Lady Lilith
di Charmel Roses
L’aria acerba di marzo ricopriva con un bacio
umido le strade del centro, il sole aveva una luce tagliente, un
riflesso abbagliante sul ciottolato rendeva i miei passi incerti. Era il
classico bluff primaverile, un tepore improvviso che poi ripiegava su se
stesso, l’inverno sembrava ritrarsi come un’onda e, allo stesso modo,
poi, si sarebbe nuovamente abbattuto sulla città, soffocando tutto in
una morsa insopportabile dopo quel primo assaggio di primavera. Raggiunsi la piazza in cui si sarebbe tenuta la fiera del libro per curiosare un po’ in giro e dare un’occhiata allo stand della casa editrice con la quale avevo pubblicato il mio libro, ma quando arrivai, trovai tutto chiuso e decisi di entrare nel primo caffè che mi capitò davanti per ingannare il tempo durante la mezz’ora che mancava all’orario di apertura. Non c’era quasi nessuno in quella domenica assonnata, solo una donna, immersa nella lettura di un vecchio libro dalla copertina rossa, consunta dal tempo. Sedeva in un angolo in fondo al locale e gocce di sole l’avvolgevano in un tenue chiaroscuro dai colori morbidi e luminosi. Ordinai un caffè e andai a sedermi al tavolo accanto al suo, trovando una strana familiarità nel suo volto e nei lunghi capelli ramati che morbidamente si adagiavano sul nudo candore delle sue spalle. Ero certo di averla già vista, forse a qualche fiera del libro, così cominciai a spiare i suoi lineamenti, cercando di incrociare il suo sguardo per avere una conferma, ma lei continuava a fissare le pagine ingiallite del suo libro senza accorgersi di me. Poco dopo la cameriera, una ragazzina nervosa, che mal celava il fastidio che le causava la presenza di avventori così presto la domenica mattina, mi portò il caffè ed io sperai che quella donna misteriosa alzasse lo sguardo, anche solo per un istante, per pura curiosità, ma non fu così ed io non potei far altro che continuare a sbirciare nella sua direzione, cercando di decifrare quello strano enigma. Dopo un po’ mi ritrovai a seguire il movimento del suo piede, era quasi ipnotico il modo in cui lo dondolava accarezzando l’aria, mi sentii soggiogato da quella silenziosa danza, immaginando la sensualità racchiusa nella pelle lucida delle sue decolté nere. Notai a un tratto che il suo tallone accennava di tanto in tanto a voler uscire dalla scarpa e, attraverso la sottile calza, potei intuire il tenue rossore che colorava la sua pelle morbida e levigata. La sua rotondità era incantevole, al punto da farmi provare un desiderio irresistibile di chinarmi a baciarla, bramando il tepore dei suoi piccoli piedi. “Non mi sembra il caso di farlo qui, non credi?” disse, come se fosse riuscita a leggere i miei pensieri, o forse era stato semplicemente il mio sguardo, fin troppo esplicito, a farle intuire i miei desideri. Cercai di ricompormi e azzardai un sorriso, tendendo la mano per presentarmi, ma lei sembrò non badarci e indugiò in un silenzio che mi parve interminabile. “Conosco già il tuo nome. Il mio è Lilith”. I suoi occhi si posarono su di me, godendo per alcuni istanti dello spettacolo del mio stupore. Infine afferrò per un lembo il tovagliolo che riposava sulle sue gambe e lo lasciò ricadere al suolo, invitandomi con un cenno a raccoglierlo per lei. Quando mi chinai e mi ebbe in ginocchio, ai suoi piedi, la punta della sua scarpa mi sfiorò brevemente il viso e scivolò sotto il mio mento, sorreggendolo. Solo allora potei osservare con maggiore attenzione la copertina del libro che stava leggendo e riconobbi in esso un manoscritto che avevo fatto rilegare, diversi anni prima, per proporlo ad