La tana
di Cristiana M.
1.
La stanza: una tana appartata alla fine di un lungo corridoio buio. Lugubre e
grave. Nessun odore e la luce bassa. Accentata. Segno del cronico calo di
energia elettrica tipico di certi vecchi palazzi. Sono indeciso se entrare o
ancorare il tempo. Fermarmi a riflettere. Dietro la porta, quattro muri mal
tinteggiati e un materasso, appoggiato sopra una vecchia rete, nudo.
Questa mattina Arianna ha telefonato verso le 8,30. Perfido, l’ho accolta con
estrema cura e per accertarmi che non sospettasse nulla, fingevo di essere
curioso sui programmi della giornata. Cinguettava allegra e strafottente, come
sempre, dell’appuntamento dal parrucchiere, poi del breve giro in centro per
ritirare un vestito acquistato qualche giorno prima e infine, dopo aver fatto
una lunga pausa, enfatizzando, di quel suo atteso appuntamento. Ormai non
cercava nemmeno di inventare scuse. Da quando tutto era “chiaro fra noi”, le
sembrava inutile nascondermi qualsiasi cosa di quella vita che per molti mesi
avevo ignorato.
Idiota e presuntuoso. Convinto di tenere tutto sotto controllo avrei, invece,
dovuto accorgermi della situazione in cui mi stavo cacciando. Perché per mesi e
mesi non mi ero stancato di ascoltare la sua voce e tutte le menzogne che
inventava, né avevo tentato di sottrarmi al modo violento con cui mi tratteneva,
ingabbiandomi in un reticolo di sensazioni mai provate prima.
Nonostante tutto, oggi penso che, se anche avessi tentato di difendermi, sarebbe
stato perfettamente inutile.
A quel tempo i miei amici mi chiamavano il professore, per quel mio particolare
modo di vivere le relazioni amorose: un annoiato giocatore di scacchi.
Di quelle partite ormai conoscevo ogni mossa e di ogni mossa l’effetto che ne
sarebbe scaturito. Arianna però era diversa, si era presentata come la sfida
della mia vita. Per questo avevo iniziato a giocare senza, purtroppo,
considerare che il mio avversario avrebbe potuto surclassarmi in astuzia e
abilità.
Idiota e presuntuoso. Fin dalla prima volta che la vidi. Indossava un vestito a
fiori, l’abbracciai come fosse una vecchia amica e non con l’ammirazione che
quella sua primavera di gesti attendeva. Ero bravo nel creare tutte quelle
ambiguità che sapevo già avrebbero fatto nascere in lei una curiosità feroce. Mi
ero arrogato il diritto al vantaggio della prima mossa.
Ma quella mattina il suo corpo, nell’aria calda della stazione, aveva preso ad
evaporare. Ineffabile rispose con una contromossa imprevista, infiltrandosi
senza fatica nel mio cervello prima che nella tensione avvertita nei pantaloni.
Terra di Siena era il colore della sua pelle e la mescolanza con la forma,
quella scultorea sostanza che avevo tenuta tra le braccia appena un istante, mi
fecero comprendere che non avrei più potuto dimenticare.
Nei giorni successivi imparai il senso del danno. L’alterazione di ogni punto
fermo che ero stato capace di mettere nella mia vita. Il sapore della
maledizione. Quasi fosse arrivato, per i miei cinquant’anni, il tempo della
vendetta sull’arroganza del non aver mai accettato compromessi.
Chiuso in questa stanza, nei miei pensieri, ora sento di non sapere più cosa
fare. Confuso. O forse furioso per avere, quella sera, accolto tutte le sue
ammissioni con un sorriso scemo sulla faccia. Voleva dire nessun dolore. Invece
mi era uscito goffo e inadeguato, tradendo tutto l’abisso nel quale ero
precipitato. Per mesi avevo lottavo contro i suoi rifiuti cercando di capire
cosa avesse e, forse per non farmi del male, sempre concluso negando l’ipotesi
che ci fossero altre storie. In quel lei che era il mio tutto non potevo
contemplare ci fosse dell’altro. L’incubo di un miscuglio di più corpi, dal
quale estraevo solo e sempre il mio, piegato, spossato, tradito. Un assillo che
alimentavo con tutte le frasi che le andavo propinando. Rassicuranti tanto da
poterle classificare complici, se non fossi stato io stesso a pronunciarle
cercando disperatamente, subito dopo, di ricacciarle in gola.
