I sensi di Guen

di   Alemar

 

La luce si rifletteva nel bicchiere di barricato rischiarando il colore del vino, le dita giocherellavano nervose sul tavolo, e il grigio della nebbia sembrava attraversare la porta a vetri dell’entrata di quel bar d’angolo, piccolo e affollato. Un senso di inquietudine la stava attraversando, non riusciva a contenerlo tutto, si sentiva braccata, in gabbia, chiusa in una morsa dalla quale doveva disperatamente uscire al più presto.

“La finisci di tormentarti”?

Guendalina aveva gli occhi fissi sul bordo del vetro, neri, profondi e oscurati come durante un’eclissi di luna piena, il suo essere affannosamente inquieta era percepibile a distanza, la sua natura non voleva lasciare il passo al ritmo tranquillo di quella città sprofondata nell’inverno, aveva la fame di un vampiro che non beve sangue da troppo tempo, ed ora, era arrivato il momento per lei di uscire nella notte a cercare una vita da assaggiare.

“Cosa ne sai tu del tormento”?

La sua voce arrivava all’orecchio di Amanda come una minaccia imminente, poche volte si faceva così bassa e roca, ma quando succedeva voleva dire che qualcosa di particolare doveva capitare. Guendalina viveva di questo, mordendo tutto ciò che poteva dare un succo buono per la sua bocca ingorda e insaziabile. Amanda la guardava, e la trovava ancora una volta bellissima, con quello sguardo impenetrabile, profondo e crudo, quella bocca che troneggiava prepotente e sempre schiusa, pronta ad azzannare al primo attacco.

“Sei bellissima, lo sai”?

Guendalina sorrideva ogni volta che lei glielo diceva. Se aveva una certezza nella vita, era quella di essere consapevole del fascino che dispensava con naturalezza fin dall’adolescenza. Si, era bella, bella da far male, e lo sapeva.

“Amy, Amy...che vuoi saperne tu... a parte quelle due avventure che hai avuto, cosa sei stata? Nulla, solo una donna ambigua con tendenze isteriche! La vita è un’altra cosa, credimi, la vita è di più”...

Si era accesa una sigaretta, e dopo aver inghiottito una boccata di fumo si era portata il bicchiere di vino alle labbra, assaporandolo lentamente.

“Non sei una godereccia Amanda, non hai vizi, guardati: non bevi, non ti piace il vino, non fumi... ti perdi il meglio della vita gioia mia! Ma ti rendi conto? Vivi, tesoro, dammi retta”.

“Mi piace la tua presunzione Guen, pensi di sapere cos’è la vita solo perché bevi e fumi? TI sbagli davvero, e prima o poi troverai anche tu uno che ti farà perdere la testa”.

“Magari, Amy, magari”...

Lo aveva detto con rassegnazione, come se credesse impossibile quella possibilità. Aveva riappoggiato gli occhi sul barricato, elaborando l’affermazione dell’amica. Sarebbe stato bello, anzi, divertente per lei, cadere in un’avventura come quella, fino a quel giorno si era limitata a vivere di espedienti, rasentando la morale ad ogni possibilità, rimanendo appoggiata a situazioni particolarmente precarie... circondandosi di persone poco raccomandabili, tipi strani, artisti o giù di lì; ma l’amore, quello vero, non l’aveva incontrato. In realtà non lo aveva mia cercato. Non ne aveva bisogno, non le interessava veramente, la incuriosiva, questo si. Aveva amato le donne con la stessa passione dedicata agli uomini, non si era mai tirata indietro, consumando la sua esistenza al limite del lecito, senza risparmiarsi. Mai.

“Guarda che non è così difficile Guen, basta volerlo”!

“Ah si? E dove potrei trovarlo questo essere”?

“Ovunque. La vita è piena di gente, da qualche parte c’è senz’altro qualcuno per te, come per tutti; guarda che non sei diversa dalle altre”.

Guendalina sorrideva.

“Anche qui, ora?”.

“Si, anche qui. Ora”.

Guen si era guardata intorno, ma la sua espressione annoiata non era cambiata. Poi aveva rivolto lo sguardo oltre la porta a vetri, osservando fuori, e la sua iride si era accesa di curiosità, un sorriso ambiguo le stava tagliando la bocca.

“Qui no Amanda, ma fuori si... hai ragione”...