alcune case editrici perché lo pubblicassero. Era il mio primo romanzo, di cui nessuno conosceva l’esistenza, si trattava di un lavoro che in seguito avevo deciso di abbandonare, condannandolo all’oblio, ritenendo che la storia narrata fosse troppo forte e a tratti quasi imbarazzante, per le bizzarre fantasie che si agitavano in quelle pagine. Dopo quel primo esperimento, avevo preferito dedicarmi a cose del tutto diverse, con le quali ero riuscito a guadagnarmi un discreto successo, certo che, del manoscritto di “Respiro”, nessuno avrebbe mai saputo nulla. “Spesso ti ho immaginato così mentre leggevo il tuo libro”. “Nessun altro oltre te sa della sua esistenza”. “Ti preoccupa che io sia a conoscenza del tuo segreto?”. “E’ strano”. “Cosa ci trovi di così strano?”. “La casualità di questo incontro”. “Nulla avviene per caso”. “Se non è stato il caso allora…”. “Il tuo libro mi è sembrato interessante. Tu saprai essere altrettanto?” disse, invitandomi a seguirla. Il suono dei suoi tacchi mi guidò lungo le stradine del centro, la seguii ammirando le sue gambe e la rotondità dei suoi fianchi, passi felini che mi ammaliavano e facevano di me la sua preda, finché non raggiungemmo il suo appartamento e, nella penombra delle imposte semichiuse che facevano filtrare solo pochi raggi di sole, mi ritrovai in balia del suo fascino. La realtà sembrò fondersi col sogno mentre la osservavo, seduta sul divano, con le gambe accavallate, elegante e altera come una divinità da adorare. Era una regina, e attendeva che il suo vassallo le rendesse omaggio, che si offrisse a lei, prostrandosi al suo cospetto per soddisfare ogni suo desiderio. Mi inginocchiai, eseguendo l’ordine che mi sussurrava il suo sorriso divertito e compiaciuto. Feci scivolare la mano lungo il suo ginocchio e dietro il polpaccio. Attraverso la sottile calza velata, potevo sentire il tepore della sua pelle morbida e indugiai nella lenta carezza con cui raggiunsi la caviglia. Sollevandole il piede cercai ancora il sorriso del suo sguardo, leggendo in esso la sua impaziente attesa. Lilith mi sfiorò di nuovo con la punta della scarpa e indugiò sulle mie labbra, esigendo il tributo della mia devozione. “L’attesa è un piacere sottile, dev’essere coltivata sapientemente” disse, insinuando la punta lucida della scarpa nella mia bocca. Lasciai che mi penetrasse senza opporre resistenza, soggiogato dal suo sguardo vigile che mi scrutava studiando le mie reazioni, come se volesse indagare i moti del mio animo mentre si abbandonava al giogo lascivo del suo piede. “Esigo sempre la resa incondizionata da parte dei miei amanti. Amo sentirli docili e inermi, pronti a farsi plasmare piegandosi alle mie voglie”. “E’ ciò che avrai da me” le risposi, mentre il suo tacco percorreva il mio volto. “Lo so, non ho alcun dubbio al riguardo”. Denudai il suo piede con gesti lenti, religiosamente, accarezzandolo attraverso le calze scure che lo fasciavano, lei lo poggiò sul mio viso, godendo del mio respiro che le solleticava delicatamente la pianta. Poi mi spinse giù e salì sul mio petto, osservando dall’alto la mia resa, prima di tornare a cercare le mie labbra già pronte a schiudersi e ad accogliere le sue dita. Questa volta il piede di Lilith calcò con maggiore intensità il mio volto, costringendomi a respirare solo l’aria filtrata dal profumo della sua pelle che serbava ancora il sapore del cuoio delle scarpe. Attesi a lungo, soccombendo in quella soffice carezza, finché lei non si sfilò la calza e la infilò nella mia bocca, che implorava incessantemente il suo sapore. Sentii il delicato aroma dei suoi piedi pervadermi, soffocandomi