Non lo sapevo

di  Francesca (aka Bocconcini.g)

 



L’ho salutata con un sorriso appagato.
Il tepore che si spandeva sotto il mio corpo nudo e l’enorme brocca piena di liquore forte, dolce, fruttato che mi stavano facendo bere mi accompagnava nel sonno che più di ogni altra cosa desideravo fare.
Gli occhi di mio padre, la fronte ricoperta di sudore sono le ultime cose che ricordo, poi più nulla se non il forte invadente odore di calce e semi di lino che ricoprivano il mio inguine.
Compivo quindici anni.
Il giorno più bello della mia vita così mi era stato spiegato, dipinto, raccontato da mia madre con le lacrime agli occhi ed un macigno nel cuore, non ne capivo il motivo, non lo sapevo.
Il giorno che mi sarei incontrato con il mio destino, non avrei lavorato la terra, come mio padre, spaccandomi la schiena, mai le miei mani sarebbero state ricoperte da calli, spaccati i miei piedi, mai il mio corpo sarebbe stato intriso del sudore della fatica, se non per bagni caldi e profumati che avrei fatto ogni giorno a venire.
Il mattino trascorso con gli amici a chiacchierare, scherzare sulla notte che andava a venire, nessuno mi avrebbe detto nulla di più di quel che già sapevo.
Attendevo quella sera, la notte, con impazienza, l’evento mi avrebbe gratificato il corpo con il piatto più gustoso, più invitante che mai avevo mangiato.
Sognavo quel corpo che mi sarebbe stato servito, come il più bello il più dolce il più voglioso che mai avrei potuto desiderare.
Non immaginavo, mai avrei potuto sapere che sarebbe stato l’unico.
Mia madre nel pomeriggio mi ha lavato, immerso nella vasca il profumo mi eccitava, l’attesa mi innervosiva, non potevo più aspettare.
Tutto era stato preparato, un letto morbido e confortevole, il kong, acceso sotto a me ardevano braci, bruciava legna che nulla era paragonata alla mia carne al mio ventre che fremeva, non più pensieri, non più sogni o desideri volevo l’appagamento dei miei quindici anni, sospiravo.
Scendeva il sole, gli ultimi raggi di vita che avevo si spegnevano, mentre la giovane donna che mi veniva servita, che si serviva, con un bacio sulle labbra mi salutava.
Sarebbe stato l’ultimo mio vero sole.
Non lo sapevo.
Mia madre aveva ricoperto il mio corpo di olio denso e profumato di noce moscata, ne ero stordito, luce soffusa attorno a me.
Non lo sapevo.
Nudo, così mi aveva lasciato.
Nudo, così lei entrando mi aveva trovato.
Per primi i capelli sono stati liberati, il suo profumo si spandeva ovunque, ricopriva tutto, mi avvolgeva.
Lunghi, neri le hanno ricoperto la schiena, mi ha sorriso vedendo il sussurro del mio pene.
Lentamente ha sciolto il lembo superiore del colorato kimono che le ricopriva il corpo nudo.
L’ho visto girare attorno alla sua vita, ai suoi fianchi che se ne liberavano, ho visto il suo seno pulsare, il suo ventre vibrare sfiorato dal tessuto che scorreva.
Un bacio mi ha dato sulle labbra socchiuse per l’emozione, la sorpresa di quel momento tanto atteso.
Un altro sorriso per il secondo sussulto del mio cazzo ormai duro.
Non lo sapevo.
Ormai ero pervaso dal desiderio, la voglia dipinta nei miei occhi, le parole uscirono esplicite:
- voglio fotterti.
Non lo avevo mai fatto, tutto era nuovo mai provato, sensazioni forti, irripetibili.
Non lo sapevo.
- lo so, così dicendo, un ultima giravolta e nuda si è seduta su di me.
Entrambi eravamo bagnati, entrambi conoscevano il destino di quella sera, entrambi lo volevamo.
Scivolava sul mio corpo, godeva del suo seno che tanto avevo sognato nei miei incontri solitari, godevo del suo culo che sentivo sulle mie palle, gonfie e piene di voglia da liberare.
Non lo sapevo.