Amanda non capiva, vedeva l’amica mentre veloce finiva il barricato, e gli occhi sempre incollati al di là del vetro, dove nel grigio scuro della nebbia si intravedeva un uomo che chiacchierava con un tizio di spalle. Se ne stava andando, stringeva la mano dell’interlocutore apprestandosi a scomparire oltre l’angolo. Guendalina si era alzata in fretta agguantando il cappotto.

“Amanda seguimi, si va a caccia”.

“Ma dove stai andando, Guen, fermati che fai? Sei impazzita”?

“VOGLIO LUI”.

L’aveva detto convinta, aveva finalmente trovato la situazione, anzi, l’aveva creata, come sempre del resto. Il momento di stanare la preda era arrivato, e Amanda tremava al solo pensiero.

“Smettila Guen, non lo conosci neppure! Cosa ti sei fumata questa sera?

Guendalina aveva guadagnato la porta.

“Sei un’illusa, tanto tornerai da me come tutte le altre volte. Nessuno ci dividerà mai! Guen mi hai sentita? Guen”!!

Lei si era voltata piantandole gli occhi addosso.

“Mi chiamo Guendalina, te l’ho detto mille volte”.

Aveva afferrato la maniglia scomparendo nella nebbia, a caccia di uno sconosciuto.
Il freddo della sera colorava il fiato di bianco, camminando frettolosamente sbatteva le spalle contro i passanti che si dirigevano nella direzione opposta, sentiva lo strano desiderio di avvicinarsi a quel tizio, era ritornata quella di sempre: una pantera famelica e astuta.
Si era immaginata l’odore dell’uomo, e ne cercava la traccia tra i passanti. Andava di fretta cercando di raggiungere la sagoma che aveva appena intravisto, ricordando come un fotogramma troppo rapido, un piumino marrone e una valigetta tra le mani. Forse un paio di occhiali. Abbastanza per la voglia che aveva di scovarlo.
La strada finiva in un parcheggio, la gente si diradava ma le macchine erano davvero tante. Si era messa a zigzagare tra le file di auto, cercando una traccia. Il buio arrancava, il freddo anche. La sua rabbia stava per esplodere di fronte alla sconfitta. Si era diretta verso l’uscita del parcheggio, poco incline alla rinuncia. Camminava con gli occhi rivolti all’asfalto umido e oleoso, poteva tornarsene a casa. Ma l’istinto le diceva che quell’odore poteva essere ancora lì, da quelle parti, non troppo lontano da lei. Aveva chiuso gli occhi, concentrandosi sull’olfatto che fino a quel momento non l’aveva mai tradita. Aspettava fiduciosa, quell’odore sarebbe venuto a cercarla.
Girandosi di spalle, aveva ascoltato una voce proveniente da un luogo imprecisato di quel parcheggio. Distingueva a fatica una conversazione a senso unico, rivolta probabilmente ad un cellulare, e immaginando la provenienza, si era incamminata verso quello che doveva essere l’angolo meno illuminato. Dietro una fila di macchine scure, vedeva il suo bersaglio mentre armeggiava con le chiavi nella serratura dell’auto, parlava al cellulare come aveva intuito. Quell’attimo le aveva messo addosso voglie strane, imprevedibili. La situazione richiedeva una svolta decisiva. Eccola Guen, mentre stanava la sua preda. Lì, nel buio freddo della città, su un asfalto umido e viscido, dove potevano scorrere le sue fantasie più accese. Si sentiva piena di quel pathos che tanti uomini le avevano riconosciuto, e con la sicurezza nel passo, si avvicinava morbida e implacabile verso lo sconosciuto. Lo aveva raggiunto con la certezza di trovarlo, le si era avvicinata standogli davanti, mordendolo con lo sguardo felino oltre gli occhiali, dentro l’azzurro di quel taglio sottile, sottolineato dalle rughe di espressione. Lui non aveva smesso di parlare nel microfono del telefono, la guardava con un punto interrogativo. Lei sosteneva lo sguardo curioso, e avvicinandosi ulteriormente gli aveva tolto il cellulare dalle mani chiudendo lo sportellino. Lui era a metà strada tra lo stupito e l’incredulo.

“Non è educato parlare al telefono quando si ha un ospite davanti”...

“Prego”?

