Primula

di  JillK

 



Ricordo bene cosa pensi della vita e della morte, Adele, perché fu di fronte alla fugacità della prima in luogo dell’avvento della seconda che ti vidi, la prima volta, con gli occhi che tu hai conosciuto.
Fu uno spettacolo orrendo e sublime, ancor ora lo racconto perché lo stupefacente tempismo con cui la fine si prese il suo spazio fra noi ha lasciato sotto alla mia lingua il sentore acre della premeditazione; nonostante sia passato tanto tempo ci penso ancora, sì, e l’evento si è fatto esempio, nel mio immaginario, di quanto il caso qualvolta scelga per noi.
Breve è l’istante in cui la scintilla vitale si può estinguere, la stessa scintilla a cui noi ci aggrappiamo stretti, le braccia graffiate sugli scogli, per sfuggire alla corrente avversa e all’immobile silenzio del nulla: breve, sì, ed è orrendo prenderne coscienza. Tutto il resto sfuma.
Eva era seduta al mio fianco. E di fronte a me tu, con i tuoi occhi castani e le tue sopracciglia dritte da nobile allontanata dal suo feudo, davi scarsa attenzione al compagno che ci avevi presentato. Un’altra persona era al tavolo, per un totale di cinque, ma non la ricordo affatto. Più volte ho scambiato questa quinta persona con chi mi faceva più comodo immaginarmi lì, e tutte quelle volte ho sbagliato. Ad ora non saprei dire se fosse uomo o donna.
Anche il tuo amico nella mia memoria ama mutar d’aspetto: una volta ha lunghi capelli lisci che gli sfiorano il mento, la successiva li porta più corti; in un ricordo indossa una maglia gialla e in un altro una semplice T-shirt blu. Quel che so è che era giovane: il suo volto non era ancora completamente modellato, i suoi tratti morbidi non mi ispiravano che adolescenza. Intrappolato in quella sorta di via di mezzo che stava vivendo, ecco che non ha detto né fatto nulla che lo distinguesse dalla massa grigia dei passanti sconosciuti, quel giorno, e se dovessi trovarmelo accanto alla fermata degli autobus – anche se fosse seduto al mio fianco, anche se i nostri gomiti si sfiorassero per volere del fato – ecco che non lo riconoscerei.
Ma ricordo bene te, Adele, e la nostra comune amica Eva dallo sguardo allargato, timoroso di qualsiasi mutamento. Avevi diciannove anni, lei appena diciotto.
Io ventidue, ed allora parevano molti…
Indossavi un abito dritto di lino: scendeva limpidamente fino alle tue caviglie nude, appiattendoti le forme, esaltando e stracciando quell’aura di nobiltà che ti aleggiava attorno. Di Eva rammento che portava ai piedi delle zeppe di plastica beige, dalla tomaia spessa, strabordante ai lati. Le aveva comprate con me ad un mercatino, pagandole il prezzo di due cocktail.
Le sue dita, poggiate sul plantare già scurito dall’usura, erano sporche; le unghie tinte di viola perlaceo emergevano dall’insieme come bijou da bambina nel mezzo della fanghiglia.
Faceva caldo, quel giorno.
I piccioni si rincorrevano sull’asfalto caldo in stormi, stanchi di volare ed affamati di briciole. In certi punti si creava un vero tappeto di piume, da quanti ne ingombravano la strada pedonale.
Mi sudavano le tempie anche dove la rasatura mi avrebbe dovuta rinfrescare. Il cielo era di un intenso turchese e la luce ingialliva le vetrine, e le sedie e i tavoli e le tre strade che riuscivamo a vedere dall’incrocio in cui il nostro tavolo – il più periferico dell’esterno del locale – era stato sistemato: il mio bicchiere si illuminava a tratti di sfuggevoli bagliori ocra, che rincorrevano la pista circolare macchiata di rossetto scuro. E così il tuo, che macchiato non era.
Pensai che mi pareva di essere personaggio di una vecchia fotografia ingiallita, e sorrisi.
Tu, senza un perché, rispondesti a quel sorriso.
