Agata

di   Cristiana M.

 



1.

Agata sapeva muovere bene il culo quando camminava, attraversando la sala, fra i tavoli del ristorante, il vestito nero le fasciava il corpo, disegnando curve perfette tra i fianchi e le cosce. Raggiunse Giovanni e si piegò per baciarlo prima di mettersi seduta accanto a lui.
«Hai ordinato anche per me?»
«Certo come sempre, sei in ritardo anche oggi»
I suoi occhi piccoli e cisposi la costringevano spesso, per il fastidio, ad abbassare lo sguardo.
«Cosa hai fatto tutto il giorno, non ti sei nemmeno degnata di una chiamata»
«Lo sai benissimo» rispose, prendendo due tartine di salmone affumicato, ne addolcì il sapore forte, di pesce, con una bella spalmata di burro, due gocce di olio e una spruzzata di pepe appena macinato mentre Giovanni sgranocchiava un grissino con la bocca troppo aperta, rumorosa.
«Puoi mangiare a bocca chiusa per favore?»
«Puoi finirla di scassarmi il cazzo per favore?»
«Non c’è che dire, sei proprio un gran signore»
«Già l’uomo giusto per te, vero?»

«Cameriere, una bottiglia di Ribolla Gialla!» Giovanni lo disse ad alta voce attirando l’attenzione di tutta la sala.
«E’ di suo gradimento signora contessa?»
«Ma piantala, sei disgustoso»
Agata avrebbe dovuto solo bere un sorso di vino, pulirsi la bocca, prendere la sua borsa e via. Lasciare lì quell’ammasso informe di grasso e prepotenza, liberarsi da tutto lo schifo che era diventata la sua vita. Via, senza sapere nemmeno dove andare, solo andare. Ricominciare a pensare. Vivere. Invece, restava seduta, strofinando con forza le ginocchia, una contro l’altra fino a farsi formicolare i piedi. Seduta.
«Certo, certo… disgustoso, ma i miei soldi non ti disgustano mai vero?»
«Infatti, i soldi sono l’unica cosa di te che non mi da il vomito» venne interrotta dal cameriere che svelto, con la bottiglia in mano avvolta in un tovagliolo, chiese «Assaggia lei il vino, madame?».
Agata fece cenno di sì con la testa.

«Prego signora» disse ancora il cameriere porgendole il primo piatto, «Prego signora» rifece il verso Giovanni abbozzando un mezzo inchino dalla pancia in su.
Lei lo guardò, «Sei ingrassato, continua a mangiare così che già fai schifo» Giovanni con la testa nel piatto, il tovagliolo appeso al collo appoggiato allo stomaco, aveva già quasi finito di mangiare e con un rutto non trattenuto stava sottolineando la sua soddisfazione.
Nessuno si girò a guardarlo.
Agata appoggiò la forchetta sul piatto ancora pieno e bevve un sorso di vino.
«Ma perché non mangi? Che fai, la dieta?»
«Non ho fame. Sto bene così»
«Una volta mangiavi come un uomo, guardati ora come sei ridotta»
«Una volta era tutto diverso, tu eri diverso»
«Non cominciare con i piagnistei, smettila va, se hai finito andiamo»



2.

«Dott. Sallustio buonasera! Ecco la sua chiave… Signora…»
«Grazie Marcè! »

Marcello era il portiere di notte, con la faccia spigolosa, i capelli radi e sbiaditi, gli occhiali spessi. Quello che non sa nulla, non vede, non sente. Sempre gentile.

Salirono senza dire una parola. Stanza 215.
Giovanni chiuse la porta con un piede sbattendola forte. Agata sapeva che stava per cominciare la solita scenata. Si avvicinò allo specchio tentando di togliersi gli orecchini prima che lui arrivasse a strapparglieli via. Vide un’ombra ma non fece in tempo a schivare lo schiaffo che era già in terra. Le bruciava una guancia. Incastrata, sapeva di doversi alzare, farlo subito.

