Athapascan
di Chandra
- Eurostar 9480 delle ore 17:50 per Milano Centrale in partenza dal binario 8
-
La voce gracchiante dell’altoparlante interrompe bruscamente il flusso dei
miei pensieri.
Fuori persone, bagagli, lacrime, sorrisi. La stazione Termini è un crocevia di
passi affrettati che arrivano, partono, si salutano. Mi emoziona sempre il
flusso di destini che ogni giorno si snoda dentro le stazioni ferroviarie.
Oggi anche per me è un giorno diverso.
Salgo sulla mia carrozza, trascinandomi dietro con esasperata lentezza il mio
bagaglio a mano.
Non mi guardo indietro. Non c’è più ragione per farlo.
Una notte e un giorno sono passati, da quando ho messo piede a Roma.
Il mio tempo è scaduto e come nella favola di Cenerentola, adesso è l’ora di
tornare a casa.
Invece della scarpetta di cristallo, lascio a Roma un pezzo della mia vita.
Un frammento di cuore, finalmente libero da spine.
E tuttavia, un frammento di cuore che sanguina ancora.
Sistemo con frettolosa noncuranza il mio bagaglio sotto il sedile e la giacca
nell’apposito vano portaoggetti, dando un’occhiata distratta ai miei compagni di
viaggio. Mi colpisce, in particolare, l’uomo accanto a me, di fianco al
corridoio centrale, il classico manager di ritorno da un viaggio d’affari:
completo gessato, cravatta allentata e sguardo stanco. Devo chiedergli permesso,
con un tono abbastanza sostenuto, perché sposti leggermente le gambe e mi lasci
accomodare al mio posto. Sembra essere su un altro pianeta, vagamente attratto
dalle lettere nere che gli scorrono davanti agli occhi. Economia, mi sembra di
intuire. Prendo posto accanto al finestrino. Il ragazzo davanti a me accenna un
timido sorriso, mentre mi siedo accavallando le gambe. Una lieve increspatura
appare sulle labbra della signora seduta accanto a lui, prima di riaffondare
precipitosamente nella lettura del suo giallo. Nessun cenno di saluto da parte
del mio vicino di posto. Con la coda dell’occhio lo vedo sistemarsi meglio gli
occhiali, scivolati sulla punta del naso e mi sembra di captare il suo sguardo
fugace in direzione del mio ginocchio, rimasto scoperto.
Ed è allora che lo rivedo. Come se fosse sempre stato lì. Ad aspettare che io ne
prendessi coscienza.
Ci siamo lasciati sul taxi, appena fuori dalla stazione. Gli occhi lucidi,
l’ansia nella pelle, la sensazione di perdita e di vuoto imminente. E adesso lo
rivedo qui fuori. Gli occhi incollati su di me. Il mio cuore batte impazzito.
Vorrei gridargli di andarsene, mi fa troppo male rivederlo lì.
A ricordarmi ancora le ore e i minuti vissuti. Ad affondare ancora il coltello
nelle mie ferite. A pietrificare il respiro. Avvicina il palmo della mano al
finestrino e la mia mano segue la sua, come ipnotizzata. La sua mano destra
contro la mia sinistra. A separarle solo il vetro.
Che sembra fondersi. Modellarsi.
Plasmarsi sotto il calore del sangue che pulsa impazzito nelle vene.
Le labbra che silenziose ripetono ancora quella parola. Sorrido ricordando la
prima volta che ho sentito quel nome:
- Athapascan. E’ il nome sanscrito che vuol dire Schiava. Sarà il tuo nuovo
nome –
Il fischio assurdo del capotreno lo obbliga a spostarsi. Il treno sta partendo.
Lo guardo chiudere gli occhi e sento che una lacrima scende lungo la mia
guancia. Lo perdo così. Nella nebbia delle lacrime, che improvvisamente
inumidiscono le ciglia. Chiudo gli occhi, con la mano ancora incollata al vetro.
Li riapro per vedere solo infinite sfumature di grigio. Fuori dal finestrino
scorrono i binari, grigi incroci di acciaio e cemento. Grigi i muri. Grigi i
palazzi. Grigio il cielo. Come il mio cuore che si allontana dal suo. Ad occhi
chiusi, la testa appoggiata al sedile, ripercorro le ultime ore vissute. Gli
attimi condivisi.
Solo ieri un altro treno mi portava da lui. Carica di emozioni. Il cuore
leggero, incosciente.
Una serie di flashback mi sommerge, mentre il treno prende velocità.
Tengo gli occhi chiusi come se fosse l’unico modo per continuare a tenerlo
dentro.
Con l’angoscia che i contorni del suo viso perdano nitidezza e si smarriscano
negli angoli più oscuri della mia mente.