Dovevo apparire assai dura, alla vista, con i miei fianchi stretti fasciati nei jeans scuri, l'altezza esaltata dalle zeppe nere, i capelli tinti del più scuro violino e quello sguardo laterale che non sapevo abbandonare neppure nella quiete: la cresta che mi accarezzava il viso non era differente da quella di certi personaggi ambigui dei cartoon e tu la guardavi sottecchi, temendo di esser scoperta. Forse ti sei appoggiata ai miei zigomi anche allora, mentre non guardavo. Forse hai cercato di immaginare come sarebbero stati al tatto, sotto alle tue dita bianche... forse li hai baciati con i polpastrelli, le unghie corte chiarissime... Me lo chiedo solo perché io ti guardai a mia volta, e ti desiderai, mentre eri distratta.
Eri una sfida, l’esatto contrario di me.
Ed eri algida, con quel viso da militante di sinistra ignorante e convinto che avevo veduto solamente al liceo, nemmeno sapevo più quanto tempo prima.
Mi raccontavo di quanto avrei voluto portarti al limite per poi fuggire, quando sentii Eva strepitare.
Un fitto banco di piccioni, grigi e allarmati come grossi pesci, si erano accalcati sotto al nostro tavolo. I becchi avidi ricercavano a terra frammenti di pane e patatine.
Non ho mai detestato i piccioni, ma allora erano veramente troppi: ci sfioravano gli orli dei vestiti e si agitavano sbattendo le ali frastagliate. Mi mostrai impassibile ai tuoi occhi, Adele, ma se tu non fossi stata presente mi sarei voltata, allontanando le gambe da quell’orgia cinerea di corpi ossuti...
Eppure c’eri, così restai ferma. Chiusi gli occhi, pure, quando la resistenza dei miei polpacci ne incontrava l’incedere reso cieco dalla fame.
Ma Eva no.
Eva indossava quei suoi sandali dalla spessa tomaia di plastica, che sporgeva ai lati, ed aveva il collo dei piedi nudo. Quando un paio di volatili la calpestarono per passar oltre lei e la sua presenza schizofrenica, imbrigliata dai farmaci, lei si agitò.
Ritrasse le gambe quando la sua pelle tesa e sporca incontrò le piante ruvide delle zampe uncinate degli animali.
Ritrasse le gambe, sì, e le ridistese in un moto di stizza.
Non compresi subito quel che era accaduto: Eva urlò, gli altri astanti si voltarono osservandoci come fossimo alieni alla Terra.
Eva urlò.
Il piccione roteava come statuetta di carillon: girava su sé stesso, come una ballerina sulle punte, gli occhi neri fissi e le ali ripiegate sul corpo.
Ho in mente solo il suo vorticare folle: non so se sia durato un istante o minuti interi, so solo che dapprincipio non capii cosa gli fosse preso. Uno schizzo orizzontale di sangue colpì la tua veste, Adele, ma nonostante questo restasti immobile, gli occhi sgranati su quella danza folle.
Poi l’animale cadde da un lato, inerte.
E la danza ci sembrò un miraggio, qualcosa di impossibile e remoto.
Muovendo un piede in avanti Eva l’aveva colpito e gli aveva spezzato di netto l’osso del collo, uccidendolo sul momento: il ballare del corpo morto non era stata che una reazione, causa di impulsi elettrici.
Della sua esistenza non restava ormai che il cadavere, che in silenzio giaceva sotto al tavolo, appesantendo quel luogo di un vuoto senza fiato, e una riga di gocce vermiglie su una gonna color crema.
Ti guardai, Adele, e tu mi guardasti.
Nella sfacciata luce delle tue iridi castane apparve allora una traccia di noncuranza patetica e testarda: non volevi capire. Non volevi sapere.
Io avrei urlato, se Eva non l’avesse fatto per me. La ragazza si teneva, infatti, la nuca con le mani. D’un tratto cominciò a percuotersi la testa e, discendendo con le mani, si graffiò gli avambracci.
-Ho ucciso un piccione!-, strillò, colma di panico tanto che chiunque l’avrebbe riconosciuto ed evitato. -Ho ucciso un piccione!-
Non era per il piccione, questo lo sapevamo bene entrambe, che la poveretta si torturò dinnanzi agli sguardi sgranati degli altri astanti. Era per l’aver dato la morte, al pari di un Dio. Il volatile l’aveva fissata per un secondo, come aveva fissato noi.