Ora avverto solo il dolore di questa ferita che brucia dentro come un acido
silenzioso e deturpante e bestemmio quel mio fare domande, assurdo e suicida,
che non mi ha lasciato nemmeno la soddisfazione di essermi beffato di lei.
Quella stessa notte, dopo ore di discussione, ebbi una crisi, attesa e per
questo ben accolta. Così lasciai Arianna nello studio, sdraiata sul tappeto a
guardare il soffitto e ascoltare musica, ancora distratta dai suoi racconti
volgari. Recita, mi convinsi, recita un dolore che non esiste. Puttana. Recita
con me tutto ciò che non è con gli altri. Gli altri.
Mentre mi spostavo lungo il corridoio per andare a dormire, mi si delineò un
pensiero nuovo. Cercai di spogliarmi in fretta per finire velocemente a letto.
La luce dallo studio illuminava uno spicchio del pavimento. Me ne fottevo di
quello che Arianna stava facendo e mentre lo pensavo sapevo che non era vero.
Quel corpo sdraiato nella stanza accanto continuava a molestare la mia mente. E
non mi capacitavo del fatto che avrei dovuto odiarla, cacciarla via per sempre,
invece me la tenevo piantata al centro della fronte, ficcata nella profondità di
ogni pensiero.
Così continuavo a torturarmi nel considerare quanti l’avevano toccata, presa,
amata, scopata. Scopata mi fece un effetto particolare. Almeno non quello che mi
sarei aspettato, perché come una scossa elettrica mi prese lo stomaco.
Durò un attimo. Allora riprovai. L’hanno scopata. E accadde di nuovo. Immaginavo
in quello stesso letto tutti i suoi amanti che premevano per entrarle dentro, le
mani a stringerle le cosce, le bocche desiderose di berla, violarla, esplorare i
suoi luoghi più nascosti. Ero eccitato e allo stesso tempo turbato perché in
quel tormento l’unico corpo che non riuscivo a materializzare era il suo. Di
lei, nessun gesto. Nelle scene che andavo vagheggiando ogni movimento di Arianna
era opaco, sfumato, praticamente invisibile.
2.
Il giorno dopo iniziai le ricerche su internet per trovare un tipo adatto al mio
scopo. Avevo bisogno di un complice scaltro al quale poter parlare senza peli
sulla lingua. Dopo una settimana di delusioni riuscii ad avere un contatto con
un certo Giulio, consigliato da uno strano millantatore di paradisiache emozioni
in rete. Fissammo un appuntamento per la sera dopo, in un club privato fuori
città. Mi fece subito una buona impressione. Ero rimasto colpito dallo sguardo
misterioso e svelto che giudicavo adatto allo scopo e dal suo corpo, muscoloso e
ben fatto, senza essere esagerato.
C’è una donna con me in questa stanza, Elena. Non abbiamo scambiato che poche
parole durante tutto il tragitto. Niente da dire. Appena arrivati ha stappato
due birre poi si è seduta accanto a me. Non avrà più di trent’anni. Una
ragazzina che di certo non fa nulla per nascondersi ben addestrata al compito
che le hanno affidato. Le guardo la scollatura della camicetta mentre i seni
tondi si muovono a tempo col respiro. «Allora, sei pronto?» chiede. Mi
infastidisce quel “tu”. Per me sarebbe potuta andare via, lasciarmi solo. Il suo
profumo mielato mi crea disagio, come l’odore della pelle sciupata e la bocca
carnosa, troppo rossa. Le da un’aria ebete un po’ stralunata, per niente
seducente. «Avvicinati al binocolo, tra poco sono le dieci. Ne avrai per
un’oretta. Forse qualcosa in più. Dipende da come vanno le cose». Da come vanno
le cose. Capisco che il mio unico desiderio si sta trasformando in realtà. La
mia ossessione. Me ne rendo conto ma non riesco a reagire. «Eccoli, guarda, sono
entrati». Un colpo secco nella testa. Uno sparo. La luce nella finestra di
fronte si accende. Indago il profilo di due figure, un uomo e una donna e pur
sapendo chi sono coltivo fino alla fine una speranza assurda.