I suoi occhi parlavano di desiderio, di passione, di piacere nel godermi, nell’avere dentro se la mia carne vergine, nel ricoprire quel pezzo di me che tanto desiderava quella giovane donna.
Quel pezzo di me che fin dal giorno che avevo preso coscienza della sua esistenza, aveva atteso quel momento.
I brividi lungo la schiena iniziarono a rincorrersi quando china su di me mi ha baciato, avevo la sua lingua, le sue labbra fra le mie, con le mie, non parole, suoni, sillabe pronunciate, ma baci, baci, baci.
Mai avevo baciato, mai avevo gustato un’altra bocca.
Il mio cazzo esplodeva.
Non più freni, non più attesa, più nulla se non la resa, l’appagamento, il liberare il seme della vita che voleva riversarsi dentro il suo ventre, per donare vita.
Nelle miei orecchie ancora le parole di mia madre:
-tutta la dovrai inondare, tutta, colma della tua vita se ne dovrà andare.
- tu vivrai, tutto di strapperanno ma non la carne che nascerà, vivrai.
Non lo sapevo.
Felice mi liberavo, muovendomi veloce su di lei la seconda volta che mi concessi, la sentivo sotto le mie spinte, mentre gemeva di piacere, mentre la sua schiena si inarcava, le sue gambe si alzavano sul mio collo per avermi in profondità, per non perdere nulla di me.
Il miele e le uova che mio padre mi aveva lasciato vicino al letto, mi rinvigorivano, mi rendevano ingordo, inappagabile, vorace.
Nutrivo il mio corpo dopo ogni amplesso, così come faceva lei con il suo.
Una carezza, un sospiro, ed ero pronto a riaverla a fottere quella dolce, calda carne che mi attendeva.
Non ricordo, tutto confuso, tutto quel giorno ha rappresentato per me, tutto.
Non lo sapevo.
Ogni stilla di vita che il mio corpo aveva prodotto in lei l’ho riversato.
Nulla della mia vita futura si era persa, il suo corpo l’aveva ricevuta, l’avrebbe poi nutrita, l’avrebbe cresciuta.
Io avrei vissuto in lei.
Io vivo ancora.
Non lo sapevo.
L’ho salutata con un sorriso appagato.
I miei occhi socchiusi hanno avuto il tempo di salutare i raggi del sole, il nuovo giorno che nasceva spavaldo entrava nella stanza, il liquore mi bruciava in gola, non come i suoi baci, mi stordiva non come la sua carne, perdevo la ragione, nelle miei vene scorreva il liquido che avrebbe permesso di prendermi la vita, io l’avrei data a lei, invece.
Non lo sapevo.
Tutto era stato consumato, il mio tempo finito.
Nulla di più ricordo, se non gli occhi di mio padre, la sua fronte ricoperta di sudore, la sua mano calda sul mio inguine sazio.
Io steso, legato, le braci ardevano sotto di me, tutt’attorno odore di calce e olio di semi di lino.
Veloce è scesa la mano di mio padre, brillava fra le sue dita la lama, sibillina la carezza di mia madre.
Cento giorni, la voce di mio zio mi riportava alla vita, mi svegliava nella mia nuova esistenza, vedevo la penna d’oca che retta si ergeva dove il mio cazzo gonfio e duro poche ore prima si era spavaldo ed incosciente esibito.
Un penna d’oca nel vuoto della mia esistenza attuale.
Non lo sapevo.
Cento giorni servirono al mio corpo per cicatrizzarsi, la ferita della mia anima non lo farà mai.
La passione di quella notte arde ancora nei miei ricordi dell’unico giorno di vita che ho avuto, che mi è stato concesso, che mai potrò riavere.
Ogni giorno da allora, da quando ho riversato tutto quel che ero in quel giovane corpo, che mi desiderava, osservo il mio cazzo, il mio sesso, il pezzo di me più vero, dentro la piccola ampolla di vetro, ricolma di semi di lino, che mia madre mi ha preparato assieme a qualche povero indumento sull’uscio di casa, salutando sotto un sole invadente alla mia nuova vita.
Io Sun Yaoting entravo a servizio dell’imperatore, mai le mie mani ricoperte di calli, i miei piedi feriti, la mia fronte ricoperta di sudore.
Io Sun Yaoting entravo a servizio dell’imperatore come eunuco di corte.
Non lo sapevo.