La sua danza non era stata che una reazione elettrica, eppure ci aveva guardate. Forse senza vedere. Forse.
Scacciai il dubbio mentre costringevo Eva ad allontanarsi. Tu, Adele, guidavi il corteo ormai mozzo, privo com’era del tuo accompagnatore. Ci spostammo in quattro. I tuoi capelli lunghi ondeggiavano sul lino chiaro come scompigliata coda di cavallo, di un biondo troppo scuro per esser chiamato biondo, troppo chiaro per esser chiamato castano, troppo sbiadito per poter essere definito bello.
Abbassai lo sguardo alle tue caviglie ed alle scarpe basse che portavi ai piedi: aperte sul retro, lasciavano scoperti i bei talloni pallidi.
Mi domandai perché avessi indossato scarpe da tedesca, e perché nonostante questo fossi così tremendamente attraente. La linea di sangue da quella posizione mi era invisibile e così la tua debolezza.
Eva, nel camminare, si reggeva al mio braccio neanche fossi unico sostegno durante la tempesta, ed io la tenevo in piedi come fosse stata di carta fine, senza il minimo sforzo.
Arrivati a casa tua, Adele, so che altre facce grigie hanno violentato il mio campo visivo chiuso su te. Cosa c’era? Una festa, forse? O è che, avendo finalmente la casa libera, tuo fratello aveva invitato degli amici?
Il tempo mi scivolò addosso, sulle spalle e lungo la schiena, e si fece sera.
Sedute al tavolo di metallo da esterni, dipinto di bianco antiruggine, l’una di fronte all’altra, bevemmo vino rosso insieme ai tuoi altri amici. Oltre te scorgevo un cielo viola, profondo e lucido, ed i profili scuri delle piante che ingombravano il terrazzo.
-Staresti benissimo con i capelli corti.-, dissi. -Anche con un colore diverso…-
Riportai le iridi su te, sul tuo stupore e sulla tua bellezza arrossata, abbandonando a malincuore la stellata lontana, fine come polvere d’argento.
Ti vidi sorseggiare del vino dal tuo bicchiere.
-L’idea di tingerli non mi piace...-, rispondesti. Poi i tuoi occhi si calamitarono al mio volto, e le tue labbra appena si mossero mentre domandavi: -Davvero credi che starei bene, con i capelli corti?-
-Sì.-, sussurrai, superficiale. -Hai un bel collo.-
E nel rispondere per un istante cercai con lo sguardo la linea rossa di sangue che ti macchiava il vestito e lei mi si mostrò, lampante e fiera come la vita stessa. Macabra e perfetta.
Un segno in tutto quel chiarore.
-Potrei tagliarteli io anche adesso, se tu volessi.-
Lanciai il sasso nel lago che eri, solamente per il gusto di turbare la tua fredda perfezione.
-Tu te li tagli da sola?-, udii.
-Non sto bene?-
-Stai bene.-
-Non ti fidi, allora?-
Risi del mio sorriso storto, le labbra porpora come quelle del mio passato amante, sfidando quei tuoi occhi quieti e quelle tue sopracciglia dritte. Risi, e bevvi un altro calice solo dopo averlo alzato e finto di brindare a te, per nulla stupita dal tuo silenzio, per nulla turbata dallo sfoltirsi dello sciame dei presenti.
Risi, finché tu non mormorasti le poche parole. -Va bene.-
Sparisti nella luce del soggiorno per poi tornare ad immergerti, risoluta, nel tepore della penombra esterna. Con un gesto posasti l’oggetto proprio di fronte a me, ancora schiava della eco ebete del sorriso di sfida che ti avevo sputato addosso poco prima.
Guardai le lunghe forbici dall’aguzza punta minacciosa. La lama era lunga più di venti centimetri, lucida.
-Va bene.-, ripetesti. -Va bene se mi siedo qui?-
Deglutii fingendo sicurezza. Tu eri tornata chiara del chiarore della tua veste, imperturbabile e silenziosa. Fissai un’ultima volta le forbici, prima di alzarmi.
