Stavolta
di Jihan
Sei qui. Stavolta nelle mie mani.
In questa piccola baia deserta, nel silenzio del pomeriggio inoltrato. La luce
dorata di settembre cade da ovest e si posa sulla sabbia bianca, sui graniti che
virano lentamente dal rosa al viola, sugli asfodeli delicati. La superficie di
lucida lacca blu è piatta e indovini solo da una stanca risacca che si frange
svogliatamente, che quello è il mare.
Un mare che conosco: vi precipito ad occhi chiusi senza nemmeno aprire l’acqua
con le braccia.
La tua presenza è come questa risacca, che ogni volta che porta un’onda sulla
riva, fa filtrare al di sotto di essa una lama d’acqua in senso contrario. I
tuoi andirivieni, le tue fughe, i tuoi ritorni, fuori e dentro di me.
Disteso a pelo d’acqua il tuo corpo è teso, ogni muscolo pronto a scattare. La
tua supremazia fisica, il tuo peso, che tanto amo sentirmi addosso, si
affievoliscono, si spengono pian piano. Leggero, grazie alla spinta dell’acqua.
Leggero, sopra le mie mani: l’una aperta sotto le reni e l’altra a coppa sotto
la nuca. La luce t’investe radente, la tua pelle chiara si adombra. L’ombra che
tengo tra le braccia. L’acqua ti lambisce disegnando il contorno del tuo corpo
emerso, che ogni volta cambia, ad ogni onda perde qualcosa e poi la riconquista.
L’acqua, che sotto la luce si fa specchio, progredisce e il tuo corpo si
rimpicciolisce, poi, centimetri di pelle ne emergono e il tuo corpo si espande,
si mostra interamente. Ma non perdi mai consistenza.
Non sei affatto sereno. Gli occhi dietro le palpebre chiuse si muovono. Le
labbra strette, gli addominali contratti, le cosce troppo tese. Ti addentri
nella paura.
Imparare a nuotare alla tua età. Avere fiducia in una legge fisica che stavolta
devi sperimentare su te stesso. Affidarti. Tu che la fiducia sei abituato a
riceverla. A volte a prenderla con la forza. A nulla valgono le pesanti navi
d’acciaio che solcano l’orizzonte. A nulla vale la voce di tuo padre: Un corpo
immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del
volume del liquido che sposta
-“Perché il tuo anello affonda, allora?” mi hai chiesto verso mezzogiorno,
lasciando cadere nell’acqua il pesante intreccio d’argento che porto
all’anulare. Me l’hai chiesto con curiosità di bambino, con un lieve stridere
della sfida nella voce. Sorridendo poi, sul mio sorriso. Ho guardato l’anello
posarsi sul fondo attraverso la cristallina limpidezza dell’acqua e un piccolo
paguro spostarsi velocemente col suo andamento obliquo.
Il galleggiamento è abbandono. Abbandono e movimento, come il mio orgasmo e lo
conosco bene. Ma il tuo orgasmo è forza, controllo, potenza, spinta. La potenza
che ogni volta ti cedo interamente perché tu possa risalire il mio corpo fino in
cima. La costanza a ritenerlo fa sì che, quando ti vince, è per esplosione degli
ormeggi che cedi, è per la forza della marea che sale, sale e non trova alcuno
scoglio in te, solo alto mare.
Spostando le braccia ti lascio scivolare lentamente. Piccole onde fileggiano
intorno al tuo corpo che libero dal peso si sposta facilmente sotto la mia
spinta. Sono io che spingo, stavolta. Siamo pendolo, io centro di rotazione e tu
punto, legato a me da filo inestensibile che oscilla per attrazione
gravitazionale. La tua pelle chiara diventa opalescente sotto la luce del
tramonto e sfiora la mia, scura, lucida d’olio, luminosa. E’ contaminazione.
