Lingue

di   Cristiana M.

 



Nella notte blu,
quando nella bocca sempre aperta la lingua del deserto
cerca il tuo umidore
quando ti incenerisce
la tua voce sfinita si avvicina alla mia risposta

Vita della mia vita
bocca inselvatichita
toglierti il vizio del respiro
e impedire il ricordo
lascia ch’io stia con me,
lascia ch’io stia con te

Ho ritrovato
in una notte d’amore
ritrovato.


(Ingeborg Bachmann)



Ecco, la frase colta l’ho messa, ora posso concentrarmi su quanto è successo e cercare l’approccio giusto alla questione. Mi chiamo Nadia, quarantanni, due figlie e un gatto. Ovviamente separata, ovviamente (eddai!) non per mia scelta, ma per decisione altrui (l’altrui potete ben immaginare chi sia, anche se, come posso biasimarlo per aver voluto scegliere la bella vita al posto di una manciata di bollette, pannolini e frignate varie, creme antirughe e modelli unici?). Amici q.b., ma soprattutto amiche: una schiera di sfigate piene di problemi, deluse dalla vita ma non dalle boutiques, affamate di uomini liberi considerati a turno “l’ultima spiaggia” per cui prede da artigliare a tutti i costi. A completamento di questo gaio quadretto c’è poi la nostra mitica riunione, in stile fantozziano, del mercoledì: della serie mistica serata da trascorrere tutte insieme in nome del mutuo aiuto che, tra donne equivale a dire: lotta sorellicida all’ultimo sangue e conseguente disgregazione delle piccole certezze faticosamente conquistate nel corso dei sette giorni precedenti.
Le donne sono gli esseri più perfidi ed infami che io conosca.
Ma tant’è. Quel mercoledì, organizzato a casa mia, Paola, avvenente avvocato ormai nemmeno più in carriera e relegato all’osceno compito di evadere le pratiche sulle cause assicurative (che sempre letto con l’intercalare fantozziano fa il suo effetto), aveva proposto come argomento principe della serata la provocazione: ma non è che sarà meglio una donna?
E forse è inutile sottolineare che non erano previste interessanti discussioni su temi sociali, ma solo quelle squallidamente circoscritte alla possibilità di trovare una alternativa affettiva al solito maschio. E, parliamoci chiaro, goliardicamente ci sta tutta.
Lucia e Mariagrazia sostenevano che il solo pensiero di toccare una donna faceva loro schifo e Luana era inorridita di fronte a questa affermazione. − Non posso credere che siate così ottuse, la discussione non prescinde dall’aspetto puramente fisico, è ovvio, ma nemmeno si puo’ circoscrivere e limitare solo a quello. E da lì giù con le più svariate tesi filosofiche inevitabilmente degenerate in porcate di ogni genere su vibratori e paperelle, alternando banalità a pomposi discorsi sfacciatamente moralisti. Comunque, per farla breve, anche quella sera avevamo dato il meglio di noi e vista l’ora tarda ormai erano andate via tutte, tranne Paola che voleva darmi una mano a sistemare l’abominevole casino che avevamo fatto.
− Certo, non fosse stata per quella meravigliosa canna, come al solito serata da suicidio.
− Bhe, anche il Margarita di Lucia è sempre uno sballo.
A dire il vero la canna non ce la negavamo quasi mai; era un modo, per alcune piuttosto trasgressivo, per ricordare gli anni spensierati e felici, post-sessantottini, di quando noi, ragazze della generazione dove tutto era ormai stato fatto, consolidato e concesso, assopita ogni velleità pseudo-culturalsocioantropologica non avevamo potuto che dedicarci ad una blanda assuefazione alla vita. Lo schifo totale, di questa situazione, restava il fatto che, a fronte di tutte le balle che ci eravamo raccontate, ognuna di noi non aveva fatto che allinearsi agli archetipi delle nostre nonne, per cui trovare un marito, sistemarsi e fare un paio di figli, conquistare un mezzo lavoro e pensare a giocare alle signore. Tutte allineate. Ed in effetti, quegli anni erano trascorsi proprio così, il fidanzamento, la famiglia, la crisi e ora questa specie di vedovanza dal sapore davvero strano, talmente diffusa e prepotente da risultare di difficile decodificazione.
