The feethunter  (ovvero, il cacciatore di piedi)

  Scrittore e fotografo, come gli esploratori dell'ottocento, a caccia di minerali, piante, città perdute nella giungla o in un deserto.
Una battuta di caccia grossa.
Fotografando e cacciando, però, piedi. I propri, o piedi conosciuti, oppure piedi sconosciuti, nudi, calzati, impegnati nel riposo o nella visita a un museo, nello sport. Al lavoro.
Per ogni piede raccontando una sua storia.
Nata guardandolo, per la curiosità di una scarpa, di un abito sopra la scarpa, di una situazione, fosse normale, fosse bizzarra. Lasciando libera la fantasia di inventarsi ogni volta, per ogni piede, una intera vita.
E adesso, a caccia...

 

 
 


La scarpa inglese e la medusa rosa

 

 

 

     
 

La scarpa è a punta. L’unica impronta a punta su tutto l’arenile, proprio lì. Di fianco alla piccola medusa rosa.
Lo sguardo dapprima è attirato dalla forma della scarpa, della suola affusolata, quasi lieve. Il tacco, invece, inciso a fondo nella sabbia bagnata sembra quasi scolpito. La suola disegna un’impronta inglese, immagini la scarpa allacciata, lì dove l’onda ancora arriva. Un’impronta sola. Come quella di un uccello atterrato su una zampa sola dal cielo.
Un fenicottero con una zampa piegata. Una gru, un airone. Un uomo con una sola scarpa da città che salta sul bagnasciuga? Un’impronta sola.
My left foot, ripensi al film. Poi noti la medusa.
Il piede deve essere atterrato incuriosito da quel globo luminosi di gelatina bianca e rosa. Forse era un turista inglese, la forma delle scarpe può essere la sua. O tedesco, oppure un cameriere in camicia bianca e farfallino, venuto in spiaggia dal ristorante lì vicino, oltre la strada. Arrivato a mordere come un gabbiano il luccichio gelatinoso - tu stesso sei arrivato lì attirato da quello - visibile quasi da lontano, oplà, in un balzo solo.
La spiaggia è un labirinto misterioso di impronte rese illeggibili nello sviluppo dei percorsi dai tagli lisci perfetti, leccati come la vaniglia di un gelato, dalle differenti onde di risacca. Piedi nudi, tantissimi, di ogni misura e lato. Sinistri, destri, accoppiati, a quattro o in gruppi più numerosi. Impronte di due cani, una serie corre da sola. L’altra a lato di piedi grandi, calcati nella sabbia, piedi di uomo. Azzardi almeno quarant’anni e quasi cento chili. Poco distanti quelli di un bambino, piccoli, poco scavati nella sabbia, lievi. Scarpe col carrarmato, a righe, impronte a pallini, a zigzag. Piatte e ovali. A cerchi sotto la suola.
Ma una sola di una scarpa sinistra a punta. Una sola. Di fianco a una medusa che marcisce al sole.
Deve essere, sì, atterrata lì per curiosità, scesa da un cielo travestito da primavera, nell’ ottobre miracolato. Oppure giunta lì di un balzo solo dalla strada, oltre venti metri più lontana. Sì, my left foot, un solo piede, un piede solo.
Un balzo unico, tutto in un solo piede. Lo vedi dal calcare a fondo del tallone che deve essere proprio così, l’uomo da un piede solo non può avere camminato. Volava. Ed è’ atterrato.
E ti domandi allora di che colore le sue ali, e se la medusa sia parente delle decine che scorgi ora sparpagliate a riva a est, poco lontane. Morte tutte sulla stessa riva dopo la fine dell’estate.
Ti asciughi nel telo blu, ora hai freddo, qualche brivido lungo la schiena, il calore che ti ha donato avvolgendoti il mare si è scontrato col vento che arriva da ovest. Dalla Francia che non è così lontana. Ti allontani. Non vedi che la risacca si è rubata la medusa, riportandola nel mare.
E ha cancellato l’impronta del piede sinistro di una scarpa da città. Presumibilmente nera, lucidata come si deve,con le stringhe ben allacciate dello stesso colore. Arrivata lì per caso. Da chissà dove.