XII bis La tesi temporale fiamminga
i
Ma i visi?
E i corpi?
Il narratore si accorge ora di una gravissima mancanza.
Di un errore dovuto alla ricerca sempre più rapita dei documenti là nella
biblioteca della città antica e di come dei due in fondo non si sia detto nulla.
Di come e chi siano, dei loro anni, dei visi e della loro storia fino a quel
guado.
Se fosse un romanzo e non la cronaca di un particolare viaggio, quasi l’emblema
e il simbolo del viaggio, questo sarebbe probabilmente cosa assai grave.
In violazione alle leggi elementari del narrare.
Quelle che fanno sì che l’autore abbia in mente, perché è il mago e null’altro,
quasi una foto in tre dimensioni.
Prima ancora di cominciare a posare la penna.
Di lui. Di lei. Dei principali personaggi.
Vuole la norma che chi poi narra, o per meglio dire in questo caso, se di
romanzo si trattasse, e non di cronaca ricostruita, inventa e scrive, debba
avere la capacità di scegliere e disseminare piccoli indizi, note, tratti quasi
per incidente di percorso, e non per strategia ben congegnata, dettagli fisici o
anagrafici, che permettano a chi legge di veder nascere un personaggio
funzionale.
Delineato per summa di dettagli congeniali alla narrazione, fino a diventarne
immagine e immedesimazione.
Questo nel romanzo.
O in un genere narrativo di fantasia.
Ma il paradosso qui, dove tutto sembra godere dell’alea dell’incertezza e
apparentemente della fantasia, è che in questo emblema di viaggio nella vita,
libero da condizioni logiche ma logico in se stesso, i personaggi, che poi sono
persone e non figure ci siano lo stesso.
E che, in fondo, non abbia senso se in un’ipotesi sono coetanei e assai giovani
mentre in una ricostruzione di giorni successivi o precedenti uno, nel tempo del
prima o in quello del dopo, indifferentemente, superi l’altro o viceversa.
Il ricercatore ha foto databili in sequenza e anche schizzi in cui col passare
del tempo uno dei due sembra ripescato da immagini precedenti o anche
successive.
Senza logica di conseguenza temporale.
Come un elastico piatto e largo, nero, teso o accorciato per burla, che vede lui
castano, grigio e poi castano ancora o verde come se fosse capriccio di stagione
e non stagione della vita.
Se fosse un romanzo questo, ovviamente, non avrebbe alcun senso.
Se fosse film, scenografo, sceneggiatore e regista avrebbero problemi di
critica, di comprensione e di consenso.
E’ lecito far ringiovanire per flashback o ingrigire per proiezione dei
personaggi a chiusura della storia.
Vent’anni dopo…
Sei anni prima…
Ma nulla di questo si trova nei documenti.
Nessun filo che leghi i fatti, nella cronistoria in cui si possono enunciare e
datare con le loro stagioni.
Io, che narro qui soltanto, che mi avvalgo del lavoro di altri nella ricerca,
che infilo solo perle di notizie su un filo, perché comunque un filo per
convenzione esista, riesco però a vederli.
Come in foto incollate su un pannello.
Sospesi come il loro tempo.
Una tesi sostiene che il tutto fu lungo una vita, avvolta e riavvolta come un
filo su un rocchetto.
Ma altra spiegazione ricorre al concetto del tempo nel tempo, nelle scatole
cinesi di livelli e piani differenti.
Alla sospensione dei parametri normali del tempo se è tempo di cuore, pensiero e
vita e non di calendario.
La misurazione della durata dell’orgasmo e del piacere è un esempio, assai
banale, di questo paradosso.
Quella della quantità di pensiero rinchiudibile in due persone di fronte ad un
loro istante ne è altro esempio.
Ogni risveglio sa essere alba, e se una notte ne vede nascere diversi, per quale
ragionevole motivo ad ogni risveglio non corrisponde, se non per convenzione, un
giorno?
L’obiezione può essere la durata di quei giorni vissuti senza che cessi il buio,
inanellati, la misurazione coi classici strumenti del tempo.
Ma non esiste tempo razionale per la misurazione delle emozioni, dei piani
sovrapposti paralleli che ogni pensiero porta.
Il cervello gode di molte dimensioni di pensiero parallele e sovrapposte,
contemporanee, come più menti pensanti e più pensieri, più livelli, disgiunti
anche come figure simultanee di un affresco o di un quadro fiammingo.
Quelli col ritratto in primo piano, il pensiero che gestiamo.
Poi a lato la montagna e un villaggio.
