Il vestito

di  Freyja

 



Sono un vestito.
Fondo nero, migliaia di piccole labbra rosso scarlatto. Invitanti, seducenti, bocche da fumetto di Roy Lichtenstein.
Mi esibivo in una vetrina della 5th avenue a New York.
Lei mi ha visto ed è iniziata la danza della seduzione. Amore a prima vista, per entrambi.
Incurante del prezzo mi ha fatto scivolare sulla pelle setosa, il seno nudo e abbondante.
Il commesso, un Wesley Snipes col culo sodo come un melone, mi ha allargato lo scollo, facendo debordare la sua femminilità. Poi, passando le mani lungo i fianchi ha stretto la cintura, un morbido nodo di lato, asimmetrico, come i lembi della mia gonna, che coprono e scoprono le sue gambe in un gioco perverso.
Per mesi sono rimasto nell’armadio, aspettando il mio momento, che doveva essere speciale.
Finalmente arriva. E’ una sera afosa di Settembre.
La avvolgo in un abbraccio morbido, accarezzo le natiche rotonde, annuso la sua pelle, odorosa d’estate e di voglia animale. Sotto le ascelle un odore tiepido, non coperto da deodorante. Tepore umido sulle cosce.
Amo questa donna-femmina, tacchi alti e sorriso di classe, puttana nell’anima. Sono Suo.
Mi ritrovo schiacciato fra la mia troia-regina e un uomo-bambino, bello da spezzare il cuore. Ha jeans strappati calati sui fianchi, calzo. Si muove con grazia, arruffa i capelli. Sorridente la bacia.
Ristorante sul mare, piedi nella sabbia. Nudi, anche quelli di Lei.
A frugare in quella scultura evidente, dentro la stoffa, fino a farlo morire.
Gli occhi di lui insolenti, più spesso impacciati da una muta debolezza.
Più tardi, abbandonato per terra, sul bordo della piscina, la vedo tuffarsi. Nuda.
Schizzi di acqua marina mi danno i brividi. E’ lei che mi dà i brividi, intensi di piacere e dolore, perché il giovane uomo ora sta facendo un gioco crudele. Con una mano afferra quella folta criniera e la spinge giù, nell’acqua gorgogliante. Su e giù, su e giù, e poi solo giù, con sguardo ebete e sadico, e mi si perdoni l’ossimoro.
Vorrei fare qualcosa, ma sono solo uno straccetto.
Lei sputa, tossisce, urla e sputa, ruggisce. Lotta cruenta.
Ne esce vittoriosa. Il giovane uomo sul bordo, boccheggiante. Vivo.
Riposto nell’armadio, profumo ancora di lei, nella mia stoffa interna tracce della schiuma che schiudeva dalla sua fessura durante la cena, come una crema salata.

Passano i giorni, le settimane.
Sono a teatro. Un insolito baccanale dove si mangia, si beve, si gode la vita. Una specie di babbo natale fiorentino recita a gran voce un menu di piatti succulenti come fosse un poema in vernacolo.
Dopo la cena, sazio di ebbrezza, sono con lei su una poltrona di velluto rosso, di tonalità appena più chiara di quella delle mie bocche. Si spengono le luci, cala il sipario.
Lei è eccitata e siede strusciando sul bordo, le gambe aperte. Un mano sconosciuta sia poggia sul ginocchio, poi lenta risale, scosta il sottile velo di pizzo, entra dentro, complice l’oscurità della sala. Lei non volge lo sguardo alla sua destra, perché sa chi siede lì.
E’ l’uomo di sua sorella, un fratello per lei. A quanto pare non per lui. Sul palco un Cappuccetto Rosso in latex nero recita una favola moderna. E’un soprano. Onde ramate, burrosa ma fiera, voce intensa.
Gli occhi delle due donne si incrociano mentre lui osa sempre di più, con insistenza. Due dita ora.
Sfrega di piatto il clitoride. Entra dentro, ancora. Poi porta le dita alle labbra. Lei lo vede senza guardarlo, gli occhi catturati da quelli di Cappuccetto la rossa. Gli prende la mano di nuovo e la spinge lì.
Alla fine dello spettacolo lei si alza, senza dir niente al lupo cattivo va dietro le quinte. La rossa, afona, la accoglie con dolcezza, la bacia e poggia la testa dove i lembi della mia gonna si aprono.
Stanno così le due donne, mute e languide.