Giulio si è accostato alla finestra, con la sigaretta alla bocca. L’effetto del
binocolo mi fa sentire talmente vicino da potergli vedere il fumo uscire e
immediatamente dopo essere risucchiato nel naso. Mi da la nausea. Giulio,
qualche giorno prima, imbeccato da me, aveva aspettato Arianna all’Ufficio
Postale e con una scusa attaccato discorso. Lei aveva riso e accettato un caffè.
Dopo il caffè anche il numero del suo cellulare. Poi, come seguisse un copione,
un paio di giorni dopo l’aveva richiamato.
Spiare. Questo voglio fare. Elena mi distrae eppure la tollero senza capire il
perché. Mi accomodo col suo ginocchio bene in vista. Scolo la birra. Nelle ossa
sento tutta la tensione di quello che sta per accadere e continuo a coltivarla
travolto da un pensiero martellante e morboso; cercare immagini che puntualmente
si rifiutano di prendere forma. Il mio corpo è pronto e non riesco a
nasconderlo, tanto che incrociando lo sguardo di Elena la vedo sorridere,
maliziosamente. Non mi fa nessun effetto e da quel momento decido di
dimenticarla e avvicino gli occhi al binocolo.
Arianna seduta sul letto apre le gambe lasciando scivolare tra le cosce le sue
mani fino a raggiungere gli slip. Mentre si sfiora con una espressione da cagna
affezionata, pronta a eseguire ogni ordine del suo padrone, fissa Giulio dritto
negli occhi. In quella tensione animalesca, che riconosco, vive la sua carica
erotica, unica e travolgente, della quale non so più fare a meno. Sposto
l’attenzione su di lui, incuriosito. Lo vedo farsi serio. Per la prima volta il
suo sguardo perde mistero, il sorriso la piega e in quella bocca socchiusa,
presa da impercettibili movimenti spontanei che seguono ogni movimento delle
mani di Arianna, rintraccio il nascere di una smania impulsiva, indomita a
qualsiasi tipo di controllo.
Giulio si piega in ginocchio fra le sue gambe e avvicina la testa alle mani che
Arianna strofina contro il pizzo delle sue mutandine. Un cingolo arrotolato che
si infila nella carne, accarezzato con maestria dalla punta delle unghie che ne
scoprono il contatto. Ci mette il naso, piegato. Ma non sono i suoi gesti, anche
se così intimi e indagatori, che mi fanno male, quanto l’espressione vogliosa di
Arianna che con la lingua inumidisce le labbra aprendole e gli sussurra
qualcosa. Mi torce lo stomaco. Parole? Per un estraneo? Cosa può capire lui
delle parole. Le nostre parole. Quella è la mia terra, mio, il profumo di ciò
che le sue labbra sanno raccontare. Perché sono stato io a insegnarle tutte le
parole oscene dell’amore.
La odio e riprendo a guardare, con le mani che tremano. Si sdraia sul letto e
con la testa sollevata guarda Giulio mentre le disegna la fica con la lingua. La
colora di saliva, separa le labbra aderenti, prende il suo ingresso e ce la
mette dentro con una pacatezza ossessiva, senza arrendersi per un momento né
dilettarsi del suo meraviglioso odore.
Lei gli prende la testa tra le mani, aggrappata lo costringe a restarci dentro;
vagare tra le cosce che vedo muoversi affamate. Provocato mi lascio trascinare e
insisto nel guardarla avido senza riuscire a compiacermi di questo prodotto che
io stesso ho generato. La detesto e la adoro allo stesso tempo costretto a
premere le mani fra le gambe per contenere il desiderio, questo piacere estremo,
dionisiaco, delirante che percepisco ristagnare nel mio corpo.
Giulio si alza di scatto e la tira su dal letto per appoggiarla con la faccia al
muro. La piega costringendola ad appoggiarci le mani. Lo guardo sollevarle la
gonna, da dietro scivolare con le dita sul suo culo perfetto, scendere verso le
autoreggenti e scansare il pizzo. Con un dito lo afferra, lo tira e poi lo
lascia di colpo. Una insulsa misera scudisciata che, contro ogni mia previsione
pare invece dare molto piacere ad Arianna che ad ogni colpo tira indietro la
testa e parla e dice qualcosa che non posso ascoltare. Mi maledico per non aver
pensato a un microfono. Giulio si accorge della soddisfazione causata da quel
gesto e lo fa ancora una volta e una e una ancora, mentre le labbra di Arianna
impazziscono, così apre il palmo della mano e la schiaffeggia rapito da un
raptus che non gli permette di smettere. Vedo la pelle arrossarsi e
l’appagamento che questo gesto le provoca scivolarle sul corpo e colare.