«Sei ancora lì a terra, puttana!» la voce era roca, rotta dall’alcol, rimbombava verso il televisore acceso a tutto volume. Agata si era alzata e tentava di togliersi la pelliccia, «Contessa… permette?» fece lui afferrandola per le spalle «Contessa… Ho visto i tuoi giochetti con il cameriere, a me non sfugge niente » Agata si rannicchiò pensando a un altro pugno, invece Giovanni la scaraventò sulla poltrona «Stasera ti sistemo io ».
Era sudato come un maiale, il suo corpo appassito e fiacco, senza peli, pareva un deserto di dune rosee, ripugnanti, come i seni gonfi, da donna, con il capezzolo grosso e scuro. Si era tolto la camicia e aveva sbottonato i pantaloni, ma li tratteneva ancora sulla vita. Le sue dita tonde le afferrarono i polsi trascinandola al centro della stanza, tra il letto e un comò.

«Spogliati… ma fallo bene» Giovanni si era inginocchiato con il muso vicino ai fianchi di Agata e le mani infilate sotto il vestito che la pizzicavano finché la pelle si colorava di viola. Le faceva male.
«No» rispose Agata senza piangere.
«No?» fece lui come fosse l’inizio di un ritornello.
«Ti ammazzo, lo sai vero?»
Agata rimase ferma dritta. Sembrava non respirare.
«E’ finita Giovanni, stavolta me ne vado davvero»
«Lei se ne va! E dove di grazia? »
«Non lo so dove, ma non è importante»
«Da quel cameriere del cazzo, ci scommetto. Che gusti, contessa!»
«Non vado da nessuno, solo vado via»
Agata non aveva ancora finito di dire via che venne sbattuta da uno schiaffo a mano aperta sotto al comò. L’anello pesante sull’anulare di Giovanni le era entrato nei denti.
Agata conosceva il sapore del sangue. Ne afferrò qualche goccia con la lingua portandola verso il palato. Lo succhiò, ne fece scorta.
«Alzati che qui non incanti nessuno, alzati che ti rovino, hai capito?»
Agata non rispose.
«Che fai non reagisci stronza? Guarda che stasera t’ammazzo, giuro che t’ammazzo»

Agata era rimasta ferma come una quercia abbattuta. Era grande, ogni parte del suo corpo ora pesava più di una tonnellata. Aveva la bocca di marmo, Agata, secca e levigata, liscia che non mollava un respiro. Le braccia erano rami dalla corteccia spessa tanto che Agata non sentì la punta delle scarpe di Giovanni entrare con violenza nella sua carne.
Nessun dolore.

«Dai amore che così non mi diverto, lo sai…»
Il tono era improvvisamente cambiato, Giovanni ora piagnucolava. Si inginocchiò lì accanto, le prese un polso e la implorò ancora.
La quercia pareva morta, rinsecchita, non sentiva, non vedeva, non diceva nulla.

Giovanni si scosse e cercando di recuperare energie le infilò la lingua in bocca e una mano nella fica. Era fredda, asciutta. Tentò di leccarla, di aprirla senza risultato.
Poi si alzò di scatto e prese il telefono dal comodino.
«Marcello? vieni su un momento… subito!»


Marcello quando fa il turno di notte può riposare in una stanzetta dietro la reception dove sono sistemati una branda e un piccolo televisore in bianco e nero. Ha trentatrè anni e da cinque lavora in questo piccolo albergo nel centro di Roma, dietro la stazione. E’ un albergo di lusso con clienti di tutti i generi, dai turisti giapponesi a quelli come il dott. Sallustio che la stanza ce l’hanno fissa tutto l’anno
Marcello vorrebbe una vita diversa, un trapianto di capelli e le lenti a contatto. Una bella macchina. Un appartamento in centro, magari un attico, sogna spesso di essere uno dei clienti dell’albergo in compagnia di quelle donne bellissime. Se avesse i soldi ordinerebbe ostriche e champagne e poi, come Sallustio, le porterebbe nella sua stanza.
Quella sera, era arrivato puntuale alle otto. Aveva aperto il suo armadietto nella stanza attigua alla reception. Si era tolto la maglia per indossare la giacca blu, doppiopetto, con i bottoni dorati. Un’occhiata veloce allo specchio con il pettine in una mano e nell’altra il gel. Non c’era rimasto molto da sistemare, anzi quella peluria biondastra che si appiccicava alla nuca dopo la pettinata con il gel, peggiorava la situazione. Presto avrebbe fissato un appuntamento per l’impianto di capelli nuovi, appena fosse riuscito a mettere da parte i soldi necessari.

