Crucis

di   Cristiana M.

 



Non ha movimento il corpo di donna ripiegato nell’angolo buio della stanza.

I due tortores, lì accanto, hanno il respiro grosso. Dell’attesa. Tipico di una esaltazione alienata che per essere goduta appieno deve ancora trovare la sua dimostrazione concreta. Solo i gesti nervosi delle loro mani e gli sguardi complici che si scambiano sottolineano il fatto che quel lavoro non è finito. Una pausa prima della risoluzione finale. L’esito ultimo di un programma che si sta avviando alla conclusione.

Lei tiene le mani abbandonate contro le caviglie nude e livide che conservano i segni dello scontro. Anche i suoi occhi, ora chiusi, tradiscono, nel loro spasmo, il dolore dell’aver visto troppo. Tra le spalle piegate, il collo compie una curva su se stesso, marchiato da due strisce bluastre che sembrano una catena. Segni di percosse pesano anche sulle braccia e le cosce; e i piedi si ostina a tenerli piantati sul pavimento, come fossero un baluardo da contrapporre alla paura. Per questo le vene della gamba dalla caviglia attraversano il collo del piede e gonfie s’infilano nella pelle chiara fino alle dita.
Alluce, Illice, Minulo.
Non ricorda gli altri.
E’ questo che sta pensando quando inaspettata una mano l’afferra per il gomito e la trascina sul pavimento fin sotto la luce, al centro della stanza.

PRIMA VOCE:

Sono Edore, io che non svelo.
Caduta fra le sue braccia nell’inganno di saperlo uomo. Prostrata di fronte al desiderio di quel corpo che sentivo vivo dentro me. Io, aperta , braccia e gambe, che del mio sesso feci giustizia immolandolo al sacro vincolo dell’esistenza. Dove in ogni corpo ho sempre riconosciuto il suo, oltre la carne e tutti i sapori che ho sublimato. La mia lingua ha testimoniato i suoi sapori, tra gli altri cercati e goduti solo perché lui era lontano, distante, distratto. Ho aperto la porta del supplizio e dello strazio dei sensi ho fatto estasi, sprofondata nel desiderio di essere strumento di quelle mani che hanno stretto i miei seni fino a berne voluttà. Ogni mia soglia era per lui così che potesse farne uscio ed entrare e uscire al tempo dei miei orgasmi. Liquida la mia anima adagiata fra le sue oscenità ha viaggiato negli abissi, facendo marea la pelle e arco del corpo. Non trovai mai altro amore che il suo e di questo feci il mio danno. L’alterazione di ogni altro volto nella distruzione di ogni amato che non fosse lui. Ho vagato la terra, leccandone lo scempio, per cercare solo di liberarmi da questa ossessione. Sconfitta tornai a lui che non mi volle più dilaniata dal desiderio, ma serva del suo non senso.





L’applauso parte incerto per divenire, dopo poco, una esortazione convinta.
Poi s’affievolisce.
Qualcuno si schiarisce la voce per non doverlo fare durante la rappresentazione.
Quando anche quel leggero brusio s’interrompe, il teatro resta muto. Per questo il direttore d’orchestra apre le braccia e lascia la sua bacchetta vibrare in aria verso i musicisti e loro devono aver compreso perché la melodia si dispiega e prende forma.
In platea qualcuno si sporge per osservare meglio, mentre dai palchetti, in galleria, tutto appare nitido e chiaro, anche se la vittima è ancora sdraiata a terra.
Indossa una veste chiara, lacera e macchiata da sporco e sangue. Una spallina è stata strappata, forse nel tentativo di tenerla ferma quando aveva provato a reagire. L’altra è appoggiata alla spalla e impedisce al tessuto di mostrare i seni.
La melodia accende il teatro e lei improvvisamente si dimena come in preda al panico e sbatte più volte la testa sul pavimento. Una specie di ululato si alza tra gli spettatori, un grido di disapprovazione, di rabbia. Incitano i due uomini a fare qualcosa per impedire che lei si faccia male prima del tempo. Allora uno dei due le pianta un ginocchio sulla fronte e le blocca il capo a terra. Poi le lascia voce.