Guendalina si era avvicinata fino a sfiorarlo, sembrava una statua di pietra, immobile, come la città buia attorno a loro. Forse dentro di lui, subiva già il placcaggio. Guen preparava il cerimoniale prima di azzannare e consumare la preda. Occhi dentro gli occhi. Aveva avvicinato il viso al suo, lo sfiorava con le labbra e lo annusava. Dilatava il suo imbarazzo, lo sgomento, l’attesa, di chi non sa e immagina soltanto.
Il freddo colorava il respiro e la voglia di andare oltre. Le mani si unirono alla danza, percorrendo geometri bizzarre. Ogni angolo, ogni curva di quel viso sembravano vibrare sotto il tocco di quell’impronta sconosciuta. Gli aveva tolto gli occhiali per guardarlo nell’iride azzurra, ora smarrita dentro di lei. Le mani avevano lasciato il viso per guadagnare ciò che immaginavano sotto al piumino. Lo vedeva per come le dita raccoglievano e raccontavano. Piccole impronte, grandi gesti. Aveva fatto un giro completo e lento attorno a lui, per tornargli ancora davanti. Tutto sembrava sospeso, vivo dentro una dimensione parallela, come il pulviscolo, la polvere sospesa nell’aria, illuminata dalla luce di una finestra baciata dal sole. Aveva nuovamente guadagnato il viso. Il respiro di lui tradiva stupore e profumo di gioco dentro il fiato bianco, nell’oscurità sbiadita oltre il lampione. Aveva la bocca vicino al suo orecchio, il tepore umido lo fece rabbrividire lungo tutta la schiena.

“Mi piace il tuo odore, sai”?

Gli prese il viso tra le mani, e lo baciò, con quelle sue labbra piene e grandi, senza rossetto. Senza possibilità di ritorno. Bocca sulla bocca, prima appoggiate, poi schiuse, giusto per giocare a conoscersi. Poi le lingue, a studiarsi, assaggiarsi. Darsi, fino ad arrivare ai contorni esterni. L’uomo non arretrò di fronte alla donna, e sulla scia di quel trasporto si appoggiò al lampione, trascinandosela contro. Guen continuava a baciarlo, con i brividi che fendevano corpo e aria come fulmini. Il contatto era profondo, come lo scavarsi nelle bocche. Il cuore pompava sangue velocemente, l’adrenalina guidava l’eccitazione portandola oltre il lecito. Ansimavano, l’uno dentro la bocca dell’altra.
Finché una voce affannata li riportò per un attimo fondamentale alla realtà del momento.

“Guendalina, è ora di tornare, ci stanno aspettando”.

Amanda non aveva potuto impedire all’amica di stanare la sua preda, ma era arrivata appena in tempo per rompere la magia definitivamente.
Si era così staccata dal piumino marrone, e ammiccando con gli occhi era arretrata di qualche passo. Il petto le si sollevava con ritmo sostenuto, nello sguardo il calore della voglia ora umida di saliva. Si guardarono, per un tempo che sembrò loro, interminabile. L’uomo sembrava proiettato fuori se stesso, come se non capisse quale fosse stato il reale e l’irreale. Tutta la situazione sembrava sul filo di un rasoio. In ogni caso, avrebbe tagliato di netto la situazione.
L’amica l’aveva presa per il braccio allontanandola da quello che per lei costituiva il pericolo presente.

“Andiamo via”.

Lo aveva detto severa, a denti stretti.
Guendalina non smetteva di guardare il suo uomo.
Raccolse con il dito la sbavatura di saliva del bacio rovente appena consumato, e lo fece sparire nella sua bocca. L’eccitazione era rimasta, e quello suonava come un gustosissimo aperitivo. Lui la guardò cercando di raccogliere i frammenti di quel momento, di quella bocca, di quella donna sconosciuta. Guardava con occhi stretti anche l’amica di lei, e si chiese cosa sarebbe potuto accadere se non si fosse intromessa.

“Ci vediamo presto, dottore”.

Già, vedersi. Ma chi era? Cosa voleva? Come rivederla ? Rivederla??

”Ma sei impazzita? Lo conosci? Chi è sto’ dottore”?

“Non so se fa il dottore, lo immagino. Credo sia un veterinario... prima parlava al cellulare di cure per i cavalli, nominava dei farmaci... e poi guardalo bene, per me è un dottore”...

“Tu sei tutta matta, poteva essere un delinquente, che ne sai tu”?

“Per essere un delinquente bacia bene”...

“Finiscila! Un giorno o l’altro mi ringrazierai per averti salvata da una situazione pericolosa”.

“Salvata? E chi vuole essere salvata”?

Amanda non aveva replicato, l’aveva presa per il braccio trascinandola via dal parcheggio.