Quell'incontro
di Alisa Mittler
Passi di lì, ogni giorno e non è un caso, lo sai. Sfiori sempre il bugnato del
palazzo: di fianco al portone c’è la targa: Nicola Cammarsini, Architetto.
Finché un giorno, davanti al bar che fa angolo, sotto il portico, lo hai visto.
Ci hai messo qualche secondo a realizzare che era lui, come succede talvolta con
le canzoni, quando ti torna il ritornello, ma non afferri bene l’intero brano.
Bello come allora, come il giorno in cui era uscito dalla tua vita dopo l’esame
di maturità. Quando con un sospiro, non sai se di sollievo, guardasti i quadri
dove c’era scritta la tua condanna alla libertà. Purtroppo non avresti più
rincorso le sue parole che ti rigavano la pelle o sguardi che lasciavano
impronte sulla tua anima.
Te lo ricordi sempre insieme a qualche ragazza magra, vestita Naj oleari. Oppure
mentre disponeva in fila, come soldatini, ragazzi con il Monclear uguale a suo,
che facevano scongiuri quando passavi. Il rospo, così ti chiamava, ogni volta
che lo cercavi, muovendoti nei tuoi maglioni troppo larghi.
Ora è qui davanti a te. E, forse, faticherà a riconoscerti quando lo saluterai.
O forse no.
Magari ti fisserà sorridendo, come sempre, con metà della bocca. Mentre ti
guarderà dall’alto, facendoti sentire ancora più piccola del tuo metro e
sessanta.
Davanti a un vino allungato con acqua minerale, che si compiacerà di chiamare
con un nome esotico, facendo schioccare la lingua, ti butterà sul naso la sua
carriera con tanto di conoscenze paraculanti, mentre tu, notando i suoi
congiuntivi bislacchi, abbasserai lo sguardo dicendogli del tuo lavoro precario.
E intanto, finché gli parli non staccherà lo sguardo dalle due ragazze in
minigonna appollaiate sugli sgabelli. Scambia occhiate d’intesa con una bionda
che, come la sorellastra di Cenerentola, vedi ammiccare alla tua gonnellina
comprata al mercato.
Reincontri così la tua amica del cuore, quella che più di tutte ti ha tenuto
compagnia durante i cinque anni del liceo: l’invidia che provavi per le tue
compagne più galle. Ti intimorivano, quando, in disparte ne ascoltavi i
discorsi. In silenzio, sempre, che le poche parole che dicevi ciondolavano nel
vuoto, abbattute dai loro sguardi .
Eppure le cercavi, come cercavi lui. Spiavi dai loro diari, frasi umide di baci
di lingua. Le loro storie , che tu origliavi, si confondevano ai tuoi pomeriggi
d’inverno. Quando, stesa sul tuo letto, ti penetravi con un dito, viva di
vergogna. E, ubriaca di nebbia, che scende presto qui da noi, venivi strofinando
il tuo sesso contro il cuscino, che era le sue mani, la sua bocca, il suo cazzo.
E poi ti chiederà, così, buttandola lì, di salire al suo studio e lo seguirai,
zitta zitta, due passi dietro. E, non appena chiuderà a doppia mandata la porta
alle tue spalle, ti sembrerà di essere ritornata dieci anni indietro.
Si siede sulla scrivania, con le mani in tasca, lasciando penzolare i piedi e ti
guarda senza dire una parola, cincischiando con il tuo imbarazzo. Indovinerà la
tua eccitazione, come la ha sempre sentita attraverso il tuo odore di donna che
non riuscivi a nascondere. Percepiva quel fantasma che evocavi apposta per
spaventarti.
“ E a uomini come va?”.
Mentre tu non sai cosa dire, e lo desideri, e lo fissi tra le gambe. E senti il
tuo clitoride che si gonfia, che vuole essere toccato.
Non riesci a trattenerti, stringi le cosce
Ora si avvicina, camminando attorno a te, descrivendo piccoli cerchi concentrici
sul pavimento. Ti lasci sfilare la canottiera, poi da dietro ti sgancia il
reggiseno. Arrossisci sapendo che vede i tuoi capezzoli eretti e che capisce
quanto lo desideri, come sapeva lo desideravi anche allora.
“Le tue tette sono rimaste uguali”
Dice soppesandole, e fa affiorare un ricordo, di una gita scolastica, dove non
sai ancora come, era entrato di soppiatto nel bagno e, ridendo, aveva aperto la
tenda, mentre facevi la doccia.
Quello stesso ricordo di carta vetrata che hai cullato a lungo tra le tue
lenzuola sudate.
Ti sgancia la gonna leggera a pois blu e la butta come uno straccio a terra. Ma
tu è proprio così che lo vuoi volgare, violento, come allora, quando ti
elemosinava avanzi di carezze scurrili
Poi, prende un paio di forbici e taglia l’elastico dei tuoi slip facendoti
sentire sulla pelle il freddo del metallo. Ti senti ridicola adesso, nuda, con
addosso solo un paio di scarpe da tennis verde acqua. Rimani immobile, e non
riesci a controllare il tuo respiro, il piacere esce dalle tue labbra socchiuse
con un sibilo sordo.
E ti tremano le gambe, mentre stai in piedi, in mezzo alla stanza, di fronte
alla parete bianca. Una cosa tra le cose: come i progetti accartocciati in un
angolo, il tecnigrafo, la scrivania, il piccolo divano dal design minimal.
Il tempo sembra non passare mai.
E lui che continua a girare intorno, a spirale, annusandoti.
Vorresti solo che ti scopasse. Subito. Vorresti il suo membro, che estrae dai
pantaloni senza prendersi la briga di spogliarsi. Ti solleva sulla scrivania .
Solo pochi colpi, netti così, e ti inonda subito, lasciandoti priva di piacere.
Soddisfatta la sua vanità, si butta sul divanetto. E allora sei tu che ti
avvicini. Il tuo clitoride, sollecitato, è gonfio ed eretto, come un piccolo
cazzo. Prendi il suo membro fra le mani, e lo stimoli per farlo ingrossare. E
poi piano, lentamente strofini il clitoride sul suo glande, avanti e indietro,
scegliendo il ritmo che più ti piace. Finché ti riprendi il tuo piacere.
E quando ti volti, sentendoti chiamare per cognome, lungo la strada, da quel
ragazzo, ritto sotto il portico, con la sigaretta fra le dita. Fa sempre uno
strano effetto sentirsi chiamare per cognome.
e..
“ti ricordi di me?”
“Forse, mi pare”
“Che fai di bello, dopo tanto tempo?”
“E Tu?”
“E potremmo rivederci”
“Si magari”
Il cellulare ora squilla, mentre te ne stai stesa sul divano della tua casa,
guardi il display e lo spegni. Per adesso.