PRIMA VOCE

Si può vivere come ombra di un sogno mai avverato?
Un fantasma immaginato donna, una totale trasfigurazione che astraeva la realtà negandola e confinandola nell’inimmaginabile.
Questo fui ai suoi occhi, l’illusione di un amore che in se stesso prendeva forma e sostanza, fino a scindersi e assumere sembianze di dea.
Solo ai suoi occhi.
Non ai miei.
Perché avevo armi affilate e le mostravo impavida e certa che non fossero confuse con i giunchi e le ninfee. Lo inventai saggio e spazioso da poterci mettere dentro il dubbio.
E l’ho amato senza consuetudine, giorno dopo giorno, ignara del suo cancellare di me ogni passo, nell’idea che l’unico movimento possibile fosse quello da lui designato. Così che senza posa m’indicava la strada al pensiero, al sentimento, all’eros, come fosse da me spontaneamente intrapresa e non quella da lui imposta.
La violenza non traspare sempre con la ferocia che sappiamo riconoscerle, per questo tornai. Sapendo di essere altro e sperando che prima o poi lui se ne sarebbe avveduto.



Il sangue rappreso intorno agli occhi forma una cortina densa che le impedisce di mettere a fuoco la scena. Così come la luce fastidiosa che ora le è addosso la costringe ad aprire e chiudere più volte le palpebre. Eccola mischiata al puzzo di sudore dei suoi vessatori, confusa a quello dell’alcol che hanno tracannato prima di alzarsi dalle loro sedie.

La trave le oscura gli occhi come un sipario. Improvvisa. Causando un inatteso bagliore. Una cecità luminosa che in pochi secondi viene risucchiata dall’ombra che subito dopo l’avvolge. Un nodo gonfio che le cinge la nuca. Le mani, ora più di due, le afferrano polsi e caviglie poi la stirano aprendola. Una sottile X, quel corpo dilatato. Scosso e seminudo, delicato come di bambina.

Cerca di ribellarsi voltando la testa da una parte e dall’altra fino a sollevarla.


PRIMA VOCE

Io, Edore, che ho cavalcato le mani per pregare in silenzio, che ho cercato il vero oltre la forma per dare a lui la mia sostanza, ho fallito.
Fallito perché la sua perquisizione non contemplava me, ma solo l’idea che aveva plasmato di una me mai esistita. Lui che ha amato solo se stesso attraverso i miei occhi, tra i seni che stringeva, nelle labbra che succhiava.
Che l’amore fosse vessazione, l’inganno del suicidio, non potevo immaginarlo.
Io la sua immagine riflessa per questo ora trucidata. Perché lui possa salvarsi.
IO, Edore, negata al mondo solo per lui potevo profumare di buono. Condannata dal corpo amato all’amore che non ho mai compreso.
Ho tradito me per prima, questa lei inadeguata ai miei stessi occhi, cercando il moto continuo del mare nelle mani di altri uomini. Affamata del tutto e attraverso il tutto, del nulla. Parte di mille parti diverse. Mai unica né bella, mai doma nel suo andare ingordo, eppure arresa al cospetto di colui che ne faceva pasto.