-Certo. Benissimo.-
Fu allora che tu abbassasti impercettibilmente il capo.
-Come li vuoi?-, domandai alla tua nuca.
-Decidi tu.-
Non ho conquistato continenti inesplorati, nella mia giovane vita, ma ho veduto e assaggiato emozioni ugualmente forti: ma allora, con le mani fra i tuoi capelli, mi parve di superare un confine netto il cui orizzonte andava scemando fra la bruma. Tagliai, dapprincipio con timore poi con incredula frenesia: fra le mie mani mutava la tua forma, il tuo aspetto prendeva vita, il tuo carattere diveniva evidente e, ancor più altera, finalmente la tua espressione si svelò appieno.
Ecco il tuo collo, piccolo cigno che sul lago freddo si sposta leggero, ecco la linea dolce della mascella; ecco la guancia arrossata dal bere e lo zigomo alto, ecco l’orizzontalità del tuo vedere.
Fui costretta a sorseggiare ancora vino, sì: fui costretta dal guardarti, che era limpido e forte di una malizia talmente celata dal chiarore da risultare invisibile a chiunque non fossi io.
-Così ti piaccio?-, mi domandasti.
Non se fossi più bella, o se fosse venuto bene il taglio, o se ti donasse l’acconciatura, no! Pareva interessarti solamente il mio giudizio.
Mi immaginai moderno Andrea Sperelli distesa al tuo fianco, sulla morbida curva dell’anca, su un letto dalle lenzuola fresche. Immaginai l’odore dell’aria che dalla finestra aperta sarebbe discesa fin alla nostra pelle, per asciugarne il sudore.
-Sì.-, annuii. E vuotai il mio bicchiere.
Tu non ti guardasti nemmeno allo specchio: seduta di fronte a me ti limitavi ad osservare con tiepido scuotimento le mie mani sulla bottiglia mentre, con gesti gentili, ti riempivo il calice.
Lentamente gli altri invitati si dispersero, svanendo per sempre alla nostra vista distratta.
Continuai a bere. E tu con me.
Non ci alzammo neanche per salutare.
Si chiusero la porta alle spalle, loro, mentre ci studiavamo silenziosamente: eri figura ritagliata di cera, e dietro di te la notte respirava un forte profumo d’erba e giardini in fiore.
-Fra un po’ comincerà la serata.-, recitai.
-Andrai via fra poco?-
-A mezzanotte... Come nelle fiabe.-, risi, portandomi il calice alla bocca. -Devo vedere una persona che non ha affatto voglia di vedermi...-
-E’ una persona a cui tieni?-
La domanda mi ferì.
-Sono solo curiosa.-, mentii, seria, -Di vedere come andrà a finire.-
Tu guardasti altrove, oltre me, imitandomi nella forma: vidi il dispiacere attraversarti le iridi castane come corrente chiara prima di scoprirti distratta, mentre riempivi il bicchiere fissando il lento flettersi di un ramo.
-Si sta bene, qui. Mi piace stare in mezzo alle piante...-, sussurrai, sentendoti vacillare. -Se ne occupa tua madre?-
C’erano cinque o sei grandi vasi e alcuni più piccoli, pieni di gerani rossi.
-Mio padre.-
-E’ simpatico?-
Il tuo sguardo si posò sul mio, e lo attraversò: -Sì.-, udii.
Ed il tuo sorriso si tinse di scuro, tremulo desiderio.
Allungai una mano e la sedia stridé sotto al mio peso, mentre mi facevo più vicina: le mie dita accarezzarono il tuo collo, la sfumatura alta e disuguale dei capelli appena tagliati.
-Sei fortunata...-, commentai, senza in realtà pensare a niente oltre quel contatto leggero.
-Ci vogliamo molto bene...-, confessasti tu, schiudendo le labbra e abbassando appena il pizzo scuro delle ciglia sugli occhi lucidi.
Avvicinai la mia bocca alla tua e respirai il tuo respiro rosso di vino.
-Noi siamo in guerra.-, sillabai.
Non era né del tutto vero né completamente falso, ma la parola Guerra in quel momento mi sembrava degno spunto. Anche noi, in fondo, combattevamo: entrambe volevamo che l’altra si muovesse per prima, ad evitare l’imbarazzo di un rifiuto.