Cellule epidermiche che regalano il loro nucleo alle tue. Lentamente le tue
gambe riemergono, finalmente rilassate, cedono alla spinta verticale che le
sostiene in superficie, morbide, appena flesse. La mia voce si fa cantilena e ti
suggerisce:
-lasciati andare, lasciati andare, lasciati andare…. Ripeto a memoria di tutte
le volte che me l’hai insegnato, chiesto, imposto, strappato. Mi arriva infine
il tuo abbandono, che vorrei accarezzare. Lo accolgo con l’emozione e la paura
di ricevere qualcosa di inaspettato e troppo a lungo desiderato. Le tempie
smettono di pulsare, le ciglia nerissime a celare le tue profondità oltremare si
allungano, le labbra tenere, le braccia morbide, il torace si espande e il
diaframma regola la decontrazione degli addominali Quel filo di pancia che trovo
così sensuale, leggermente prominente si fa piccolo dorso di balena. L’ombelico,
soffione di vita, è un piccolo laghetto vulcanico. Ma il centro del vulcano, la
sua remota origine, è poco più in là, ancora sommerso. Quando sposto le mani ad
affiancarle al centro della schiena un lungo brivido t’increspa la pelle. Perdi
l’appoggio della nuca e delle reni ma l’istintiva rigidezza che il tuo corpo
reclama si lascia sopraffare dal piacere dell’abbandono. Ti conosco, adesso sai
com’è e non ci vuoi rinunciare. Smetto di importi il movimento a pelo d’acqua,
le mie braccia a fare gabbia al tuo gomito, mi fermo, lasciandoti assaporare
l’assenza di peso. Scopro il tuo affidarti. Lo ricevo in dono. Lo circondo di
premure, di attenzioni, di rassicurazioni. Lo amo.
Ma all’improvviso la tua mano affonda, vira decisa, s’infila tra le mie cosce,
supera il costume e rapida, risoluta, sicura, trova il suo guanto. Nemmeno
adesso rinunci al tuo dominio. Nemmeno mentre impari l’abbandono. Due dita
risalgono la corrente per abbuffarsi di voglia ininterrotta, intingendosi di
fluidi più densi dell’acqua di mare. Li distingui con la solita calma,
dall’acqua li separi, apri i petali carnosi e ti tuffi nella grotta ora sommersa
che sempre ti accoglie con gioia. Sfiori stalattiti e stalagmiti di carne
all’ingresso, superi concrezioni fragili e millenarie, inciampando in banchi di
corallo rosa e di ondeggiante poseidonia, scivoli fino in cima e apri le dita a
V. La tua solita vittoria. E’ un’invasione pacifica, una gioiosa presa di
possesso di ciò che è già tuo, ma che ogni volta si apre al tuo passaggio con
rinnovata cedevolezza.
-“Cosa ti eccita? Il fatto che mi hai in pugno?” mi chiedi, gli occhi chiusi, il
sorriso beffardo.
-“No. Il fatto che nonostante ti abbia in pugno, mi possiedi”
Il pollice s’insinua fino all’apice, si apre il varco, scosta, preme, rilascia,
sfiora. Una cascata di scintille di piacere si stende sopra la sensazione
nullificante che mi dà la prepotenza con la quale t’imponi.
Per un momento, tutto il mio essere si riduce a quell’insignificante bottone di
carne, si esaurisce in esso, si concentra e si offre, colmo di desiderio.
Ma è solo un momento.
Mi sfilo dalle tue carezze e con andatura di paguro sottraggo il sostegno alla
tua schiena. Percorro con le mani l’albero maestro infilato vertebra su
vertebra, in una lunga carezza che dia sollievo alla tua improvvisa tensione e,
spostandomi dietro la tua testa, restituisco appoggio ai tuoi trapezi.
Impossibile non baciarti ora, leccarti piano le labbra, sospinta dallo stesso
magnetismo che ci ha fatti incontrare. Il tuo bacino emerge, la punta del sesso
orgoglioso che spinge la stoffa, baricentro del tuo equilibrio sulla massa
liquida che ti culla dolcemente.