− Sì, ma l’hai vista Mariagrazia che faccia? Eppure non salta un turno, ipocrita.
− Dai Paola, lo sai com’è fatta. Qui lascia stare che faccio domani.
− Se non sei stanca mi fermo ancora un po’.
− Dai va bene, fumiamo l’ultima?
− Sì, ok. Sai, sono rimasta perplessa dai discorsi di questa sera, ma tu ci hai mai pensato seriamente? Dico a fare sesso con un’altra donna.
− Certo. Però proprio non mi viene, insomma, sono in imbarazzo, non saprei da dove iniziare e soprattutto non riesco a valutare se la cosa mi potrebbe piacere o no. Però sono intrigata, non posso nasconderlo, ma lo sono anche nei confronti del sadomaso e della trasgressione in genere. Sai, ne parlavo con l’analista qualche seduta fa e mi ha detto che è tipico della nostra età, si fa pace con la propria sessualità, si conosce meglio il proprio corpo e di conseguenza ci si apre con più libertà alle nuove esperienze.
− Ecco perché i ragazzini vanno pazzi per quelle della nostra età, dicono che siamo molto più sensuali e libere rispetto alle coetanee.
− Ma tu hai mai avuto voglia di una scopata con un ragazzino? Non dico uno quasi coetaneo, dico uno proprio piccolo.
− Bho, lo scorso anno quando ero a Bonifacio, nella barca ormeggiata vicino alla nostra ce n’era uno che era uno schianto, avrà avuto al massimo venti anni, francese, bei lineamenti, capelli lunghi, rasta, compariva mezzo nudo sul pozzetto e ricordo che un pensierino m’era venuto.
Le nostre voci erano diventate un cicaleccio, i visi più vicini e sorridenti, complici. Effettivamente quando discutevamo in confidenza eravamo capacissime di entrare nei dettagli più intimi senza nessun tipo di pudore; in fondo ci conoscevamo da quasi trentanni, eravamo state compagne di banco, di prime esperienze, di matrimonio e ora di separazione e nuove avventure.
− Io ieri ero in centro, è passato uno che se me l’avesse chiesta gliel’avrei data anche lì, in mezzo alla piazza, devo iniziare a preoccuparmi? Sarà che non ci sono più gli uomini di una volta e dammi un Lucano, va’.
Eravamo scoppiate a ridere, stravaccate sul divano.
− Sai, mi sarebbe piaciuto fargli uno spogliarello, solo per guardare i suoi occhi stupiti, almeno a quell’età ancora si stupiranno per qualcosa no? Ecco così.
Era saltata sul tavolino basso ancora pieno di piatti e bicchieri di carta lanciando i sandali da qualche parte e iniziando a tirare giù la spallina della canottiera in una specie di balletto.
− Aspè che ti creo l’atmosfera, le avevo detto accendendo lo stereo, e non ti muovere che vado a prendere la telecamera. Questa non me la perdo per niente al mondo.
Tornando l’avevo vista impegnata, con gli occhi chiusi e le mani fra le cosce, a giocare alla pornostar.
− Sei uno schianto tesoro, adesso ti faccio un filmino hard poi lo piazzo su youtube e ti sputtano.
Paola non mi ascoltava, eclissata in quella danza sensuale ed io, nascosta dietro all’occhio della mia telecamera, ero impegnata a cercare le inquadrature più osè. Giocava con le mani lasciandole scivolare sul suo corpo, dal collo scendevano scomparendo dietro la canottiera ferme sui capezzoli e intriganti nel nascondere il gioco delle dita. Lasciò scivolare anche l’altra spallina mettendo in mostra i seni piccoli ma ancora ben fatti che conoscevo. Eppure così non li avevo visti mai. Iniziai a percepire una sensazione bella, misi da parte la telecamera per guardarla. Il mio corpo reagiva a quell'immagine densa ed io desideravo solo che andasse avanti. Aveva aperto gli occhi: − Ti piace?
Non sapevo rispondere, anzi non avevo voluto, con la paura che le nostre voci avessero avuto il potere di rovinare tutto. Invece lei continuava: − Era tanto che volevo farlo, ma non trovavo il coraggio, non c’è mai stata l’occasione.
