Una fine
di Jihan
Seduti di fianco in un’automobile ferma nell’aria gelata della sera ci eravamo
trattenuti a parlare.
-"Sorvegliava il mio sonno. Aveva mani piccole e instancabili e l'uncinetto
girava veloce attorno al filo di cotone giallo. Nel frattempo, dipanava ricordi.
Posso sentire ancora il suo odore di amido, avvertito nelle sere in cui
m'infilavo nel suo letto, quando fuori il temporale tormentava i rami, e sentire
i corti peli delle sue gambe che pungevano le mie. Aveva occhi immensi, verdi,
attenti. Era sempre brusca. Mi sbatteva il piatto davanti, sulla tavola, e mai
che si versasse una sola goccia di minestra, in quel gesto. La pelle mi si
sdruciva tale era la forza con cui mi strofinava la schiena con il telo di
spugna, dopo il bagno. Me la ricordo bella, di una bellezza semplice e
inconsapevole. I suoi silenzi erano interminabili, abissali, ma mai cupi. Li
rompevo con domande ossessive, questuanti, cantilene di perché che potevano
durare anche tutto un pomeriggio. Non tentò mai di sostituire mia madre e la
complicità che c'era fra di loro mi rendeva furiosa di gelosia verso entrambe,
ma la sua assenza è stata così grande che c'è riuscita senza volerlo. Il suo
braccio affondava nell’impasto fino al gomito, quando preparava la brioche in
una grande scodella che io reggevo con tutte e due le mani, seduta in cima ad un
altissimo e traballante sgabello di legno. L’energia che ci metteva non si
riduceva d’intensità fino alla fine e, alla fine, i lineamenti le si
trasfiguravano per lo sforzo. Se tiro su dal naso posso risentire il profumo
della brioche appena sfornata. E quello dei suoi ranuncoli che crescevano in
vasi di fortuna - un vecchio secchio smaltato, una casseruola bucata, un cesto
di vimini slabbrato - sul terrazzo esposto a mezzogiorno. C'era poca differenza
d'età fra noi, appena tredici anni, ma nessuno mi ha mai mostrato così
efficacemente cosa vuol dire essere adulti. Aveva un senso della cura degli
altri che non diveniva mai soccorso e non che si sovrapponeva mai. Distribuiva
sorrisi e disponibilità con una leggerezza tiepida e rassicurante. Tutti
contavano su di lei. Quando veniva il giorno della partenza, all'inizio delle
sue ferie d'estate, metteva un muso impenetrabile e partiva sempre senza
salutare nessuno, per tornare dopo appena due giorni, trafelata e felice: Non ci
posso stare al paese! C’è troppo da fare qui… La casa riassorbiva il suo ritorno
con proteste sincere e sollievi di disabitudine all’assenza. E valanghe di panni
da stirare. Sillabava precisa, ricucendo una federa, le parole che avrei dovuto
imparare e che io ripetevo, trascrivendo lentamente sul quaderno a righe strette
della terza elementare. La prima volta in cui scoprì che mi accarezzavo,
silenziosa e senza fiato, stesa sul letto con le lenzuola candide, la mano
stretta tra le gambe, in un pomeriggio afoso di agosto, richiuse la porta senza
spostare un filo d'aria e non mi parlò per due settimane. Ricordo il soffio di
fiato premuroso che accompagnava lo spruzzo dell’alcool sulle mie ginocchia
regolarmente sbucciate. Quando se ne andò, per sposarsi con un uomo dolce, che
era nato nello stesso giorno in cui era venuta al mondo lei, si portò via i
ranuncoli e anche, adesso lo so, la mia possibilità di essere piccola. Tutto
quello che so di me, tutto quello che sono diventata, comincia da lei, dal suo
sorriso."
Nina calibrava le parole lasciandole cadere una sull'altra, generando un
rincorrersi delle immagini che rievocava privo di sovrapposizioni. In quest'ordine
non voluto - ne ero certo -, in questa compostezza s'inserivano a tratti i
frammenti del suo sentimento. Non c'era asprezza nella sua voce, non c'era
alcuna rigidità nel comportamento: il gesto di una mano, quasi a voler accennare
una carezza, la malinconia del suo sguardo mobilissimo, il serrarsi della
mandibola contro la mascella. Non tentava di farmi sentire in colpa, non
recriminava, nemmeno il dolore che esprimeva era contro di me. Solo una
stanchezza appena percepibile emerse quando disse:
-"Di un tessuto dai bei colori, mi rimane un groviglio di fili spezzati".