dolcemente attraverso il nylon delle sue calze, mentre lei armeggiava con i miei pantaloni per tirare fuori il mio sesso turgido di desiderio. Lo leccò sulla punta, con movimenti circolari, cominciò a succhiarlo, ad avvolgerlo col calore della propria bocca, stringendolo in quell’umido abbraccio, fino a sentirlo sussultare e fremere per il piacere che mi procuravano le carezze della sua lingua, un piacere che lasciò sospeso, tornando ad ergersi su di me, per solcare il mio corpo con la grazia elegante dei suoi passi che sapevano essere lievi e decisi al tempo stesso, donandomi l’estasi e il tormento di una danza suadente che rapiva i miei sensi lasciandoli insoddisfatti, protesi verso quel Paradiso che potevo contemplare nei suoi occhi. “Il tuo respiro mi appartiene” sussurrò Lilith. Le sue parole mi giunsero come una dolce condanna a cui non potevo, né volevo sottrarmi, un destino che io stesso avevo a lungo agognato. Lilith lesse la resa nel mio sguardo adorante e sfregò a lungo e insistentemente il piede sul mio viso, prendendosi gioco dei miei baci che invano cercavano di ghermirla, facendo sì che il mio desiderio continuasse a crescere fino a rendermi folle, prima di decidersi a liberare la mia bocca dalla calza per riempirla con la punta del piede, forzandola più che poteva per costringermi a succhiarla. Il mio corpo cedeva docilmente ad ogni suo attacco e si arrese ancora, senza remore, al suo volere, grato di potersi sottomettere ai capricci e alle prepotenze dei piedi della sua signora. Simile a una Dea, Lilith splendeva luminosa, sovrastandomi. Tirò su i capelli e li raccolse dietro la nuca, lasciandomi contemplare la bellezza dei suoi lineamenti e dei suoi occhi dallo sguardo fiero e altero che continuavano a sorridermi. Le sue dita mi solleticavano il palato, mentre l’altro piede affondava nel mio ventre, fiaccandomi il respiro ed io precipitai inesorabilmente nel baratro di quel piacere che mi aveva ridotto in schiavitù. Un ultimo affondo ed il suo piede mi schiacciò con forza, poi si accovacciò, sedendosi sul mio viso e sentii il tepore del fiore delle sue cosce posarsi sulle mie labbra e schiudere i petali, dissetandomi con il suo dolce nettare vischioso. La melodia dei gemiti di Lilith guidò le carezze della mia lingua, lasciandomi saggiare il sapore della sua eccitazione, finché non la sentii fremere e strusciarsi sul mio volto ungendolo con i propri umori, come in un rito sacro che premiò la mia devozione. “E’ tardi” disse abbandonando il mio corpo vinto e inerme che sussultava invocando il suo ritorno, e si allontanò, tornando a sedersi sul divano. “Se non ricordo male, hai un appuntamento a cui non puoi mancare” aggiunse, compiacendosi dei servigi della mia lingua, che prontamente era tornata a bagnarle i piedi leccandoli con insaziabile passione. “Non esiste nulla al modo che possa spingermi ad allontanarmi da te, se non il tuo volere” risposi, e le abbracciai le caviglie, strofinando il viso sotto i suoi piedi per implorare le loro carezze. “Ehi, si sente bene?” mi chiese la cameriera fissandomi con aria perplessa mentre agitava una mano davanti ai miei occhi. “Sì, benissimo” le dissi, infastidito dalla sua invadenza. “Sembrava in trance. E’ da quasi un’ora che se ne sta imbambolato, con lo sguardo perso nel vuoto”. Diedi un’altra occhiata alla copia di “Lady Lilith” di Dante Gabriel Rossetti. Sedeva in un angolo e si pettinava compiacendosi della propria bellezza, il suo sguardo era fiero e altero, a tratti pensoso e malinconico. “Posso avere un altro caffè?” chiesi. “Certo, immagino che quello ormai sia imbevibile”. |