Ma tu lo negasti.
-Non noi...-, udii.
E poi non capii più dove si trovasse la mia anima.
Fu allora che immaginai il volare di una damigella. Le sue compagne libellule e le farfalle arrivarono subito dopo.
La damigella attraversò l’aria lucida dietro alla tua testa ed io ti strinsi la base del collo con una forza ed uno slancio che non mi appartavano affatto: eravamo a terra. Tu, sotto di me, sembravi principessa di un regno lontano, dimenticato.
Una principessa agreste, cresciuta in mezzo ai campi.
Ti sorressi mentre, china, le mie labbra contemplavano le tue in una preghiera silenziosa di sospiri trattenuti a stento: l’intero mio corpo, cavaliere, sovrastava e proteggeva il tuo, disteso e candido.
Non potevo staccarmi da te, se l’avessi fatto l’intero mio corpo si sarebbe ribellato tanto era miele la tua carne contro la mia, sulla mia lingua calda e sotto la pressione dei palmi; il tuo peso confermava la mia esistenza sul pianeta, senza la tua schiena premuta sulle gambe sarei sprofondata, o sarei volata via.
Annegai le mie labbra nelle tue serrando le palpebre per minuti, prima di esser colta dalla frenesia del vedere: allora ti guardai, ed il tuo volto era aperto, ed i tuoi occhi lasciavano intendere che tutto mi fosse dovuto dove i nostri desideri si incontravano, attraversandosi.
Il cemento del terrazzo mutò in terra vergine e i vasi scomparvero, lasciando finalmente le radici delle piante libere di crescere: le piante mutarono in bassi alberi ritorti.
La damigella, che fino ad allora aveva volato altrove, giunse fino ad un ramo e lì si posò, fissandoci con i suoi tondi occhi neri, smisuratamente grandi sull’oblunga testa azzurra.
Mi parve di percepire il muoversi dei folletti fra le ombre dei tronchi ma tornai a te, che eri ancora più straordinaria di tutto il resto: il lungo abito macchiato di sangue si gonfiò del tuo respiro.
Mi tremarono le mani mentre abbassavo le spalline sottili per vederti, Adele, e mi tremò lo stomaco quando tu ti sollevasti per far sì che il tessuto discendesse fino ai tuoi fianchi. Eri burro, serafica e piena come le donne di certi dipinti che mi avevano costretta a studiare sin nel dettaglio: in quel momento tutto tornò, si fece chiaro il perché di quelle ore sui libri e di tante mie scelte.
Avevo camminato per arrivare esattamente in quel punto.
Avevo calpestato un sentiero di terra battuta, ocra e polveroso, vagando e scegliendo a caso, al bivio, fra la via di destra e quella di sinistra, senza sapere il perché. Senza scorgere la meta.
Ma la meta mi aveva richiamata a sé, con un magnetismo suo proprio.
Un alito di vento ti sfiorò dove già io ti avevo sfiorata e vidi il sollevarsi del freddo sui tuoi seni.
-Vuoi entrare?-, bisbigliai, con voce non mia.
-Cambiamo canzone...-
All’interno le casse ronzavano. L’impianto girava a vuoto.
-Musica?-, sillabai. Era dunque questo ciò che udivo in sottofondo?
Mi sentii improvvisamente sciocca e abbassai la testa, il viso premuto contro al tuo collo a celare il rossore: debole, Ti respirai, le labbra appena incurvate.
-Come vuoi...-, sussurrai. -Cambiamo canzone.-
Entrammo come un uno con quattro gambe lunghe e busto inarcato: Tu ti sorreggevi a me, Adele, come prossima allo svenimento, ubriaca di vino ed eros. Poggiavi i piedi nudi davanti ai miei, poggiavi le spalle pallide sul mio vestire scuro, inutile protezione e sola barriera al desiderio di amarsi delle nostre pelli.
Non so come riuscii a tenere in equilibrio me stessa e te: invero fluttuavo, ora posso confessartelo; camminavo sul pendio discendente di una collina, varcavo la soglia d’ombra di una grotta straordinariamente asciutta. La tua casa, creatura nata dalla natura stessa, aveva stalattiti di colonne e stalagmiti di mobilia sfocate ai miei occhi ubriachi, a quegli occhi che tu hai conosciuto, concentrati su te.
