La bambola
di Ermione
Ci sono volti che non si dimenticano. Ricordo la sua pelle d'avorio e tutto quell'azzurro dietro le ciglia. Il vestito leggero di stoffa rosa sul suo corpo freddo da sfiorare. Da baciare. Ricordo come la guardò mia madre. Ricordo che disse la vedi? è un incanto; ci stava aspettando. Ricordo la scoperta del suo entusiasmo. La rabbia che mi morse lo stomaco. L’avvampare della gelosia. Avevo dieci anni. Strinsi una mano della donna improvvisamente folgorata dalla bambola che ci guardava dall'angolo della vetrina male illuminata, inutilmente cercando di farle male. Lei si divincolò con fastidio, con troppa facilità, dalle mie dita aggrappate alle sue; neanche protestò, per la fretta di entrare. Mi afferrò per il polso, trascinandomi dentro il negozio. Quasi si avventò sul suo nuovo oggetto del desiderio per timore che altri potessero accaparrarselo. Da dietro il banco l’uomo le sorrise. Buongiorno signora. Fissò l’ondeggiare dei suoi seni sotto la camicetta sbottonata. E’ incantevole, vero? Ma non fece in tempo a decantare la fattura e la cura delle rifiniture di quell’autentico pezzo napoletano dei primi del novecento. Perché mia madre non chiede: quello che vuole, prende. La piccola era già sua. Se la portò al petto, e prese a farla oscillare, come per confortarla. Non vedi che occhioni ha, la mia nuova bambina? La ragazzina che con infinita dolcezza lisciava le vesti, i capelli, i piedi, i polpacci, di una stupida, bellissima bambola di porcellana, non era la stessa che da troppo tempo aveva smesso di accarezzarmi i capelli, di baciarmi sulle labbra con uno schiocco gioioso. Sono dello stesso azzurro di quelli del nonno. E anche se non disse molto più belli dei tuoi, sentii che lo aveva pensato. Sfruttai il fatto che, da un po’, per prender sonno mia madre avesse iniziato a fare uso di sonniferi. Cenavamo, io e lei da soli. Poi sistemava la cucina. Lavava i piatti. Guardavamo la TV. Le sue camicie da notte erano bianche o rosa. Morbide attorno ai fianchi. Corte. Sotto, indossava mutandine larghe di cotone. I suoi seni pesanti, un po’ cadenti, gonfiavano la stoffa sotto le spalline sottili. Ho la sensazione delle sue cosce calde che mi accolgono accanto a lei, mi fanno spazio sotto le lenzuola. Vedo i suoi occhi azzurri che perdono intensità, iniziano a chiudersi. Le sue dita si afflosciano attorno alle mie. Il suo corpo si rilassa, si distende. Finalmente si lascia abbracciare. Da un po’ dormiamo nello stesso letto, il suo. Impassibile, dal comò la bambola ci guarda; aspetta il mio intervento. Ma non c’è fretta. Mi piace farla aspettare. Mi diverte saperla costretta a guardare. Ricordo la mia gelosia: la stessa che ora fa fremere la stoffa leggera della sua veste rosa, le avvampa le guance di porcellana. Aspetto di vederla soffrire. Non vedo l’ora di portarla a godere. Non voglio toccare il corpo inerme della donna che mi dorme accanto. Ho bisogno del suo calore, del suo profumo. Lentamente, lentamente, tiro via il piumone. Porto allo scoperto le sue forme morbide. Sollevo la sua camicia da notte, bianca, rosa, la sollevo su, su, fino a scoprire i fianchi, i seni, la arrotolo intorno al collo. Mia madre giace di fronte a me, e alla bambola, solo con le sue larghe mutande di cotone addosso. Per il freddo, la sua pelle si increspa. Il suo respiro è pesante. Regolare. Al buio il colore dei miei occhi ha perso importanza. E’ successo, a volte, che nel sonno lei mi abbia di nuovo abbracciato, accarezzato. Completamente disinteressata alla bambola. E’ successo che io abbia, lentamente, lentamente, abbassato le mutande di mia madre. Davanti a lei, avvampata di gelosia, pazza di rabbia, è successo che io abbia avvicinato la faccia alle cosce di mia madre. Le abbia risalite. Sono calde. Profumate. Senza toccarle. Senza guardare. Ho avvicinato la bocca e il naso dove le cosce si avvicinano, s’incontrano, si serrano. Sono arrivato alla parte scura, dall’odore più forte. Per terra, in ginocchio di fronte a lei che dorme su un fianco. Ho respirato a fondo, voltandomi a spiare la sguardo gelido, annebbiato di desiderio, della sua bambola avorio e rosa pallido, in equilibrio instabile sul legno del comò. La porto in bagno. La metto a sedere sul bordo della vasca. La guardo in quei suoi occhi immobili, dello stesso azzurro di quelli di mio nonno. Che piacciono tanto a mia madre. E mi tiro fuori l'uccello. E’ piccolo, ancora un piccolo cazzo senza peli. Ma è vispo. Subito duro. Un cazzetto da ridere, che comincio a strusciare su quel visetto da bambola. Sui piedi. Sui polpacci. Glielo infilo nel colletto della veste, abbastanza stretta da portarmi verso il piacere. Che arriva presto, mentre me la sposto su e giù, avanti e indietro, sul cazzo. Le metto una mano sugli occhi, e io li chiudo, quando sento arrivare gli spasmi. Lo tiro fuori, ne controllo da vicino la fessura. Passo in rassegna la veste della bambola. Esce un flebile liquido trasparente, dal mio cazzetto. Non certo il corposo, colloso magma biancastro che mio padre sarebbe capace di tirar fuori dal suo. Ma lui non c’è, per fortuna. Da un po’ di tempo non abita più con noi. La bambola tira un sospiro di sollievo per la sua veste che in poco meno di un quarto d’ora si asciugherà, riprenderà la sua consistenza. Mia madre forse è meno contenta. Per questo ha bisogno del sonnifero. Il cazzo di mio padre deve mancarle, e io non posso supplire alla sua assenza. Avrei voluto riportarla, imbrattata di seme, a vegliare sul riposo di mia madre; ma la rimetto al suo posto, già quasi di nuovo asciutta. Impertinente. Ostile. Avevo tredici anni. Una festicciola a casa di una mia compagna di classe. L’animatore ci aveva fatto fare la gare delle cannucce che soffiano il palloncino più grande, le domande a quiz, ci aveva raccontato la storia del Mago di OZ. Ci aveva invitato a cantare, a indovinare il nome del cartone animato mimato. La madre della mia compagna aveva gridato venite, ragazzi. La merenda è pronta. Durante i giochi mi ero seduto vicino alla scatola con i regali. Il mio amichetto del cuore le aveva regalato Barbie Princess. Diedi una spinta a uno, un calcio a un altro. Mi infilai il pacchetto sotto la maglia. Me ne andai in bagno. La merenda era un buon modo per tener tutti distratti. La mia Barbie Princess si affacciò dalla confezione trasparente, che bucai con le forbici trovate in un cassetto del bagno. La sua lunghissima gonna di organza risplendeva alla luce fredda del neon. Le pisciai in faccia con soddisfazione estrema, guardando quella sua veste bianca farsi trasparente e giallognola. Mi toccai il cazzo, massaggiandolo per bene. E aggiunsi il seme, che finalmente arrivava copioso, al piscio. La gettai dalla finestra. Barbie Princess, nel fango, sicuramente passò la notte leccando il mio sperma, ormai denso e colloso come quello di mio padre. Ma molto più bianco. |