E’ una sorta di gabbia quella che lo cala dal cielo. Tre pareti di sbarre ornate da drappi di tessuto viola e rossi. Scende come un demonio con le braccia aperte e le mani aggrappate al ferro. La tunica è nera come il cappuccio che indossa, senza occhi. Aspetta il tripudio per togliere la maschera, e l’ovazione dei suoi proseliti non tarda a farsi sentire appena tocca terra. Le esortazioni, come grida ossessionate, non accennano a placarsi se non dopo sfilato il cappuccio. Il viso spigoloso e senza espressione sembra quello di un fantoccio a causa forse della folta chioma che gli scende sulle spalle. Gli zigomi forti danno risalto agli occhi talmente chiari, bianchi.
Il cielo sopra il teatro si è fatto buio e la scena ora prevede una luce forte e potente a inquadrare il protagonista. Lui è ancora fermo con le braccia aperte e solo quando tutto intorno è silenzio le abbassa. Scende e subito dopo la gabbia risale cigolando per lasciare spazio ad un thronus coperto da un baldacchino di pelle nera.
Si siede lanciando uno sguardo feroce verso la condannata che è proprio di fronte a lui.
Dalla porta principale in fondo al teatro, avanza un gruppo di donne. I drappi delle vesti si trascinano sul pavimento, gradino dopo gradino e poi lungo il corridoio principale, pedinate da un faro di luce bianca. Una piange, l’altra procede con lo sguardo basso, una terza è protesa verso la scena principale e l’ultima si stringe tra le braccia.
Camminano vicine verso il posto che gli è stato assegnato.
Lui fa un cenno col capo e il coro intona.


CORO DI DONNE

Sejus.
Sejus, macchiato dall’infame delitto della presunzione, colpevole per aver presunto la possibilità di essere libero di amare.
Amare senza condizionamento e senza confine.
Amare oltre l’amabile, al di là di quanto sia possibile farlo.

Sejus che non si difende e non si lamenta.
Sejus che la sua vita ha preso significato solo nel servire la vita altra, quella che ama ben più che la sua. Che fa paura perché è sacrificio. E’ dedizione, devozione, abnegazione. Che non considera mai la colpa, ma solo la bellezza che a questa si nasconde dietro. Che a gli occhi di tutti è privazione.

Sejus lo stupido perché da Edore prende tutto.
Sejus che ha scelto lei come sua unica donna. Che ama le sue carezze e desidera i suoi profumi, che la guarda e per lei si fa fiera e poi pecora. Che ucciderebbe se fosse necessario. Che piange quando lei non lo sente e sorda persiste nello sbaglio e gli tende la mano quando lei si alza e di lui ha bisogno.

Sejus che esiste solo perché Edore esiste e respira.
Sejus che la segue da lontano, sorveglia i suoi altri amori, soffre e poi ne sorride perché capisce. Che ascolta le sue bugie come fossero verità e non si agita nemmeno quando il cuore stringe e crepa nel suo petto. Che ama, di un amore struggente e solido fatto di voci e suoni, di odori, di tutti i sapori del corpo di Edore.

Sejus che è imperfetto e a volte cade,
Sejus che sa cosa significa rivoluzione e ne fa vanto. Che conosce la passione, il salto oltre il quale il desiderio diviene sete e fame e un corpo il pane da spezzare e assaporare lentamente. Che dell’amore ha fatto vita. Che questa è la sua colpa.



Le luci ora inquadrano i due tortores che, muniti di scudisci, obbligano la donna fuori dalla scena, trascinandola via. Ricompare dapprima il suo capo, i capelli lunghi e scuri che graffiano il pavimento. E’ piegata sotto il peso del patibulum che quasi le sorregge le braccia. Pare squartata tanto il suo petto è stirato da quella posizione. In platea è silenzio, il direttore d’orchestra concentrato fa smorfie con la bocca mentre lei si muove e avanza. Il mento appoggiato allo sterno per non guardare.
Sembra diversa ora a guardarla bene e anche il pubblico se ne accorge. Il suo sguardo è potente e diretto e lei sembra aver recuperato energie e perso la paura. Si aggiusta alzandosi sulla schiena, come una sfida.
Sejus incalza l’accusa questa volta alzandosi in piedi e prendendo voce.