Ora mi indossa sempre più spesso, con gi stivali o con le decolleté, perfino con i sandali altissimi e le calze coprenti. Tutte le volte che mi sfila dalla gruccia guardo con sfida i miei rivali, il rosso con ampio scollo dietro, gli scontati abitini neri, il viola, ribattezzato Lewinsky per via di quella macchia che neanche la tintoria è riuscita a cancellare. Lei a volte proprio non riesce a buttar giù quella roba che più spesso invece lecca via con ingordigia.
Non capirò mai le donne…..

Una sera mi porta ad una festa, ma stranamente torna a casa da sola. Sì perché lei proprio non ce la fa a resistere a quel fuoco che ha fra le gambe. Sono appoggiato sul divanetto nell’angolo della camera, proprio sotto il ritratto della mia regina del sesso, una valchiria in piedi su un carro trainato da gatti.
Arriva lui. Riconosco la sua voce. L’avevo sentita altre volte da dentro l’armadio. Tono basso, vocabolario ristretto: troia, succhiamelo, puttana, quantotipiaceilmiocazzo! E poi sberle, sputi in faccia, frustate con la cinghia dei pantaloni. Lui ha un’ ossessione per il culo di lei. E non disdegna offrire il suo a quegli artigli scarlatti, agili e insidiosi.
Credevo fosse un rozzo camionista, e mi scusi la categoria, ma questo ha la camicia con i gemelli e costose scarpe inglesi, ben quattro telefonini e un blackberry.
Quello che mi sconvolge è che lei gli urla Picchiami! Sfondami! Fammi male! Lei che è così elegantemente bella. E lui si svuota dentro di lei, irrigandola con il suo seme. Potente, vigoroso.
Si accoppiano come due animali, un toro e una giumenta.
Non ci sono segreti fra di loro. Lei gli racconta tutto degli uomini con cui scopa. Lui non si arrabbia, anzi, si eccita ancora di più. Più crudi sono i dettagli, più lui tira fuori la bestia.
Non è un bello spettacolo, per me che la conosco così bene, che la vedo quando è assorta, dolce e malinconica, prosciugata come una lacrima vuota.

Un giorno mi indossa per andare ad uno strano appuntamento con un fotografo conosciuto mesi prima a Milano. Da giorni le invia mail insolite, a lei e alla sua amica Camilla.
“Vorrei rapire in digitale l’odore dei vostri corpi, comprenderne il turbamento.
C’è qualcosa di tenero e feroce in un corpo nudo femminile, che chiama all’amplesso, che urla il piacere, che vuole attenzione e rispetto.
Vi amo per quello che siete, madri, figlie e dolci puttane, amo le vostre movenze, i vostri pallori, il vostro coraggio e le vostre paure.
Voi due. I vostri orgasmi come devozione e culto, come lirismo e poesia, pensiero razionale e costruzione che parte dal cervello e si dipana nell’abbandono dei limiti, nello smarrimento…..”
Mi ritrovo in un ampio salone, sul fondo uno squarcio nella notte senza stelle, un’enorme portafinestra. Fa freddo ma lei si spoglia e mi lascia per terra. Si muove inquieta per la stanza, in mano un calice di vino, gli occhi arpionati a quelli di Camilla. Lui ha un ghigno sinistro e rossetto vermiglio sulle labbra. Lo stesso che si dà lei ora, sui capezzoli e le areole. Indossa solo orecchini rossi, calze a rete e scarpe con tacco alto, rosse. Camilla invece è nera e bianca.
Lui detta le posizioni, poi libera l ‘immaginazione delle due donne e scatta, decine di clik.
- Colorati le labbra, quelle labbra- le dice porgendole il rossetto.
Camilla l’aiuta, con dolce maestria. Disegna, colora, fa scorrere la punta tenera del rossetto sul suo clitoride eretto. Lei sospira.
Lo titilla con la lingua del rossetto. Lei geme. Allarga le gambe. Il pazzo scatta, ancora e ancora.
La faccia di lei è oscenamente femmina mentre guarda l’obiettivo.
Alla fine mi prende e se ne va, lasciando Camilla con il matto. Non abbiamo mai visto quelle foto.

Mi indossa sempre più spesso.
Mani che frugano sotto il mio tessuto, corpi massicci che mi schiacciano contro di lei, contro il muro. Musica, vino, colori che le esplodono in testa come un carnevale chiassoso. Corpi sudati.
Sono esausto.