Ripresi la telecamera per pudore o per gusto, Paola si era girata di spalle e stava slacciando la gonna lasciandola poi scivolare a terra. Aveva un culo meraviglioso, il perizoma nero lo ornava sottolineandone la linea armonica e soda, m’infilai nelle sue forme, poi allungai una mano. L’effetto fu devastante, dall’obiettivo inquadravo la mia mano che accarezzava la sua pelle, un senso di distanza che mi proteggeva, come fosse stato un filtro, da quella situazione imprevista. Iniziai ad impastare le mani col suo sudore, un piacevolissimo effetto scivolatorio che mi apriva la strada verso i suoi luoghi più intimi. Paola si muoveva a suggerire lo spazio che dovevo occupare ed io ubbidivo, o meglio non io, ma la mano che inquadravo. Presi fra le dita il filo nero del suo perizoma spostandolo di poco per svelare nuovi territori e infilarle un dito in quell’abisso scuro e profondo che mi si presentava in primo piano. Le aprivo le natiche con dolcezza, per infilarglielo dentro tutto, come adoravo farlo nelle mie solitudini erotiche. A Paola piaceva perché iniziò a mugolare e respirare con più intensità. Ero eccitata e stordita, continuavo a masturbarla con tenerezza, allargando delicatamente quel piccolo adorato ingresso, lo penetravo per poco, poi lo abbandonavo al suo richiudersi lento. Poi ancora, in profondità, quasi scavando per cercare qualcosa in più. Il calore che percepivo all’interno si propagava per tutto il mio corpo, non inquadravo più nulla, gli occhi chiusi, stretti, a gestire il mio piacere per prolungarlo e il dito che sprofondava dentro. Tutto. Sentivo Paola avvolgerlo, le sue pareti abbracciarlo quasi fino a soffocarlo, potente era la stretta delle sue contrazioni; la assecondavo, quando stringeva, spingevo, spingevo con tutta la mano, in fondo, dentro a toccare il suo umore più intimo, poi mi ritraevo, ascoltandomi dentro, quasi fossi lì con la testa, le spalle, la pelle. Tirai via la telecamera e iniziai a leccarla, ormai libera di vivere fuori da ogni schema, senza più limiti. Leccavo mentre il mio dito continuava ad eccitarla, la portava ad un orgasmo che sentivo montare, leccavo lei e il mio dito, leccavo il suo sapore, acido e dolce, corposo, denso e trovato spazio immergevo la lingua dentro, fino a che riuscivo, fino ad assaggiarla tutta. Iniziò a tremare, sapevo che stava per godere e voleva che io godessi con lei, le presi la fica con i polpastrelli e giocando col suo clitoride la accompagnai, fino a farla urlare. Ero bagnata, infranta contro la mia voglia di trattenermi ancora un po’, il suo umore era copioso e mi aveva rimpito la mano; la massaggiai brutalmente, penetrandola e sfogliandola fino a vederla rossa, bagnata, un dono prezioso. Lei si voltò di scatto e aprendomi la camicettà iniziò a succhiarmi i capezzoli. Lo faceva come io avrei fatto esaudendo un desiderio mai esaudito, per impotenza, per impossibilità, per paura. Pensavo di impazzire, le tenevo la testa ferma implorandola di mordermi, di farmi male. Stringeva i denti su di me mentre la lingua continuava a vibrare dandomi un piacere infinito, mai provato. Stavamo giocando, godendo di un gioco perverso e appassionato. Salita cavalcioni su di me mi aveva sussurrato − Ti faccio godere io ora, lo ripeteva con dolcezza e sollevato il mio vestito leccava e succhiava, anche lei penetrava e mi faceva sua. Ancora il suo odore nel naso, una sensazione mai provata; fuori di me continuai a prendere tutto quello che Paola mi stava donando, nella testa nessun pensiero, libera mi lasciavo andare, violenta e inarrestabile, tutta sua, fino alla fine, contratta e debole, perversa, oscena senza vergogna, sudata, sconvolta. Felice.
Restammo lì, quanto non so.
− Dopo si fuma di solito, no?
Aveva rotto il silenzio.
Iniziai a ridere: − Che cazzo abbiamo fatto?
− Mi pare si dica scopato.
− Urca, mi viene in mente la battuta del coniglietto, te la ricordi?
− Ammazza che pompa.
La stavo abbracciando felice, incosciente, maledettamente fuori.
− Sai che l’ho fatto per te, vero? Dico per la storia che ste benedette scrittrici devono essere almeno bisex per sperare di contare qualcosa. Mi sono immolata per la causa. però tu da oggi mi chiami Vita, cara la mia Virginia.