Questa non è Hollywood

di  Eletttropunk

 

 

  Nel salire le scale faccio fatica. Ultimamente mi affanno per niente.
“Fatti controllare”
“Faccio le analisi ogni sei mesi”
“Che c’entrano le analisi?”
“Non lo so….”

Il mio bagno ha un odore che è un misto di termosifone, piscio e tabacco.
Non devo usarlo, sono venuto per fumare una sigaretta. Ogni tanto la fumo qui, soprattutto la sera, quando non voglio riempire la stanza di fumo. E poi il bagno è più piccolo della mia camera, quindi più caldo. Seduto tra il water e il bidet leggo una pubblicazione underground e uccido lentamente una Merit. La bacio, l’assaggio, poi la tolgo con violenza dalle labbra e mando giù il boccone rauco. Aspetto un attimo e soffio fuori del morbido fumo azzurro. Sul lato sinistro del bidet c’è una strana macchia rosso scuro. La tocco, è dura e in rilievo: è sangue rappreso. Ci penso un attimo, poi ricordo a chi appartiene. E’ li da un sacco di tempo, almeno 6 mesi, ma si trova in un punto dove di solito non si poggia con le gambe mentre ti lavi, e quindi non è stata disturbata da nessuno.

Con la schiena alla portiera della mia Panda Cafè guardavo il giorno che se ne andava.
Era una bella giornata d’estate, e si avviava al crepuscolo. Le persone con i bagagli che correvano per non perdere il treno non facevano caso al fatto che quella giornata stesse finendo, e che portasse con se tutta la stagione di belle giornate per far spazio agli uggiosi pomeriggi autunnali. Io ci facevo caso, perché la mia vita è divisa tra godermi l’estate e aspettare che torni. Io ci facevo caso perché io i treni li prendo per andare davvero da qualche parte, e non per far finta di avere una vita impegnata. Qual è la differenza? Io non pago il biglietto…. Lo speaker annunciò l’arrivo del treno da Pescara mentre una mandria di uomini “impegnati” si dileguava tra un familiare venuto a prenderlo e una mano alzata per un taxi. Assurdo, correvano anche una volta scesi dal treno. Tra un impegnato e l’altro si fece avanti lei.
Camminava lentamente, e non indossava nulla di minimamente simile a chiunque altro li intorno. Mentre si avvicinava cominciai a ragionarla pian piano. Era molto dimagrita dall’ultima volta, e aveva negli occhi la stessa disperazione che avevo visto in altra gente in più occasioni, ma mai in quelli di qualcuno a cui volevo bene. Arrivata a un metro di me si fermò. Ci guardammo per un attimo, senza salutarci, mi abbracciò e nello stesso momento cominciò a piangere. Non era un pianto di quelli che si vedono nei film, non era dolce, e non partì nessuna una triste musica d’accompagnamento. Era un pianto isterico, nervoso e senza un velo di serenità, contornato solo dal rumore delle ultime macchine che stavano andando via.
Si trattene parecchio sulla mia spalla, fino al silenzio più totale. L’intera stazione non muoveva un muscolo di fronte a quell’abbraccio. Nei film in genere, a questo punto, si dice qualcosa di strappalacrime. Può darsi l’abbia detto, sinceramente non ricordo. Qualche minuto dopo eravamo in macchia a raccontarci storie che conoscevamo entrambi, mentre lo stereo suonava qualche gruppo crust sfigato.
Non mangiò molto quella sera, si sentiva disturbata. Salimmo in camera a fumare qualche sigaretta in pace. Dalla finestre aperte entrava un piacevole soffio di tregua dall’afa pomeridiana.
Mi raccontò dell’eroina, delle marchette che era stata costretta a fare per comprarla, del ragazzo con cui stava ora, che voleva più bene alle sue spade che a lei e della presunta epatite che si era beccata da un tipo con cui aveva scopato, che si era “dimenticato di dirglielo”. Quella sensazione di stantio nell’aria mi nauseava. Vomitai i ricordi felici che avevo con lei per rimpiazzarli con la nuova fase della nostra storia. Declinai l’istinto di prenderla a pugni perché quelle labbra rovinate dalla stanchezza mi ricordavano quelle rosse e carnose che aveva quando scopavamo nel suo letto, e non quelle di una tossica costretta a battere per strada. Deglutii l’orgoglio come un boccone di cianuro, e tentai di restare calmo, e di parlare in modo neutro. Si accendeva una sigaretta dopo l’altra, e mi parlava di maniaci che le mettevano le mani sulle gambe e di quanto costa un pompino nell’ambiente delle puttane. Quando non ne potei più mi alzai e misi su un disco degli Stooges. Mi accomodai per terra e mi accesi un’altra sigaretta. Nel silenzio inquietante tra una traccia e l’altra notai che mi guardava, e i suoi occhi castani sapevano di ansia.
“Senti…ti dispiace se stasera mi faccio?!”
“Cosa?!”