SECONDA VOCE :

Sentite?
Lo sentite il canto della sirena?
Ammalia il cuore dell’impavido che non resiste e schianta.
Un canto dolce e calibrato, che ho riconosciuto colare come miele nel profondo delle viscere e risanarle da tanto solitario vagare. Per questo mi persi in lui. Evadendo dal mio stesso corpo per divenire unica essenza con quel dolce veleno che mi inabissò elidendomi nel mio stesso sentire.
Sembrava vangelo, quel canto e così mi prese forma nelle vesti di colei che oggi vi è di fronte, arrivata per darmi annuncio al solstizio d’estate, come un angelo di dio.
Blasfemo e vizioso, nascosto nel verso che l’Upupa regala al suo amato.
Amare e amore.
Per questo sembrò facile rimbalzare. Per questo non ci fu speranza. Per questo fui arreso al desiderio di morire.
Ma come può arrecare tanto danno al cuore il solo trapasso di un suono?.
Amore.
Una colata di cemento tra le fronde.
Questo fu, questo è stato e così è.
Fino a condurmi nella confusione.
Menzogna o verità, ferocia o dolcezza?
Le ho dato il cuore, credendola gazzella, indifesa creatura dalle braccia lunghe e gli occhi profondi. Senza accorgermi che non erano braccia, le sue, ma le dieci, cinquanta teste di Idra ad irretire ogni mio gesto. Ed io, poco scaltro, puro ad accettare di lei ogni pianto, ho consumato tutte le ore nell’attesa dello scoglio tagliente o delle sue lingue appuntite che mi offuscavano gli occhi.
La vidi Madonna, aspra e sofferente, Musa che del mio amore faceva Arte e solo troppo tardi Medusa dagli occhi di ferro. Per questo le affidai la vita. Divenni sua vita.


Per gli spettatori intervenuti, nessuna ribalta solo contorno scenico, l’apparato mentale, il disagio acustico nel quale sono costretti a muoversi. Per questo risulta piacevole e confortante. E’ lì che si rifugiano quando non vogliono capire. Un pubblico mai chiamato in causa, nessuna giuria popolare ma solo voce di una coscienza convocata per uniformarsi al già stabilito e deciso. Perché qui l’ordine è inverso, non serve cercare il colpevole e stabilire la pena che segue una condanna, il titulus è chiaro persino nelle sue inesistenti motivazioni. Qui pubblico e attori non hanno obbligo di farsi un giudizio ma solo quello ratificare l’operato del potere che li guida. Per questo ascoltano silenziosi.


SECONDA VOCE

Fu in questo fare insidioso, l’ingannevole arte dell’affabulazione, il gioco della menzogna, l’abilità di creare false realtà.
Arrivai a non avere più olfatto che per il suo odore. Una vera ossessione. Lei era ovunque.
Il mio letto aveva il suo profumo del mattino al mattino, quello della notte quando il buio mi faceva delirare per la sua mancanza. Poi la vedevo materializzarsi. No, non materializzarsi lei giungeva, vera. Reale.
Mai un sogno.
Per questo sentivo le sue mani scorrere sulla mia pelle e le mie labbra offerte alla sua carne. Quando livide si appoggiavano mai sazie di nutrirsi di lei e impastarla col sangue, nei denti, nel respiro, in ogni suo sussulto. Montava i miei fianchi, come appesa alle stelle, cavalcando instancabile i miei umori, aperta si legava a me come in un convito senza fine, dove io morivo fra le sue viscere per rinascerle dentro, carne della carne, vita della vita. Perso nelle sue danze per ore mi destreggiavo mescolarle i sensi. Nutrendomi e continuando a bere di lei da ogni bocca fino a lasciarle ogni mio bene scendere nelle sue gole e divenirne parte.
Per lei il mio corpo era uomo.
Vero uomo solo per lei. Per lei sola.


