Gott mit Uns

di  LaPadrina

 

 

 

 

  Sono lì, tra le lenzuola di seta nere confuse nel pizzo dell’autoreggente.
Con la coda dell’occhio guardo lo specchio, cercando me.
Quei capelli lunghissimi, biondi, che m’accarezzano il corpo.
Quelle gambe di burro, velate di nero, che si concludono in un tacco di pelle.
Giro nervosamente la caviglia, mentre vedo il tuo corpo nudo diventare tedesco.

Solo un attimo: ti vesti come se io non fossi lì.
Poggi la giacca della divisa sul letto, così pantaloni a sbuffo, i lacci neri degli sbuffi, la cintura di cuoio, la fondina e la pistola.
Ti metti di fronte allo specchio, col tuo sguardo fiero.
Sento quanto sei carnefice.
Lo sento addosso, mi inizia a bruciare la pelle.
I miei polsi e le mie caviglie sembrano calamite: si avvicinano sempre più.
E quei pantaloni verdi ti sfilano addosso, così bene come solo le mie mani.
Larghi sulle cosce, stretti sui polpacci.
Allacci quella giacca.
La cintura si appoggia sui ganci.
Sei irrevocabile.
Sì, sei tu.
Prendi la croce di ferro e te l’appunti al collo.
Sento una stretta alla gola.
Vieni, Polina. Così mi dici.
Prendi gli stivali e me li metti in mano.
Borotalco.
Calze e cuoio.
Neri, scheggiati.
Vissuti.
Pieni di te.

Mi accorgo solo ora quanto tu sia un bastardo nazista.
Con quell’aria sempre calma, imperturbabile.
Sorridi anche, a volte.
Quella tua crudeltà prende possesso del volto.
Il canto tedesco è assordante.
Ora è troppo tardi per qualsiasi cosa.
Sfili le manette pesanti e vecchie dal cuoio.
Sento la prigionia scorrermi addosso.
“Bastardo nazista”, ripenso.
E così mi attacchi alla sbarra di ferro in alto.
Mi urli qualcosa in tedesco ed il mio corpo inizia ad essere pesante.
Non c’è scampo.

Mi lasci lì, di spalle.
Percepisco del ferro sbattere.

Mi nutro del tuo piacere sadico, ora.
Solo qualche minuto prima t’avevo detto quanto vorrei usarti quel cane addosso.
T’avevo detto che era il mio cane.
Così leggero.
Da non vederne mai la fine.
Tu avevi sorriso.
Ed ora quel sorriso mi spezzava le ossa.
Appena ti giravi ti battevo.
E tu mi guardavi sereno.
Ora capisco perché.
Ora capisco cosa mi accadrà.

Il tacco dei tuoi stivali è sempre più vicino.

Chiudo gli occhi, per un attimo.
Ora ricordo quell’uomo in ginocchio, davanti a me.
Ricordo quell’uomo baciarmi il pizzo dell’autoreggente.
Ricordo quell’uomo che aveva l’appartenenza sulle labbra.
Ricordo l’urlo disperato di quell’uomo che mi chiedeva di farlo arrendere.
Senza condizioni.
E ricordo me, che avrei voluto farti mio.
Farti assaggiare il mio dominio.
Amaro come il miele.
Non potevo, però: c’era ancora una parte della tua mente che mi sfuggiva.
Dovevi liberarti del futuro.
Del peso del futuro.
Ed io dovevo attendere.

Prima per caso i nostri occhi si sono incrociati.
Ci ubriacavamo di silenzio.
Sei molto meno libero di ieri. Molto di più di domani.
E ti stai abituando ad essere felice.
Senza sentirti in colpa.
Senza pensare a quello che ci sarà dopo la felicità.
Ed io mi nutro di questo saperti aspettare.

Sei forte, penso.
Il ticchettio di stivali e tacchi è sempre più vicino.
Sento vibrare l’ultimo passo prima che la lana della tua divisa accarezzi il mio corpo.

Ora so che non c’è nulla che non potrei sopportare, per te.