Mi rivedo. Lo sguardo fisso a terra, il tremolio nelle gambe, la voglia umida a
bagnare le cosce. Gli occhi che si incontrano per una frazione di secondo prima
che le sue labbra si posino impercettibili sulle mie. Come ali di farfalla. Mi
assaggiano. Mi rubano una scossa di piacere che mi attraversa il ventre e si fa
cera bollente sulla pelle.
Un bacio. Solo un bacio a fior di labbra. Risento la sua voce. Calda. Mi
avvolge.
La sua voce che scandisce il mio nome:
- Ben arrivata S. -
Intorno a noi i passi frettolosi dei pendolari che arrivano e ripartono,
nell’incessante flusso di bagagli e saluti.
Un leggero fruscio accanto a me mi ricorda dove mi trovo. Il mio vicino di posto
ha richiuso in modo piuttosto approssimativo il quotidiano e stirandosi sul
sedile ha urtato involontariamente la mia gamba. Si scusa e i suoi occhi azzurri
incrociano i miei. Sorridono con malizia. La sua gamba ha trovato un appoggio
sulla mia. La mia coscia e il suo ginocchio, l’uno aderisce all’altra.
Ognuno con il suo inconsapevole motivo per non scostarsi di lì.
Un attimo prima che un altro flashback mi inondi il pensiero.
Interno del taxi che ci accompagna in hotel. Il regalo che mi aveva promesso. Mi
porge un sacchetto, rosso scuro, lucido. Lo sguardo incuriosito del tassista fa
capolino dentro lo specchietto retrovisore, mentre apro il pacchetto. Con le
mani tremanti sollevo la sua sorpresa. Lo guardo. Lui mi guarda, a sua volta.
Serio.
- Perché non lo provi subito?-
Lo osservo con aria smarrita, per accorgermi che non sta affatto scherzando.
Sto stringendo fra le mani un collare di cuoio nero, rigido, con piccole borchie
a forma di stella, e un anello d’acciaio che lascia presagire il suo futuro
utilizzo.
- Lascia che ti aiuti a legare i capelli –
L’autista del taxi adesso ha gli occhi spudoratamente puntati sul tesoro che
stringo fra le mani. E su di me. Ma invece di trovarmi in imbarazzo, mi sento
improvvisamente a mio agio. Sono con lui adesso. E questo è solo l’inizio. Ne
sono cosciente.
Le sue mani mi sfiorano la nuca, mi aiutano a sostenere i capelli che raccolgo
in una coda di cavallo. Brividi scorrono sulla mia pelle. Apro il collare, lo
appoggio sulla gola e gli chiedo di aiutarmi a chiuderlo. Il suo gesto è di una
dolcezza infinita, come se stesse allacciando una collana di perle. L’autista si
è definitivamente perso nel traffico, mentre il suo sguardo rapito ondeggia fra
la strada e lo specchietto.
Ancora un rumore mi riporta alla realtà. Il ragazzo seduto di fronte a me ha
sfilato le cuffie e le ha riposte nello zaino ai suoi piedi. Battito di ciglia.
Altro flashback.
Io e lui, uno di fronte all’altra, nella camera da letto. Ha appena richiuso la
porta alle nostre spalle e mi sta porgendo la chiave. Sappiamo entrambi cosa
significa quel gesto. Desidera che sia io a chiudere a chiave la porta. A
consegnargli me stessa insieme a quella chiave. Cuore, corpo e mente.
- Dovrai scegliere una safeword. Perché non abbia da pensare ad alcun limite
da impormi –
L’eco delle sue parole mi fa tremare ogni volta che la mia mente le ripete.
Come una cantilena incessante. Come la pioggia che martella sulla ringhiera del
balcone di quella stanza, in quell’angolo remoto di mondo.
Ancora pioggia, stavolta sui vetri del finestrino. Il treno continua la sua
corsa e mi porta un altro po’ più lontana da lui. Cerco di tenere gli occhi
aperti. Fuori scorre la campagna laziale. Alberi, strade, case. La pioggia copre
tutto. Bagna la terra. Disseta e rigenera. E l’acqua mi ricorda lui. Di nuovo.
Liquida come cera. Come la voglia che si impossessa del mio ventre.
- Spogliati adesso – le sue parole rompono il silenzio.
Lentamente, senza mai alzare lo sguardo dal pavimento, come lui desidera, lascio
che i vestiti cadano a terra, nel leggero fruscio che accompagna il loro breve
viaggio. Un incresparsi di scapole e di anche, i capelli che si lasciano
spettinare e poi ricadono sulle spalle, chiusi nella loro prigione. Rimango
nuda, immobile davanti a lui.
- Guardami –
Sollevo lo sguardo e incrocio il suo. Lo specchio delle mie emozioni.
Ricordo quello che mi aveva scritto prima del nostro incontro:
- Ci si imprigiona in due, ricordalo. Tu hai le mie chiavi e io ho le tue -
Come potrei aver paura di lui? Prima che la catena si chiuda intorno alla mia
gola. Prima che la benda oscuri di raso nero i miei occhi. Io sorrido.