Ti sbilanciasti da un lato, quello opposto alla sorgente della musica che da tempo aveva smesso di gorgogliar suoni: -Lo stereo...-, cercai di dire, ma le mie parole non avevano più un’anima.
Viveva solo l’urgenza, in me. Solamente quella, ormai.
-Lo stereo...-, ripetei, afferrando il tuo seno con le labbra come un figlio affamato del tuo sapore, reggendoti solo con la volontà di farlo: -Lo stereo...-, ansimai, e le tue orecchie udivano solamente il senso del mio respiro.
-Ti desidero.-, si contorceva questo.
Ti desidero, ti desidero, ti desidero...
Fu il mio desiderio o il tuo peso a costringermi ad appoggiare il tuo corpo cedevole sul bordo del divano? Come un’inflorescenza esotica, profumata di vaniglia, il tuo essere donna si svelò fra i petali della tua veste sollevata. Gatta, inarcasti la schiena al mio vedere, i palmi delle mani distesi sul rivestimento scolorito dei duri cuscini e lo stomaco costretto: osservai le tue gambe rilassate posare sul niente e la mia passione crebbe come marea torbida.
Non c’era più niente di eroico, in me. Nessun nobile intento.
Ero quella marea.
E quella marea voleva entrare in te.
La frenesia ha il sapore della mancanza di respiro: mi abbassai per riprendere fiato, in ginocchio di fronte all’unica fonte che mi avrebbe permesso di respirare.
La frenesia ha il sapore della sete: così china, ecco, io bevvi.
Annegare in te era annegare nel movimento lieve delle onde sul bagnasciuga, la notte. Nutrirsi di te era nutrirsi delle vibrazioni di piacere che il tuo corpo rimandava alla mia bocca.
Eri elettricità statica e carne.
Ed io fui un mezzo: un mezzo per farti gemere, e tremare, e esplodere.
Solamente un mezzo, sì, ma carico di una tale brutale forza al punto che, nel ripensarci, non riesco a riconoscerla come mia. Non ero neppure più io: l’istinto mi metteva in ginocchio, il sesso e lo stomaco in fiamme, e sapevo solo affondare e sprofondare; quell’universo privo di giustificazioni mi voleva animale uomo ed io lo accontentai anche perché non potevo far altro.
E tu eri bella.
L’orgasmo ti aveva lasciato il suo tatuaggio di sudore sulla pelle ma il sollevarsi delle tue reni mi invitavano, ancora: mi volevi in te quanto lo volevo io, ancora una volta il tuo essere non mentiva.
Sbuffai, alzandomi. Potevo sentire quel mio strano sorriso trasversale segnarmi l’espressione: ero io, l’animale uomo pronto a soddisfarti. Ti avrei dato tutto me stesso oltre la tua sopportazione fisica e poi mi sarei abbandonata al piacere, dentro di te, senza paura di poter fecondare il tuo utero di ninfa: saresti stata piena di me e infine mi avresti lasciata libera di scorrere fra le tue gambe bianche.
Mi sarei adagiata sulla conca della tua schiena, allora, una guancia fra le scapole, ed il mio cuore avrebbe finalmente ripreso il suo palpito regolare e forte.
Andava bene.
Lo volevi quanto lo volevo io.
Le mie mani strinsero le tue natiche dischiuse. Lo volevi quanto lo volevo io, e questa certezza vibrò lungo la mia colonna vertebrale facendomi gemere in una eco della tua voce.
La marea si espanse dura di fronte a me: dal mio essere donna dimenticato si prese il suo spazio, trovò via d’uscita. Ero in piedi, e tu eri tutto.
Fra noi la marea aveva ormai preso forma in una sorta di appendice sensibile: potevo avvertirne gli spasmi caldi, l’urgenza e la fame. Ne conoscevo il colore, un cupo viola scuro, ed il ruvido gonfiarsi della membrana che lo rivestiva.
Non ero più né uomo né donna, ero pura energia. Un mostro.
Un demone.
Il Drago, o semplicemente la Brama.
