatichita che scorgi in un'aiuola e puoi raccogliere per il profumo di tenerla anche soltanto in mano. Dilatazione spazio temporale. Senso del sempre racchiuso in un minuto. nelle strade e nelle case. Le piccole piazzette verdi, i cortili uno sull'altro, palazzo di Semiramide di periferia hanno muretti. Se sono asciutti, prima controlli ma poi ti macchi ugualmente i pantaloni di muffa verde di piogge lontane e ripetute e ombra, ti ci puoi sedere e farne panca. Guardare in giro a ruotare testa e pensieri, o a cavalcioni guardare chi ti guarda e scambiare viso a viso le parole e il vento del respiro. L'aria è di quelle che ti fan domandare se sia autunno o primavera. Puoi girare il quartiere a cerchi rettangolari senza mai avere la sensazione che su se stesso si richiuda. Prendi come riferimento una scritta nera. Assurda e un po' grottesca. E dici, poi magari, sì, ma perché andrebbe fatto di notte e protetti dai fari, no. Ma davvero ci metteresti una correzione. "..ma poi ti fanno nero, ci dev'essere qualcuno che fa la guardia a tutte le ore…" Se Van fosse stato lì a scrivere una sua canzone. Il miele di Tupelo, con la effe un po' burlona e dal suono un po' sbruffone, il miele di Tufello, anche la doppia elle diventa un po' simpatica e cialtrona, arrotonda il senso popolare, il miele allora avrebbe avuto colore e odore di caffè uscito sul fornello. Il buon odore del caffè e quell'acre inconfondibile di brucio tostato sulla fiamma. Ci son fornelli nati solo per quello. Parola. Io ne sono certo. A raccogliere il caffè dei distratti. Perché hanno un disco da ascoltare, un foglio da guardare o pensieri da lasciarsi trasportare. O, semplicemente, altro da guardare. Dopo il caffè nelle tazzine è meno e l'aria ha quell'odore, persistente e del tutto familiare, un po' particolare. Se Van avesse scritto lì del miele avrebbe citato quella menta, credo. Di fine stagione, nascosta tra le erbacce di un piazzale e scesa a dare odore alla mano. Poi avrebbe aggiunto al miele, l'odore del mandarino. Di un frutto fuori stagione. Che si regala solo perché credo ha simultaneamente un bel colore, sapore di Natale anticipato per chi sa regalare e profumo che ha un fascino di carezza orientale. L'odore è persistente, avvolge e satura, colma e si fa mantello e copre bene persino l'acre del caffè bruciato. E' un odore che carezza evoca e fa sognare. L'uscita dal quartiere, quadrangolare come una città fortificata incastrata in altra cosa, è sotto l'occhio vigile della signora col ciuffo rosso sparato a meche sul manifesto. Qualità e freschezza. Te lo ripete anche prima di andare, sa di arrivederci, di rinnovato appuntamento, all'uscita del paese. Di odore dolce e fresco nel respirare, e nel naso e ovunque, avvolto intorno, lo senti fino sulla pelle, l'odore di un Natale popolare. Anticipato. Per capriccio di stagione e di cuore. Profumo persistente e morbido del mandarino. Arancione.
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