Il Gioco

di  Furetto

 

 

  Scrivo, mentre fuori piove.
Un rumore incessante,continuo, che mi intristisce. E io ripenso a quel giorno.
Andai a prenderlo alla stazione. Un vento invernale sembrava voler penetrare dentro i nostri vestiti.
Andammo a mangiare qualcosa in un piccolo ristorante verso San Luca. Parlammo.
Forse ero un po' nervosa, non so. Il tempo trascorse e io avevo questo accenno di mal di testa che si affacciò sulla soglia dei miei pensieri, proiettandovi un'ombra scura. Sentii crescere in me un qualcosa di diverso, di sconosciuto. Mentre scendemmo verso la città, il silenzio regnò dentro l'auto che, agile, percorse i tornanti.
Quando la porta di casa mia si richiuse alle nostre spalle, provai come un brivido che mi attraversò il cuore.
Eccitazione, mista a sgomento. Mi disciolsi i capelli. Lo guardai dritto negli occhi. Gli ordinai di spogliasrsi, completamente. Lui eseguì, come se le mie parole comandassero direttamente il suo corpo. Poi lo afferrai per i capelli e gli intimai di sdraiarsi per terra, "posizione ideale per un verme come te", gli dissi, ridendo. Mi sembrò che il suono di quelle risa si disperse nel silenzio della casa, andando a depositarsi negli angoli più nascosti, impaurito.
Gli infilai il tacco a spillo della scarpa sinistra in bocca, in profondità, mentre un ghigno si dipinse sul mio volto, deformandolo, come se qualcosa stesse emergendo dalle profondità del mio "io" e stesse prendendo il sopravvento.
"Guarda che cosa stai facendo, verme, hai il tacco della mia scarpa infilato in bocca... e sei eccitato per questo", gli dissi. Poi, improvvisamente, tolsi il tacco dalla sua bocca e un poderoso calcio si abbattè sul suo corpo. Lui si contorse per il dolore e urlò.
Io, impassibile, lo afferrai di nuovo per i capelli, tirandolo su da terra, e gli ordinai di mettersi contro il muro e di aspettarmi lì. Mi osservai, come da fuori, andare a prendere la mia frusta preferita. Ascoltai il suono dei miei tacchi sul pavimento.
Assaporai l'intenso odore di adrenalina che aleggiava tutto attorno a me. I rumori che provenivano da fuori mi arrivavano come da lontano, filtrati da uno spazio infinito. Lui si era messo con la faccia contro il muro, come gli avevo ordinato. Stava tremando. Aveva paura, adesso.
Quel suo tremito, contiuo, come se fosse generato da una piccola scossa di corrente elettrica, aumentò la mia eccitazione. Feci schioccare la frusta sul pavimento. Osservai il suo corpo contorcersi. Risi di gusto.
"Questa non era per te, verme", gli dissi. Poi, improvvisamente, feci partire i colpi. Li assestai con una violenza tale che le sue parole, imploranti pietà, erano appena percepibili, come un soffio di vento caldo disperso in una tempesta di neve. La mia mano era mossa da una forza antica, originata da chissà dove, sepolta dentro di me, mascherata dai miei modi di fare quotidiani, gentili e remissivi.
Fermai il braccio doloronte per lo sforzo, dopo un periodo di tempo che non ho mai saputo quantificare. Lui adesso stava piangendo, come un vitello al macello. La violenza dei colpi lo aveva fatto scivolare a terra. Era accucciato contro il muro, quasi stesse chiedendo ad esso di proteggerlo dalla mia furia. Mossi due passi verso di lui e gli ordinai di baciarmi i piedi, per ringraziarmi. Lui, senza alzare lo sguardo, singhiozzando, ubbidì. Mi chinai verso la sua bocca e sputai dentro di essa, ripetutamente. Risi.
"Sei una merda", gli dissi, sibilando e concludendo la frase con un sonoro schiaffo. Poi, piano piano, riemersi da oscure profondità e le cose mi apparvero sempre più vicine.
Quando lo riaccompagnai alla stazione, non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi. Lui se ne stava lì, in silenzio, disperso nei suoi pensieri, senza far trasparire la benchè minima emozione. Improvvisamente, accostai l'auto, gli presi una mano, lo guardai dritto negli occhi e gli sussurrai, "è solo un gioco". Avrei voluto aggiungere che ero andata troppo oltre, che ero come in trance, che la parte sadica di me stessa, così repressa nella quotidianità, aveva preso il sopravvento e io non ero riuscita a controllarla come avrei dovuto. Che mi dispiaceva.
"E' solo un gioco", mi limitai a ripetere. Lui incrociò per un istante il mio sguardo.Poi annui.
"Lo so", disse, abbozzando un sorriso. Ma io potevo vedere le lacrime della sua anima ferita che, invisibili, gli solcavano il volto. Quando ci salutammo e lo vidi scivolare via, ritornando ad essere un estraneo in mezzo alla folla, tirai un sospiro di sollievo. Non si voltò indietro. Non mi ha più ricercata, da allora. Né io ho ricercato lui.
Questa mattina, mentre passeggiavo per strada, l'ho incrociato. Ci siamo fermati e siamo rimasti ad oservarci per qualche secondo, immobili come due pali della luce. L'eco di quelle parole, "è solo un gioco", pronunciate un giorno di tanti anni prima, ha cavalcato il tempo ed è arrivato alle mie orecchie. Lui mi ha sorriso, come allora, ma non ha detto nulla. Io ho abbassato gli occhi a terra e in pochi secondi, come se sotto i miei piedi si fosse aperto un varco temporale, ho rivissuto quel giorno.
Quando ho rialzato gli occhi da terra, lui era già scivolato via tra la folla...