Si parte, di nuovo. Io e lei. Roma. Non c’è mai un taxi alla Stazione Termini.
Sogno di camminare con lei, voglio sciogliermi in lacrime davanti a san Pietro. Niente di tutto questo.
Quartiere Testaccio, aperitivo. Mi sembra di essere tornato a casa, a New York. Ampie vetrate, mattoni rossi a vista. Sì, è molto Tribeca style.
Ordina un Cocktail Martini e tuffa gli occhi in quella gioventù atletica e tatuata, con la lingua delle iridi lecca i muscoli tonici dei camerieri.
Beve un secondo Cocktail Martini.
- Benvenuta, bebe’ –
Lei si volta, piegando la testa svogliatamente.
E’ moro e intenso, capelli lunghi neri e naso da parigino.
Gli occhi curiosi, prigioni di pensieri prigionieri.
Lei lo squadra con occhi famelici, come un grande animale può guardare un insetto ad un’ora imprecisata della notte, col desiderio affamato di uno schianto.
Si precipitano in un motel, che è kitch in modo grandioso.
Io dentro la valigia.
Non vedo ma sento. La sua malinconia.
Movimenti convulsi, orgasmi senza luce, freddo sottopelle.

Il sole è accecante quando apre la finestra, finalmente sola.
Mi indossa, senza convinzione.
Centro città. Piazza di Spagna.
Le mie bocche battono come cuori per l’emozione..finalmente andiamo a spasso, io e la mia dama!
No.
Si ferma e guarda l’orologio, poi il cellulare. Inquieta.
Vi chiederete: è una bella di giorno? No. E’ una donna innamorata della vita, tenuta troppo a lungo in gabbia, affamata d’emozioni.
E’ seduta su un gradino della scalinata, ad osservare la gente che va e che resta. Svuotata, vorrebbe attingere energia da quell’umanità in fermento, vorrebbe poter leggere in quei volti le emozioni che hanno vissuto. Dio deve osservarci così: innamorato e assente. Già. Se Dio esiste è solo un guardone.
Ora lo sguardo incrocia gli occhi tristi di un cavallo nero. Rassegnato. Al calesse, al suo padrone che vestito da centurione importuna le turiste, al caldo inusuale di quella giornata primaverile.
Lo sente, prima di vederlo, lo sente nell’aria.
E’ in piedi davanti a lei. Imponente, autorevole, come un Dio.
Ha tutta la sua vita stampata sulla faccia, nelle sue rughe. Ogni passione, ogni dolore deve avergli lasciato solchi, scavato smorfie, versato dolcezza. Una dolcezza pervasiva.
Sembra quasi di toccarla, gustarla.
Si alza, traballando sui tacchi altissimi.
Dov’è finita la leonessa? Sento il cuore batterle così forte da creare imbarazzo pure a me che sono un pezzo di stoffa.
Lui la guarda. Lei è meravigliosa d’innocenza: mesi e mesi di parole si tuffano nel suo sorriso.
Senza dirsi niente si baciano, senza esitazione. Con disperazione.
Lei si aggrappa a lui come se il terreno le cedesse sotto i piedi.
Hanno aspettato tanto questo momento, lei lo ha disegnato, colorato e cancellato più volte.
Ora capisco a chi ero destinato, da sempre.
Quasi quasi mi commuovo, io, il suo compagno di giochi..
Le mani di lui entrano fra i seni, forzano lo spacco fra le cosce di lei aperte, e io non faccio niente per fermarlo. Apro i miei petali come un fiore maturo.
Baci affamati, a mordersi la lingua. Parole sussurrate appena, l’aria che
rimane in gola rappresa in poche sillabe ripetute senza sosta.
E’ qualcosa di fisico, viscerale e allo stesso tempo spirituale quello che lei sente per lui.
Taxi di nuovo. Sento lui dare all’autista il nome di un motel, uno diverso.
Lei gli si avvicina con occhi intensi, che si fondono con quelli di lui in un'unica chiazza azzurra: ho ancora il seme di un altro fra le gambe.. mi vuoi ancora?
Dice che l’ha fatto apposta, gli occhi velati. Voleva convincersi di non essere venuta a Roma per Lui.
Sa di averlo ferito. Mille frustate non farebbero così male.
Lei rovina sempre tutto quello per cui vale la pena di vivere. E non riesce a piangere, non più. Non sa neppure se sono vere le emozioni che prova oppure frutto della sua immaginazione rigogliosa.
E io vorrei strangolarla con la mia cintura, vorrei arricciarmi sul suo ventre e stringere fino a farla morire, oppure alzarmi fin sulla testa, cingerla come un burka e poi arrotolarmi intorno al collo finchè non la sento rantolare.

Vorrei, voglio. Sì, lei deve morire.