Ma io ero contro di lei.
-“ Non sussurrare, alza la voce. Non siamo vicini, siamo distanti. Fatti
sentire!” le avevo detto con un’insofferenza fuori misura.
-“L’insofferenza che mostri è segno di paura. Di che hai paura?”
-“Mai avuto paura di niente.” Il suo sopracciglio destro, accento circonflesso
sulla mia spacconeria, si distese subito tirato da un sorriso intenerito. Capiva
e non chiedeva sconti. Se la voleva bere tutta, l’amarezza della nostra
lontananza. Abbassò il vetro per fumare e l’aria gelida ci fece rabbrividire.
L’avevo conosciuta sul principio dell’estate dell’anno precedente sul vecchio
molo dove ormeggiavano pochi privilegiati. Non l’avevo vista arrivare, piegato
com’ero sulle ginocchia, con il busto inclinato e la testa infilata in quella
maledetta sentina che non ne voleva sapere di funzionare. Imprecavo e
bestemmiavo con una chiave inglese in una mano e l’altra a sostenere il peso del
corpo in bilico. Era un giorno luminoso di maestrale lungo e teso che faceva
gemere gli alberi disarmati e cigolare le sartie. Un moschettone lasciato libero
dal mio vicino sbatteva a intervalli regolari contro l’albero d’alluminio con un
tintinnio acuminato. Le cime degli ormeggi si tendevano con un suono stridente,
costringendo le barche a riabbassare la prua come redini che frenano cavalli
impazienti di partire. In quella moltitudine di suoni noti, frequenti, a cui ero
talmente abituato da percepirli come un silenzio, in quel silenzio, la sua voce
fu così inaspettata che guardai a prua ben sapendo di essere solo a bordo.
-“Mi hanno detto che cerchi un aiuto per quest’estate. Io cerco un imbarco.” Era
una voce rosa. Era seduta sulla bitta di destra, le gambe accavallate, le
braccia nude. Spezzava con le mani un tozzo di pane indurito e lo gettava ai
pesci.
Li vedi da come salgono a bordo. Il modo in cui staccano i piedi dalla
terraferma ti fa intuire stomaci, equilibri, agilità, riflessi, paure, saldezza
di nervi e abilità. Ma anche se era probabilmente perfetta come marinaio, io la
scelsi semplicemente per il suo culo. Un mappamondo. Così pieno e sferico e
fermo, così da femmina, era una parte compiuta di un tutto imperfetto e
gradevole, evidente più di tutto il resto, ma dal resto inscindibile e del resto
connotante. Naturalmente il fascino ce l’aveva lei, era lei che comandava, lei
che lo muoveva e come il culo muoveva l’aria e i pensieri.
Era stato facile con Nina. Facile parlare, capirsi, toccarsi. Quella notte
entrai dentro di lei come un coltello nel burro. E per tutte le notti successive
la inseguii, la braccai, le tolsi l’aria, scandagliai il suo fondale finché
diventò cedevole al punto da guardare negli occhi la sua resa incondizionata.
Non era la poveretta abbandonata sul più bello. Non era stata ferita, offesa,
vilipesa, maltrattata. Non era una femmina rampante. Non cercava rivincite, né
risarcimenti. -“Semplicemente nessuno mi ha mai veramente voluta. Ho
dimestichezza con i tramonti, con la fine delle cose: sono tirrenica, il giorno
mi finisce davanti ogni giorno” mi disse, distogliendo lo sguardo
dall’orizzonte, in un imbrunire infuocato di quel settembre che chiudeva la
nostra prima estate.
M’innamorai senza saperlo, senza capire, quasi senza sentirlo. Fu come essere
governati dal fulmine e, contemporaneamente, essere lentamente sospinti da una
corrente calma e inarrestabile. Non so cosa mi abbracciò, del resto non lo si sa
mai precisamente. So che non opposi alcuna resistenza.
Fino ad allora. Fino a quel momento, in quell’automobile scassata, in quella
serata senza domani, in quest’inverno gelido, in questa ferita senza punti di
sutura. Ero furibondo con lei. Mi arrivò un soffio del suo profumo. Usava un
profumo fresco, amaro, di cedro, di basilico, di magnolia, uno di quelli che per
sentirlo devi avvicinarti, ma avvicinarti molto. Ma io lo avvertivo sempre,
anche da lontano. Eravamo come cani io e Nina, ugualmente olfattivi, segugi di
improvvise tracce odorose, a volte talmente condizionati che bastava un odore
sbagliato per farci cambiare rotta. Allungai una mano per toccarla, ma prima di
poter concludere il gesto il suo braccio si alzò a fermare la mia mano.
