La fotografia
di Jihan
Stanno lì, sereni, appagati, sollevati, svuotati, in una spossatezza priva di
ogni traccia di malinconia. Distesi dopo l’amore: incrocio di due diagonali del
tiepido quadrato che ha accolto e sostenuto la loro fusione. Una gamba di lei
ripiegata e strettamente incastrata tra i due corpi: la linea dritta che va
dalla rotula alle dita tangente al fianco di lui, quella interna, sinuosa, che
finisce nel tallone nascosto tra le natiche di lei. La gamba libera è un ponte
gettato a cercare altro contatto: il piede mollemente appoggiato all’interno
della coscia di lui. L’uomo ha lasciato la sua mano lì, fra le sue cosce,
conchiglia di venere, foglia di eva. Ferma, a proteggere, escludere, tenere. Il
medio tra le labbra, puntato sull’apice, a sigillare la ferita, dopo averne
prolungato e raccolto gli ultimi istanti di piacere. E’ un gesto rotondo, pieno
di fermo possesso.
A guardarli da qui, immobili come sono, colpisce la continuità che hanno
involontariamente stabilito: in un’unica linea plastica coscia, piede, caviglia,
gamba, coscia, fica, mano, polso, avambraccio, omero, spalla, delineano un’unica
ancestrale creatura. Hanno spremuto tutta la voglia, sono l’uno dell’altra.
In silenzio, divisi ma uniti, isolati l’uno dall’altra, ma con gli occhi a
cercare gli occhi. I respiri sincronici muovono i toraci all’unisono, mantici da
cui il fiato esce tiepido, a dare ancora calore all’aria fra loro.
La donna sposta lo sguardo, volta la testa verso la finestra aperta, nel cui
squarcio luminoso la brezza pomeridiana gonfia la tenda bianca, pesante, a
celare gli sguardi intrusi. Muove piano il piede, sigillo impresso sulla pelle
di lui. Fa scorrere la pianta lentamente sulla coscia, dove la pelle più tenera
è difesa da una fascia muscolare tesa, nonostante l’abbandono. E’ quasi un
riflesso condizionato il suo, il ripetersi del ripetersi di un richiamo lontano.
Poi torna con lo sguardo ai suoi occhi. E la vede. Una piccola scintilla
accendersi e dilatare le pupille così nere da evocare pozzi abissali, sul cui
fondo sgorga acqua pura, trasparente, fredda da velare il bicchiere. Si tuffa in
quei pozzi e.il piede sale.
La pelle della pianta è morbida, sensibile, priva di ogni ruvida memoria di
primordiale difesa dal suolo, ma nel contatto rilascia, lei che così spesso è
scalza, frammenti d’erba, di sabbia, di legno, di pietra resa lucida da
innumerevoli calpestii.
Il piede scorre fino a sentire i primi peli, rabbrividisce e si ferma saldo al
limite del sesso ancora addormentato. Il taglio esterno forza l’attaccatura,
s’infila nella piega e si ferma, come se quella pianta avesse trovato il posto
giusto per radicarsi profondamente nel ventre dell’uomo.
Lei muove un poco le dita a solleticare un risveglio tenue. Non forza, non urla,
parla sommesso. Il cazzo tenero, morbido, languidamente abbandonato sulle dita
di lei, si lascia chiamare piano, ad occhi chiusi. Beato. Forse è già sveglio,
indeciso tra la semincoscienza del risveglio e quel richiamo. L’uomo va verso
quella voce di tendini e di ossicini fragili con un debole sollevarsi del
bacino. Lei ruota il femore nell’anca e accosta il suo ginocchio al ginocchio di
lui.
Il piede è ora appoggiato sul dorso. L’arco plantare accoglie nel suo incavo la
morbida consistenza del suo cazzo, si modella concavo come culla, le dita
abbracciano la punta. C’è tutto l’uomo adagiato in quella culla, la sua
sorpresa, la tensione della nuca che sostiene la bella testa sollevata, adesso.
Tensione che come trefolo si trasmette al ventre di lui, le mani ancorate sul
lenzuolo, lo sguardo interrogativo e implorante.
La donna solleva l’altra gamba, la libera dall’incastro tra i corpi, la porta
leggera verso la sua gemella. E racchiude il cazzo tra i suoi piedi.
Resta ferma, a restituire calore e protezione, premendo leggermente senza
stringere. Sente sotto le piante il velluto tendersi, piano, pulsare. Una
leggera vertigine la prende.
Fa scorrere il piede che sta sopra, fino a trovare nella concavità dell’arco
delle dita la convessità tiepida di lui. Tamburella con le dita la vena, accorda
il battito. Suona con alluce, melluce, trillice, pondolo e minolo una sinfonia
di carne.
Poi comprime tra i due archi plantari, chiude e la pelle, finché l’uomo è teso.
L’eccitazione di lui corre nelle sue gambe, che si fanno cavo elettrico e
portano corrente alla sua fica. Che alimenta altra energia con acqua di fonte.
Tra l’uomo e la donna un arco elettrico si trasmette da lei, lungo le sue gambe
e i suoi piedi, arriva a lui e torna a lei.
Lei si alza a sedere sul letto, appoggia le mani dietro di sé, reclina indietro
la testa e si sposta sulle braccia tra le sue gambe. L’uomo si fa specchio,
sollevandosi sulle braccia, le gambe ad abbracciarle i fianchi. A guardare.
Davanti al suo sguardo, il suo cazzo rigido spunta tra due dolci, forti piedi
femminili. Oltre, le cosce di lei divaricate e, fra loro, la fica spalancata,
polposa e umida. E’ una visione impossibile da sostenere senza che lui senta
catalizzare le sue dita.
- Non farlo –. Ma più che la voce è il suo sguardo fermare la mano carica, che
torna malvolentieri indietro a sostenere il proprio peso. Allora la donna stende
una gamba, poi l’altra, verso il suo volto, appoggia le dita del piede sulle
labbra e dice:
- Dammi saliva, bagnami –
Lui parte dal tallone con la lingua piatta, bagna di saliva tutta la pianta, la
insinua tra le dita, lascia la propria traccia umida su quei piedi. Che
ritornano intorno al suo cazzo, lo spostano di lato, se ne contendono il
possesso, lo sfiorano impercettibilmente e poi tornano a premere, massaggiando.
Lo racchiudono in verticale, con le dita sulla punta e poi serrano in
orizzontale, facendo scorrere la pelle verso il basso. La pelle sensibile
dell’uomo percepisce ogni linea, ogni piega, ogni spessore della pelle di lei.
Ad occhi chiusi, la carezza di due piedi felici, agili, flessibili contiene
altro spessore, diversa forza e consistenza, tra desiderio e impaccio. E’ questa
imperfezione che porta l’uomo al climax: la tenerezza e la durezza di un gesto
inaspettato. Finché l’arco elettrico si tende fino alla sua massima estensione e
il suo piacere prorompe sui piedi di lei.
E’ così che li hai trovati. La punta rossa come polpa di fico d’india ferma tra
due piedi di donna ricoperti di sperma. Fermàti dentro l’iride del diaframma
ottico, in un cinquecentesimo di secondo.
(dedicato all’Uomo che gioca)