Non pretendevo che fosse venuta a mani vuote, ma almeno solo con del cazzo di metadone…
“Si beh, ho portato un pezzettino che in realtà volevo vendere, per tirar su una 15 euro, così se usciamo posso comprare della birra, ma ti dispiace se me lo sparo?”
“E poi la birra chi te la compra?”
“Dai….:”
“Cazzo perché me lo chiedi? Fai come farebbe qualsiasi tossico: vai in bagno e sparatela senza dirmi un cazzo”
“…ok….volevo lo sapessi…”

Uscì dalla stanza con un astuccio di merda in mano, e io rimasi li e non pensai a un cazzo. Troppo difficile pensare qualcosa in quel momento senza essere condizionato dal carattere. Tutta la mia vita venne avvolta in una pellicola e riposta in un congelatore, assieme a piselli surgelati e hamburger vegetariani. La mia sigaretta si spense da sola nel posacenere, ed è strano che con lei che si faceva di la riuscii a pensare solo al fatto che in realtà l’avessi sprecata, fumando al massimo 4 o 5 tiri. Rientrò in stanza aprendo la porta di scatto.
“Senti, ho un problema….potresti darmi una mano?!”
“Cosa?!?!”
“Massì sono troppo agitata, mi trema la mano, e poi….dai vieni in bagno”
“Certo”