-“Non mi toccare”
“Io ti voglio. Ti ho sempre voluta. E tu t’inganni e mi inganni. Non è volerti
il punto. Ma averti.” Avevo nel naso l’odore di lievito del suo sesso, vedevo le
sue cosce tese, sentivo il suo culo riempirmi le mani e avevo nostalgia del suo
abbandono. Mi metto nelle tue mani. Mi aveva passato tutto, non l’aveva chiesto
indietro mai.
-“A volte ti confronto con quelli che incontro, Giovanni e l’impressione è che
non ti valgono. So che sarà sempre così. Spero che la primavera non arrivi
quest’anno. Lascerò la coperta sul letto, ignorerò i fiori sul terrazzo, il
profumo del caprifoglio, me ne fregherò che le lucertole si abboffino delle mie
fragole.”
-“Perché ci stiamo separando Nina?”
“Non lo so. Non so nemmeno se ci stiamo veramente separando. Ma sai anche tu che
è impossibile continuare. Quante volte l’abbiamo detto oramai? Probabilmente è
un legame che nemmeno si può spezzare. Ma io mi devo allontanare. Vederti
salpare e restare a terra. E non sentirti responsabile: non è perché mi hai
tradita. Me ne frego del tradimento e tu sei più importante del mio senso del
possesso”
-“Tu sei ciò che mi spetta e a me spetta starti di fianco. Io voglio invecchiare
con questa certezza”
-“Non chiedermi conto Giovanni. I conti non li chiuderemo mai. Non so darti
nessuna certezza”
-“Tu non ami andature di granlasco. Non hai mai avuto il vento in poppa, come
me. Vai solo di bolina, risali il vento. E’ il modo di procedere più faticoso,
più lento, il meno conveniente”
-“Ma è anche il più divertente” e negli occhi le passò un’allegria indomabile
-“Tu vuoi solo complicarti le cose, Nina”
-“Anche tu vivi sbandato. Abbiamo passato questo nostro tempo a combinare la
rotta con la deriva. E abbiamo percorso tanto mare. Ma la metafora marinara non
regge più. Dobbiamo imparare a stare sulla terraferma. E’ qui che dobbiamo
avanzare. E tenerci il mal di terra. Ti gira la testa, con il mal di terra. Ma
dobbiamo sporcarci, infilare le dita nel terreno, ritornare polverosi fino a che
il mare non potrà lavarci più. Quando ci ritroveremo sullo stesso sentiero di
terra, di erba e di fango non ci saranno più bivii ”
Sapevamo tacere e in quei lunghissimi istanti la nostra intimità si addensò e
s’infittì. Si mosse verso di me e il cappotto le si aprì sulle cosce scoprendo
il suo ginocchio rotondo e magro totalmente coperto da una calza nera doppia e
opaca. Era sensuale e mi seduceva con tutte le aperture che lasciava. Si sporse
per salutarmi e io le afferrai i polsi, ma non si oppose. Si lasciò stringere
subito dopo, a lungo, con intensità, nascondendo la faccia nella mia spalla.
Sentivo il suo fiato infilarsi nell’incavo della mia clavicola, tiepido. Diceva
il mio nome, con quel respiro. La baciai ed era sempre lo stesso bacio.
Profondo, avvolgente, rotondo, lento, lentissimo. Ma tremava e credo di non aver
mai sentito tanto amore per qualcuno come in quel bacio. Si staccò a viva forza
dalle mie labbra e disse, sorridendo,
-“Riguardati”.
Un attimo dopo la sua figura elegante camminava spedita nella strada. Infilò il
vicolo senza voltarsi.
Impiegai non so quanto tempo per rendermi conto dov’ero. Piansi a lungo, senza
difese, senza nascondermi, ammesso che ci fosse qualcuno da cui nascondermi, in
quel deserto ghiacciato. Doveva essere notte fonda quando riaccesi il motore per
tornare a casa. Lei non aveva mai voluto che uno di noi due rinunciasse alla
propria casa. Arrivai e parcheggiai senza cura. Scesi e chiusi lo sportello.
L’aria fredda m’investì come un treno. Entrai nel portone e cominciai a salire
le scale.
Dopo, solo le scale.