Il temporale fuori grattava il cielo nero di lampi. I tuoni a tratti rimbombavano che sembrava volessero tirare giù tutto il palazzo. La sera era trascorsa come sempre. Niente di nuovo.
Agata entrò verso le undici, seguita da Sallustio che si era avvicinato a Marcello senza dire una parola.
«Dott. Sallustio, ecco la sua chiave!»
«Grazie Marcè!»

Marcello aveva continuato a guardare la televisione. Il wrestling non lo interessava, ma c’era il fracasso giusto per non rischiare di addormentarsi. Prese uno dei suoi giornaletti da sotto il letto.
Il led rosso si era acceso già da qualche secondo.
Funzionava così, prima la luce per evitare suoni molesti, poi il cicalino fastidioso.
Sbuffando si alzò e sollevò la cornetta. Era la 215.
«Marcello? vieni su un momento… subito!»
«Certo… subito!»


3.

«Vieni, entra…»
La voce del dott. Sallustio era insolita.
«Dottore…» la stanza era in disordine.

Agata era quel disordine, distesa a terra che sembrava morta.
«Oddio… che è successo?»
«Niente, non è successo niente. Solo che la signora stasera fa i capricci. Tu mi capisci vero? … Chiudi la porta Marcè, chiudi bene»

Marcello chiuse la porta. C’era uno strano odore nella stanza. Odore di sangue e paura. Odore di odio, di sudore. Giovanni si alzò di scatto e iniziò «Ti ricordi, Marcè, il discorso che facevamo qualche tempo fa? Te lo ricordi vero?»

Agata da terra li osservava: Giovanni aveva lo stomaco proteso in fuori e le mani ai fianchi, percepiva le loro voci distorte, le sentiva rimbombare nella stanza e poi farsi ronzio. Marcello, invece, se ne stava impalato senza riuscire ad abituarsi al puzzo di alcol e stantio, di finestre chiuse, di nessuna possibilità di fuga.

«Dunque… dicevo. Siccome che la signora qui presente mi ha fatto incazzare voglio farle un regalo stasera… e lo faccio anche a te» disse Giovanni.
Marcello lo guardava come se avesse perso interesse verso tutto il resto, prigioniero delle sue parole. Agata ebbe paura.
«Tirati giù i pantaloni, Marcè… tanto tra uomini non si fa caso a certe cose… vero? Oh, mica è gratis… fammi sto servizio che ti regalo una scopata che nemmeno te la ricordi, poi ti ci restano in tasca tremila euro »
Agata vide Giovanni infilarsi una mano nella tasca dei pantaloni e tirare fuori il portafoglio con l’aria soddisfatta di chi sa di averla spuntata.
«Ma che dice… è uno scherzo?» Marcello aveva cambiato voce, guardò Agata solo per un istante. Lei lo pregò con gli occhi.
«Quale scherzo… mica ti chiedo un lavoretto semplice sai?... Questa è una stronza!... Te la senti Marcè? Un giovanotto come te mica c’ha problemi vero?»

Agata si sentì avvolgere da un freddo intenso; distingueva gli occhi sbarrati di entrambi, due animali che torreggiavano il suo corpo. Di certo l’avrebbero picchiata fino a farle sputare la sua sottomissione. Il gemito sarebbe stato il segnale di resa e subito dopo, quelle bestie, l’avrebbero finita, senza fretta, seviziata fino a farla capitolare.
Giovanni la prese per i capelli tirandola su di peso. Agata leggera, si sentì volare e subito dopo atterrò pesantemente sul letto, con le braccia sotto la pancia. Incastrata non riusciva a respirare. Avrebbe dovuto cercare di muoversi, scappare, alzare la testa; poteva farcela, dimenarsi, ribellarsi, chiedere aiuto, urlare. Ma non fece in tempo. Giovanni, le era salito sopra e aveva iniziato a cavalcarla stringendola tra le cosce grasse. Con prepotenza le aveva preso un polso per volta per legarlo alla sponda del letto.
Marcello inebetito non guardava più. La sua eccitazione rimbalzava tra l’idea di tutti quei soldi e il corpo aperto, che aveva di fronte.