Buio nello scompartimento. Le luci artificiali abbagliano gli occhi stanchi dei
passeggeri, costringendoli a socchiudere le palpebre. Il tunnel ruba aria e
luce, inglobando treno e persone. Nel buio azzurrino della carrozza il contatto
lieve fra le due gambe si fa più ardito. Il mio vicino ha spostato la gamba
verso l’esterno e la sta spingendo contro la mia coscia.
Movimenti lenti, invisibili agli occhi. Ma non alla pelle. Che si lascia
accarezzare dalla stoffa dei suoi pantaloni.
E improvvisa un’altra immagine riaffiora alla mente.
Mentre fuori dal finestrino il buio della sera si sostituisce a quello del
tunnel.
In piedi, contro il muro. Il viso rivolto verso la parete. Bendata. Lacci ai
polsi, legati sulla schiena. Le gambe divaricate.
Un altro oggetto che si fa contatto sulle cosce. Impercettibile prima.
Strisciante poi. Non ne riesco a decifrare i contorni. Come un serpente avanza
sinuoso, si fa strada nelle pieghe della mia pelle. Sento il suo respiro, dietro
di me.
- Non muoverti. Nessun lamento, nessun sospiro. Non voglio nemmeno sentirti
respirare. Ricordalo –
Le sue parole mi lacerano il ventre. E’ impossibile rimanere ferma,
immobile, mentre il desiderio mi bagna completamente e il serpente se ne
impossessa, percorrendo il fiume dei miei umori.
Poi, improvvisa, la prima.
Decisa. Netta. Un colpo secco sulla natica sinistra.
E il bruciare lento e inesorabile che si sprigiona dalla pelle colpita.
E’ solo un attimo. Nemmeno il tempo di capire. Nemmeno il tempo di respirare.
Ne voglio ancora. Vorrei gridarglielo, se potessi.
Ma lui lo sa. E per questo non si muove. Sento i suoi occhi addosso. E ricordo
le sue parole, qualche mese prima:
- Verrà il giorno in cui porterai i miei segni addosso. Sarai marchiata.
Perché tu ricordi sempre a chi appartieni –
Il treno sta percorrendo una curva adesso. Mi ritrovo involontariamente
costretta ad appoggiare il fianco e la spalla destra contro il passeggero di
fianco a me. Sono ancora stordita dal ricordo del flashback appena scomparso. E
forse tremo. Forse ho solo bisogno di risentire quelle sensazioni addosso. E
rimango così. Per qualche frazione di secondo. Con la sua spalla a pochi
centimetri dal mio viso. Ne rubo il profumo e mi lascio invadere di nuovo dai
ricordi.
Le sue mani. Adesso. Le sento sciogliere ogni nodo.
Accarezzare i capelli, finalmente sciolti sulle spalle.
Il segno che è giunta l’ora della dolcezza. Degli abbracci. Della resa.
Mi lascio distendere sul letto, con addosso i segni della mia appartenenza.
Inondata dal presagio del piacere che affonderà in me. Orgogliosa di essere Sua.
Lo sento scivolare fra le mie cosce, mentre con le mani mi tiene le caviglie.
Bocca sulle mie labbra. Saliva che si mescola al mio miele. Si appiccica alle
sue guance, ai capelli, alla gola.
Intriso di me mi porge finalmente le labbra. E il suo bacio è dolcezza e
possesso insieme.
Avvinghiati finalmente. Carne su carne. Fusi ad essere una cosa sola. Grido.
Finalmente libera di poterlo fare.
Grido dentro la sua bocca, i suoni che si perdono nella sua gola. E tornano
indietro col suo respiro. A dare nuova voce al mio piacere. Mi perdo nell’onda
dell’orgasmo che mi annebbia la mente e lo sento.
Dapprima lontano. Quasi un sussurro. Che diventa urlo. Che mi muore in gola e
diventa ossigeno per il mio sangue. Un mantra che mi culla e mi appartiene. Come
io appartengo a lui.
- Sei Mia. Sei la mia Schiava Regina. E io non ti libererò mai –
Il treno sta arrivando in stazione. Riconosco le sagome dei palazzi e le luci
della mia città.
Firenze non mi è mai parsa così bella come in questa sera di dicembre. Sento un
velo di commozione in fondo al cuore, mentre il treno rallenta la sua corsa.
Sono tornata a casa. Sorrido ai miei compagni di viaggio.
Ringrazio l’uomo che inconsapevolmente ha offerto approdo al mio ricordo
naufrago. Lui mi guarda senza capire.
La tristezza dell’addio ha lasciato il posto ad una nuova consapevolezza.
Io sono Sua. E lui è Mio. Ci si imprigiona in due.
E io non lo libererò mai.