Lì in alto.
Poi un lago ghiacciato.
A destra in terzo piano sovrapposto.
Sul bordo del lago un bosco.
E sul lago due pattinatori.
Guarda i pattinatori.
Sembra di cogliere gli sguardi anche se sono piccolissimi a farsi solo quasi
macchie.
Uno dei due guarda l’altro pattinatore.
Il secondo sembra posare lo sguardo su un secondo villaggio nell’ultimo piano
della tela, in fondo.
Siamo poi certi che i piani del pensiero del quadro finiscano così?
Se l’osservatore torna al viso coglie che lì, a lato, dove seguendo lo sguardo
del ritratto nessuno soffermava l’attenzione, lì all’altro lato, c’e’ dipinto
altro.
Come si misura quindi un quadro e come il pensiero che condensa piani e pensieri
differenti indipendenti e coesistenti in un secondo solo?
Su questa considerazione si posa l’ipotesi, la tesi è più corretto, di un
viaggio che non ha misurazione di tempo.
Fatto di periodi circoscrivibili nelle date definite dai documenti ritrovati e
in fin dei conti considerabili ogni volta quasi viaggi a se stanti.
Riuniti in un tempo che essendo fatto di istantanee, da piccoli tempi e da
cerchi di vita chiusi entro l’arco di un compasso e non dei meridiani e
paralleli di un pianeta, esso stesso sia, composito e unitario, tempo nel tempo.
La tesi della vita in un secondo che spiegherebbe anche l’intensità dei brevi
tempi.
Se fosse un romanzo si parlerebbe di occhi azzurri. Verdi, castani, neri…
E di una tensione sotterranea e ininterrotta dal nulla al nulla.
Lui avrebbe una età definita e mutevole con lo svolgersi degli eventi.
Lei pure.
Avrebbero capelli che si allungano e accorciano.
E cambiano colore.
Abiti di fogge differenti.
Avranno fatto cosa, fuori da quel tempo?
E dove?
E dopo?
Ma in un tempo chiuso dentro un cerchio a matita pastello su un foglio di carta
scura blu sono domande forse senza senso.
Non influiscono e determinano nulla del loro viaggio.
Non definiscono loro né il loro viaggio.
Chi narra, un’idea se l’è fatta anche.
Ha il vantaggio di conoscere almeno i volti, gli occhi, i movimenti.
Di aver aperto buste di documenti che nella narrazione non troveranno spazio e
luogo.
Un’idea se l’è fatta.
E’ il piccolo privilegio di chi narra.
Se fosse un romanzo sarebbe il progettare dei protagonisti.
Se fosse un film la base del casting e della ricerca dei volti, dei corpi e
degli sguardi.
E’ solo una raccolta di documenti, niente di più che il lavoro del cronista.
Riordinati e liberati dalla polvere filtrata con gli anni in un baule, che
nessuno aveva prima aperto.
L’immagine di un’auto parcheggiata sul margine di un fiume, lì in pendenza, in
un tempo non definito nemmeno così bene.
Definito dal sonno su quell’isola e dai mille risvegli.
Nasce così la storia che qui si ricostruisce.
Perché nel sonno non c’e’ tempo, se non il ritmo del respiro che tradisce i
sogni.
Non c’e’ misura logica né esiste anacronismo.
Non è stata questa nessuna ipotesi specifica né elaborazione di vecchi
documenti.
Solo il bisogno di chi sta raccontando di dare un’immagine, per correttezza
verso chi legge, a chi legge dei due amanti.
Approfittando di un loro piccolo sonno.
Nella piazza c’e’ un suono di campana che, nemmeno essa, rispetta le ore esatte.
Batte quasi a caso.
Con numero di rintocchi a bizza.
Scandisce meglio il tempo, lì, allora, il ritmo della pioggia e il suo
alternarsi al sole.
Al rintocco della campana, l’ultimo, quello che poi ti lascia ad aspettarne un
altro che non arriva, l’orecchio e il pensiero sospesi nell’attesa, come se
fossero sporti e affacciati alla ringhiera del balcone verde, i due si stanno
ora svegliando.
Se fosse un romanzo avrebbero un programma.
Se fosse un film una musica di sottofondo.
E’ solo un’alba anticipata prima di un nuovo viaggio.
Nota a matita sul manoscritto:
(macchia) la più probabile ipotesi successiva è quella (macchia) delle
carte ottomane.
Verificare con A. F. e (macchia) farsi inviare la lettera che col fax è venuta
illeggibile e male.
(a suivre)