Mi slacciai i jeans con una mano, lottando con l’unico bottone con frenesia e rabbia. Liberai il tentacolo ad occhi chiusi.
E spinsi.
Mia cara Adele, ti avrei voluto dare più di così.
Perdonami per la fuga all’indietro, goffa e imbarazzata. Perdonami per lo sguardo allargato e per il pallore.
Spinsi, ma non avevo nulla da spingere se non il mio bacino magro.
La superficie piatta del mio sesso incontrò quella del tuo, appena sporgente: fu allora che mi risvegliai. Guardando in basso scoprii il folto aggrovigliarsi dei miei peli pubici, null’altro: dove avevo sentito nascere la propaggine non v’era che atmosfera, trasparente aria priva di peso.
Cosa sto facendo?, sussultai.
Tu ti voltasti pigramente e i tuoi bei cigli domandarono perché.
Guardandomi ti ritirasti sul divano e, così poco protetta, privata della cortina di ciocche che erano i tuoi capelli dalle mie stesse mani, sollevasti il vestito fino a coprirti i seni. Quelli potevi ancora celarli: non più la fronte, non più lo sguardo.
La colpa era solo mia.
-E’ mezzanotte.-, ti udii sussurrare.
-Devo andare.-, risposi io, senza sapere cosa volevo in realtà. Mi guardai intorno per prender tempo, sperando di rivedere la damigella o le rassicuranti stalagmiti di pietra, ma scorsi solo il mobilio moderno e, fuori, delle piante in vaso.
Poi tornai a te, spolverata di statica delusione e di tristezza.
-Ci vediamo presto, vero?-, domandai.
-Sì, presto.-, mentisti tu per me, sorridendomi lieve.
Così mi accompagnasti alla porta ed io mi allontanai, nella notte, senza guardarmi indietro.
So cosa pensi della vita e della morte, Adele, come so cosa pensi dell’amore. Ti cercai invano per qualche giorno, poi abbandonai l’impresa come il peggiore dei navigatori. Ma avevi paura, e non si può trovare un tesoro che si nasconde per sua volontà.
Potrei dirti che ti ho pensata e che ancora, qualvolta, ti penso. E potrei dirti che lo faccio per lo stesso motivo per cui non fui in grado di controllarmi, quella sera: perché esisti, arrendevole compagna, pura nei miei occhi.
E la tua purezza è nutrimento per l’animo.
Gli anni sono trascorsi e tu pure avrai la tua vita: chissà se pensi ancora a me ed alla passione che ci ha viste unite... Chissà se ti chiedi quale fosse la fonte di tutta quella magia...
Io, tanto diversa da allora, so chiedermi solo cosa sarebbe potuto cambiare se non fossi fuggita, se non avessi distrutto l’incanto per via di quel qualcosa che era ed è mio dalla nascita: la femminilità.
Ma è solo retorica.
Forse è la paura per il cambiamento che parla con le mie dita, come la tua si mosse con le tue gambe che ti portarono lontana, via da me.
Mi sfioro il ventre con mano aperta. E’ la mia mano, la riconosco.
Poggia sul mio ventre, che non è più solo mio.
So cosa pensi della vita e della morte, Adele.
So che qualsiasi fosse la mia scelta tu ti limiteresti ad alzare le spalle, incurante, guardandomi fissa per farmi capire che, comunque, io resterei io in ogni caso, qualsiasi strada decida di percorrere.
E che tu comunque mi ameresti per quello che sono, come io ho amato ed amo te.
Perché siamo creature fragili, in balia qualvolta del caso, e poter decidere è comunque una benedizione, anche se spesso pare il contrario. Ma anche dove fossimo schiavi degli eventi, allora pure siamo schiavi di noi stessi, quindi non fa differenza: vivere è l’unica cosa realmente importante, finché si è in vita.
E se il suo crescere nel mio grembo è sconvolgente quanto la morte di quel piccione comunque non ha importanza: la magia dell’esistere, grandiosa, sa essere spietata e magnanima.
Questo è il luogo in cui siamo nati.
Il luogo in cui ci è dato di esistere.
Ma siamo insieme, nonostante le distanze.
Mi salvi, dunque, ancora una volta.
E senza menzogna.