Sentii la vita scivolare via dalla mia pelle. In un attimo mi staccai dal mio corpo che rimase seduto in quella stanza ad imprecare nomi di santi che neanche conoscevo. Continuavo a pensare “ma si, la vita è una merda, è al declino, e non sarò certo io a salvarla dall’inferno”.
Ci sedemmo tra il water e il bidet. Si strinse il laccio nella parte bassa del polpaccio e mi fece segno di reggere. Lo presi. Era uno di quei cordoni porta cellulari o Ipod che regalano con le birre. Sanguinava da più parti. Aveva provato a farsi in altri punti, ma non ci era riuscita. Stava tentando di trovare una vena nel piede. Non era molto esperta, faceva ancora un po’ di fatica. Prima della roba si faceva di coca, sempre endovena, e le sue vene si erano ritirate sottopelle. Mi passò la sigaretta che aveva in bocca. Sudava. Alla fine la prese, e piano piano si sparò tutto. Mentre vedevo quella merda scivolare dentro di lei mi rassegnai, e precipitai in una calda spirale di apatia e odio in cui mi sentivo l’antieroe per eccellenza. L’anticristo di questo mondo. Aspiravo grandi boccate di fumo e guardavo la sua espressione mutare in un sospiro di sottomissione e calma.
Aveva pasticciato un po’, con le mani sporche di sangue si appoggiò al water e al bidet per appoggiare la schiena al muro, e fu lì che probabilmente sporcò la porcellana. I miei genitori dormivano al piano di sotto, ignari di ciò che stava succedendo sopra le loro teste. Non credo avessero mai immaginato qualcosa del genere in casa loro.
Come dopo un viaggio di mille anni luce, uscimmo da quel bagno storditi dalla rassegnazione che ristagnava nell’aria, e dal silenzio che amplificava il vuoto che sentivamo dentro.
“Che facciamo stasera?”
“Non ho voglia di vedere nessuno, a te cosa andrebbe di fare”
“Neanche a me va di stare in mezzo alla gente. Ho voglia di farti un pompino”
Ci fermammo davanti al cimitero, e uscimmo a passeggiare sulla strada sterrata adiacente.
Le luci dei lumini sembravano riflettere il cielo stellato tipico delle belle notti d’estate in periferia, dove i lampioni delle città non distruggono quel poco di attraente che ci è rimasto da guardare tra la cementificazione selvaggia, e dove la piattezza della routine degli automi metropolitani non arriva a turbare le nostre ansie. Lo stereo della macchina suonava “In my garden” degli Swans. Eravamo seduti sul sedile posteriore, con quelli di guida reclinati in avanti. Si accavallò sopra di me. Avvicinò le sue labbra al mio naso e continuò a parlare sospirando mentre cercava di eccitarmi stringendomi le ginocchia nude contro i fianchi, e strusciando col culo sui miei genitali. La cappotte era aperta, e, mentre continuava a mordermi l’orecchio, guardai le stelle e pensai che forse l’amavo, forse no, ma non me ne fregava un cazzo. La mia vita era approssimativa, la sua lo era. Eravamo fatti l’uno per l’altro. Bevve un sorso dal bottiglione di vetro e mi guardò.
In un attimo ci trovammo a camminare tra le lapidi di eroi caduti per la patria, lungo un vialetto di cemento e breccia. Mi sedetti su dei gradini mentre lei iniziò a sbottonarmi il pantalone. Me lo spellò mentre mi baciava sulla bocca, e iniziò a succhiarlo. Mentre sentivo la lingua roteare nella la sua bocca, mi appoggiai con i gomiti all’indietro, e le spinsi la testa più in profondità. La notte ci assecondava coprendoci nel buio del suo ventre, come una madre apprensiva che protegge i suoi figli anche quando sbagliano. Un pompino di una ragazza con l’epatite è un film che non hanno mai girato, o un libro che non hanno mai scritto. Due ragazzi che fanno sesso orale in un cimitero è una storia tipica, ma questa volta è vera. Una ragazza che ingoia il frutto di un duro lavoro di mascelle mentre il ragazzo spinge più in fondo perché il suo cazzo arrivi a soffocarla è pura quotidianità. Una quotidianità che abbiamo imparato ad ignorare. Mentre venivo, le croci di marmo dei caduti in battaglia attorno a noi ci guardavano con aria di disapprovazione. Loro sono degli stronzi, squallidi quanto me, pensai, inculati dalle promesse di gloria di un folle che li ha mandati al macello. Almeno io ci ho guadagnato un eiaculazione, e per quanto possano essere irritati, non mi dispiace aver disturbato il loro sonno. Senza di loro saremmo ancora schiavi dei tedeschi, degli americani o di chissà quale altro popolo insulso. Grazie a loro siamo schiavi di tedeschi e americani che ci hanno colonizzato attraverso i cavi telematici, le tecnologie, la moda ed il commercio. Poco male se non ricevono la mia gratitudine.

La mia auto sfrecciava veloce sulla strada verso il paese, ero calmo e dal finestrino respiravo quello che stava diventando un nuovo giorno. I fari illuminavano l’asfalto che percorrevo distratto, impegnato com’ero a cullarmi, mentre sprofondavo in quella che era la mia totale serenità. La luce blu dell’autoradio illuminava l’interno, e rifletteva la pace che aleggiava in quel mondo, come se fuori da quei finestrini non fosse esistito nient’altro. Quella luce limpida accarezzava il suo viso, le curve dei suoi zigomi e del suo mento rotondo, e mentre guidavo mi voltai spesso a guardarla perché la trovavo più bella che mai. Il mondo non mi fa paura, mi fa paura la gente che lo vive come fosse Hollywood.
“Credo che dovrei fare delle analisi”
“Io aspetterei un paio di settimane”

Il materasso a terra dove ci saremmo sdraiati quella notte era sempre più vicino. Nella mia stanza il fumo che avevamo soffiato fuori dai nostri polmoni era sparito attraverso la finestra aperta, i frammenti di un cd fatto a pezzi pendevano dal soffitto illuminati dalla luce della luna, formando piccoli arcobaleni notturni. Le ombre dei miei disordinati effetti personali danzavano sui muri bianchi con le facce di qualche artista morto impiccato, in un silenzio migliore di qualsiasi melodia. In una calda notte d’estate sentii il cazzo bruciare per un pompino di una ragazza con l’epatite, e la vita non mi era mai sembrata così bella.