E infine, la resa. Il tuo corpo è fluido come il fluido in cui è immerso. Non
c’è più nemmeno scambio termico, tu e l’acqua siete fatti della stessa materia.
Sei sospinto dal tuo stesso peso, sei acqua nell’acqua, molecola di ossigeno
dentro molecola di ossigeno, idrogeno dentro idrogeno.
-“Non sorprenderti, adesso” e lascio solo la punta delle dita alla radice dei
capelli.
Conforto ancora per un attimo il tuo lieve trasalire e ti lascio nelle mani del
mare.
Ti affidi. Sei suo.
Mentre nuoto velocemente verso il largo, allontanandomi dal tuo corpo inerme, mi
chiedo se quello che provi in questo momento è paragonabile a quello che provo
io, quando perdo massa e consistenza, liquefacendomi nelle tue mani.
Quando torno sei disteso sulla sabbia asciutta, la fronte appoggiata al braccio
ripiegato, gli occhi aperti in quella piccola cuccia d’ombra. Mi stendo su di te
e ti attacco il corpo al corpo che trovo tiepido come di carezze. Sei stato del
mare e ora ti rivoglio. Le tue valli accolgono i miei promontori, convessità
dentro concavità, freschezza umida ad asciugare dentro calore. Lascio una
piccola scia di baci lungo la linea che va dalla tempia all’angolo delle labbra
e vengo sopraffatta, come volevo. Con un colpo di reni sollevi un fianco e mi
costringi a cadere di schiena. Le mani a fermarmi i polsi già esausti:
-“vuoi essere scopata?” mi sfidi, mentre le mie palpebre si chiudono
nell’assenso.
Ed è subito furia. Le labbra a cercare le punte brune acuminate dei miei seni
rivolti verso il cielo, le braccia nell’incavo delle ginocchia ad allargarmi le
cosce, mi schiacci sulla sabbia solo per ribadire a te stesso che mi sei sopra.
Ma non c’è bisogno di forzare, sono aperta, esposta, arrendevole. M’inarco a
cercarti, mentre mi trovi. E solo quando sento che occupi tutto lo spazio vuoto,
quando sento il calco riempire la sua forma, il languore insopportabile con cui
vivo si placa. La lacuna che c’è dentro di me trova la tua spinta centripeta a
riempirla. Resti fermo, duro, invadente, appena sei in fondo.
-“Sei bollente” mi soffi sul collo.
Vinco lo stordimento che sempre mi dai quando mi riempi e mi sollevo piano a
cercare le tue spinte. Cominci piano, gustandoti l’affondo. Apro gli occhi e
trovo il fondo dei tuoi e una luce diversa mi scruta, illumina la via al
cambiamento impercettibile, alla trasformazione.
E poi insegui il mio piacere. Lo bracchi, lo accerchi, lo sospingi in
superficie. Forte, irrefrenabile, cospicuo. Lo cerchi perché solo sa darti la
misura della tua completa supremazia. Lo succhi da un capezzolo che si allunga
nella tua bocca infantile, che va in pezzi tra i tuoi denti di predatore. Lo
succhi dalle pareti morbide che ti stringono quando ti allontani, a non
lasciarti andare, e ti spianano la strada quando ritorni.
-“Chiudi gli occhi, tesoro” e quando cala il buio, la forza mi attraversa, mi
spinge, mi allarga, mi tiene. Comincia l’invasione, la cattura, il possesso.
-“Vieni da me”
Stavolta lo sai. Lo so che lo sai, quanto costa l’abbandono. E cedo. Il
formicolio che mi corre sottopelle si frantuma in mille rivoli di piacere, mi
tende le gambe come un argano impazzito, risale dalle viscere, percorre la
schiena e trabocca nello spazio dietro gli occhi. Allora comincio a chiamarti,
con contrazioni convulse, imploranti, finché il tuo seme caldo rompe gli argini
e tracima dentro di me.
Venere si accende per prima, abbassando la sera sopra l’orizzonte. Stavolta il
giorno non ha paura di perdere il suo chiarore.