Stanco del gioco Giulio ora le allarga le gambe e senza tenerezza le infila due
dita. Scioccato mi costringo a distogliere lo sguardo, mi sposto dal binocolo
con le mani che mi fanno male per quanto devo averlo tenuto con forza. Elena mi
sta accarezzando i capelli. Non me ne ero nemmeno accorto. La lascio fare
socchiudendo gli occhi. Poi mi appoggio allo schienale e la costringo a spostare
le mani sul mio petto. Le lascia scendere dal collo fin dentro la camicia.
Riprendo fiato per concentrarmi di nuovo sul binocolo, quel monolito che mi
sfida e al quale non so opporre nessuna resistenza.
Giulio si è sbottonato i calzoni che ora gli penzolano attorno alle caviglie
insieme a un paio di boxer bianchi. Di profilo posso cogliere le sue forme; il
naso aquilino, le labbra contratte, il petto definito, il ventre piatto e il suo
cazzo pronto. Dritto e spesso come un bordone. Mi sento male, l’effetto è
devastante, tutto in quella camera accade al rallentatore come se la mia mente
elaborasse un fotogramma alla volta.
La vuole da dietro. Cerca il varco ed entra, nessuna resistenza, immagine
liquida, senza fine. Sta raggiungendo il culmine, la scena che voglio spiare,
l’atto finale del mio machiavellico disegno. Perfido prendo finalmente forma. Mi
nutro di quel corpo malvagio distante dal mio, lo guardo e godo di ogni suo
sobbalzo, l’apertura della carne eccitata accessibile tanto da poterne cogliere
ogni sfumatura nel colore e nella amalgama della sua sostanza.
Pelle rosa che si tinge di bruno fino a diventare nera e perdere morbidezza per
raggrumarsi in piccoli crateri gonfi che guardo distendersi sotto la spinta
della punta del suo pene. Preme e li dilata senza compassione, per
attraversarli.
Quando lo fa Arianna diventa arco, la sua schiena si spezza in un orgasmo che
sento dentro e allo stesso tempo per la prima volta fuori da me. A quel punto,
ubriaco sento la mia voglia premere per uscire dai calzoni. Elena al mio fianco
è con le mani dentro di me e mi accarezza. Fatto che mi da piacere e mi aiuta a
infilare ancora gli occhi nel mio affanno. Metto a fuoco e avvicino l’immagine
per guardare. Ingordo e infame Giulio si stacca da lei e scivola fuori laido di
umori. Quelli che avrei voluti io. Lo fa mentre Arianna s’inchiostra di una
schiuma consistente, si gira e lo lecca mondandolo di tutto ciò che aveva
raccolto. Senza rendermi conto afferro Elena che continua a masturbarmi e la
costringo fra le mie gambe. Inginocchiata a prendersi cura di me.
Spio.
Giulio prende Arianna e la mette seduta a terra, ancora contro il muro le scopa
la bocca come fosse una fica. Afferro Elena per una ciocca di capelli e la
obbligo a fare altrettanto. Ora la sua bocca è quella di Arianna e io posso
sentirla e guardarla nello stesso istante. Mi muovo a tempo con Giulio in una
fusione perversa di movimenti che mi fa impazzire. Ad ogni suo colpo lascio
andare il mio, assillato da questa marcia silenziosa che mi stupra il cervello.
Lo vedo tendersi, allungarsi sulla punta dei piedi. Arianna protende il collo
senza staccarsi nemmeno per un momento.
Così come sta facendo con me. La sento succhiarmi fino a cavarmi il succo,
avvilupparsi con la lingua alle mie resistenze che scoppiano nella testa.
Eccomi, dio illuso nell’ubiquità di essere allo stesso tempo dietro e davanti ai
miei stessi occhi, la riempio nell’attimo preciso in cui nell’altra tana lo
faccio, con un grido che non voglio strozzare, anzi che come eco, prendo a
riprodurre senza sosta: Arianna, Arianna, Arianna, urlo continuando a tenerla
con forza tra le mie gambe, percependo la sua gola che piena trabocca di tutto
quel sublime osceno dolore che ha saputo, ancora una volta, regalarmi.