CROCEFISSIONE

Affondano nel silenzio del suo volto contratto, i tortores, lontani dal sentire l’anima che fugge, tra i quarti della luna. S’infila il raggio a ogni chiodo e illumina Edore che combatte il colpo. Due, tre strisce di cuoio, il flagellum incalza, le mani si legano al legno, modulazione di sostanza che cresce e si gonfia nell’attimo esatto in cui i piedi perdono la loro terra. Abbandono dell’archetipo ventre, l’eterno sorvolare nel dolore, la sua leggerezza. Non è ancora icona del reo, ma la sua trasformazione e si confonde alle fibre della croce. Dal pubblico una voce grida “per stillicidia emettere animam” e lei pare obbedire disperdendosi goccia a goccia. Liquefatta. I polsi ora distesi dolgono, contratti nell’inutile sforzo di sostenere il peso e il disgusto di quattro mani che s’appropriano della sua carne. Carezzandola.
Offesa lei s’arriccia, nessun piacere, solo un umore sordo che scivola tra le cosce per la paura. Uno dei due la liscia da dietro. Un colpo di vento e il profumo gli indora la pelle e il naso. L’animale s’addentra nei meandri della carne mentre il pubblico incita la violazione finale. Sono le dita che entrano e le fracassano il petto, le gambe stringono e tremano. Altre mani s’avvicinano al suo volto, una scala è stata appoggiata al legno e lui vuole farla bere, le offre la posca, l’acqua e l’aceto s’infiltrano nella sua gola graffiandola, poi mirra e vino per gettarla nell’oblio.
Ma non basta.
Edore sente ogni cosa. Il dolore la fa invulnerabile e anche quando è una spada a trapassarle il sesso le sembra solo di volare e chiede ancora sofferenza e sfida e grida. Così tornano a percuoterla, ogni colpo uno spasmo di piacere, gusta, assapora la morte che avanza e la minaccia col suo corpo aperto e i capezzoli dritti come spade.
I suoi seni e il ventre contratti mandano in visibilio il pubblico che grida. Alcuni copulano ingabbiati in una spirale che li risucchia, simulano il verso. Altri si sfiorano ferocemente, altri ancora ghermiscono i seni delle donne che hanno accanto, stracciano le loro vesti. L’orgia sale in un delirio di sangue e morte, di violenza appagante.

Edore disperde i suoi umori nella terra, prima di lasciarsi al mondo, addomesticata solo dalla morte. Edore in croce, sedotta e profanata.


SECONDA VOCE

Ha sempre negato la verità.
Per questo caddi.
Perché non avevo occhi che potevano conoscere il male. Questo è il mio peccato, aver pensato che fosse Madonna e non Idra.
Idra. Tante teste quante le sue facce che sorridevano fedifraghe al mio sentire. Io che non dormivo più, non pensavo, non avevo altro che lei nel mio desiderio. Lei e la sua verità, la sua gioia, il suo vivere, il suo cadere. Ne ammiravo ogni gesto, grato al fato che l’aveva condotta nella mia via.
Di tutte le ancelle che ho trasformato in ogni suo sguardo, quanti corpi ho immaginato fossero il suo. Ingannandomi miseramente, perché quel profumo non ero io a riconoscerlo, bramarlo, ma ogni parte di me. E se a fatica, riuscivo a illudere i miei occhi, mai fui capace di plagiare la mia carne che cedeva miseramente ogni volta che in questo letto non era lei.
Dal giorno in cui la vidi non mi sono più nutrito se non dell’idea del suo corpo da tenere in me per millenni. Quel mio corpo, mio e solo, di bellezza e interezza, l’unico di cui cibarmi, il solo fatto per essere da me maneggiato e annusato. Corpo d’olio e oro. Carne che sazia la mia fame e orgoglio da mostrare, foss’anche solo a me stesso per scoprirmi di essere degno di vivere questa vita.
Io che l’ho amata oltre le tenebre, sono capace di rubarle la vita.
Felice di farlo. Estinto di questo amore come la morte. Null’altro che morte.

Si alza dal suo trono e si avvicina al corpo di Edore. Lecca, lambisce la sua pelle, la tocca, la implora. Poi tace.

Nel teatro c’è solo silenzio. Un silenzio vivo che non vuole spegnersi. Palpabile. Una sostanza che si appiccica alle vesti, all’ansimare del pubblico esausto, allo specchio delle telecamere inebetite, del regista stravolto e di tutta la stampa che, domani, non avrà nulla da scrivere.