«Ancora non ti sei spogliato? E andiamo…» Giovanni sbuffava sollevandosi goffo dalla schiena di Agata. Lei si girò per cercare Marcello «Aiutami!» riuscì a dire poco prima che un ceffone le rivoltasse ancora una volta il viso.
Marcello iniziò a spogliarsi lentamente.
Agata era carponi, la faccia spalmata sul materasso, le braccia aperte, il vestito sollevato sul sedere e le mutandine color avorio, di raso strappate che non coprivano più il sesso. Vulnerabile, sollevò la testa e cercò di guardarlo, ancora una volta, ma Marcello oramai era diventato l’incubo di sé stesso, travolto dai suoi stessi gesti con gli occhi incattiviti che non tradivano la sua determinazione.
Giovanni soddisfatto di essere stato causa di tale osceno mutamento continuava incalzandolo «Dai montala, fammi vedere se ho puntato sullo stallone giusto…» mangiandosi le parole nello sbattimento.
Agata sentiva i loro respiri mischiarsi, Giovanni che lo incitava e le mani di Marcello che la stavano stringendo fino a farle male. Voleva gridare ma lui, come un automa, le aveva infilato un lenzuolo nella bocca.



4.

Marcello esce chiudendo dietro di sé la porta della 215. Nel corridoio s’infila la giacca blu con i bottoni dorati e passa le mani tra i capelli prima di entrare nell’ascensore.
C’è un gran silenzio.

Passa dietro al bancone della reception, in televisione ancora il wrestling. Un ciccione biondo enorme solleva uno altrettanto grosso completamente calvo e lo scaraventa a terra afferrandolo per la gola.
Lui ripone il giornale nascosto bene sotto il materasso e si mette seduto.
Dalla tasca dei pantaloni gli esce una mazzetta da cento euro. Non ricorda di averli presi. Qualcuno glieli deve avere messi in tasca. E’ stanco, gli fanno male le braccia, persino le dita. Stordito, gli gira la testa. Non vorrebbe ricordare, ma non riesce a farne a meno. Lo specchio dietro al comò. La schiena liscia e bianca, dritta.
Nessun rumore. Sì, questo lo ricorda.

Un gran silenzio, lo stesso di quando glielo aveva messo dentro con un gesto rabbioso, fino a farsi male, poi un calore insopportabile gli stava disfacendo il cervello, per questo l’aveva colpita con forza mentre spingeva dentro di lei, picchiava e spingeva. Spingeva e picchiava finché si era accasciato come svuotato, senza più energia. Agata era sotto di lui. Non erano singhiozzi, li avrebbe riconosciuti, no, Agata era lì a implorarlo di farla godere ancora. Anche il dottor Sallustio era contento, eccitato lo incitava a continuare e rideva a gran voce. Marcello era sicuro, anche Agata stava ridendo. Era passato da una sponda del letto all’altra per scioglierla. L’aveva girata, era bellissima. Le labbra viola e gli occhi luminosi. Lacrime di gioia. Ci poteva giurare.
Alle donne piace essere prese per il collo.

Questo aveva pensato a un certo momento.
Le fermò le braccia girandola con la pancia in su. In ginocchio davanti a lei, con una mano, spingeva il suo cazzo nella fica di Agata, bianca di desiderio, rossa di voglia. Marcello ricordava.
Certo, ricordava di aver sentito un odore forte, penetrante, acre e acido che gli era arrivato al naso. Grugniva assetato perchè stava raggiungendo il culmine, il godimento, i tremila euro, il trapianto, una nuova vita, questo sentiva mentre continuava a scoparla come un automa, senza più nessun piacere; la stringeva con forza, con una violenza che non sapeva di avere.
Sallustio si agitava, sbraitava ma Marcello non sentiva più niente.
Solo continuava a stringere quel collo come impazzito, senza controllo.
Poi… più nulla.
Un sogno.
Solo un brutto sogno.

La mazzetta gli cade dalla tasca sul pavimento. Marcello la raccoglie e la getta sul letto
Il led rosso prende a lampeggiare. Tuona.
Marcello alza la cornetta, ma la voce non esce

«Marcè… so io… senti chiama il medico, subito… anzi Marcè fai na cosa… fai sto numero: zero, sei, sette, cinque, due… cinque, cinque. So amici miei, digli che Sallustio ha bisogno di smaltire certa roba… loro lo sanno… dai Marcè che non è successo niente… capito?... non è successo niente»