Il buio e la collana di perle

di  LaPadrina

 

 

 

 

  Tre settimane a rincorrerci.
Cerchiamo i nostri occhi ovunque.
Ed avevamo quasi imparato ad accontentarci di quelle telefonate, durante il tragitto per andare a lavoro.
Sembrava il massimo che ci potessimo concedere.
E la cosa mi faceva sorridere: lavoravamo a 10 metri di distanza, in linea d’aria.
Eppure sembravano così tanti.

Era bello farsi rincorrere da quell’Uomo che non era abituato a rincorrere.
La sua sete di perfezionismo gli impediva di sentire il mio profumo, per la prima volta, in un’occasione comune.

Così, un Venerdì.
Sembrava un giorno come gli altri.
D’improvviso, lui: “vorrei invitarti, alle 21, e passare la serata insieme”.
“Va bene”, e davvero non mi interessa altro.
Mi dice che mi chiamerà il giorno stesso per darmi le indicazioni necessarie.
Poi, mi chiede di fare due cose: indossare un monile dedicato a lui ed un foulard.
Ripensandoci a mente fredda, la reazione più naturale sarebbe stata una furia nera, contro quell’Uomo che doveva decidere unilateralmente ogni cosa, perché aderisse al suo canone di perfezione.
D’altro lato mi sentivo venerata di questa sua patologica ricerca del meglio.
Era per me.
Stava creando una serata per Me.
Difatti, a quella sua richiesta non ci fu nemmeno un attimo di nervosismo.
L’unico mio pensiero fu: “il foulard, dove cazzo ho messo il foulard?”.
Sapevo quanto pericoloso fosse per pensiero.
Ma mi piacque.

L’indomani fu silenzio.
E non capivo davvero a che gioco stesse giocando: o aveva sottovalutato me, od ero io a sottovalutare lui.
Mi scrisse di farmi trovare alle 21.30, in quell’hotel a cui avevo sorriso tante volte.
Stavolta ero furiosa davvero: ma cosa voleva fare?
Cosa ero, una bambolina a domicilio?
Basta, mi sfilo i guanti e decido di rimanere a casa.
E lui mi chiama e mi chiede perdono, che quella è una delle giornate più ignobili della sua vita ed in quella giornata ha bisogno di Me.
Della mia presenza.
La sua supplica mi pare una dolce melodia.
Mi dice che potrò usare il suo corpo ed il suo ego come meglio credo, purché gli permetta di ottenere il mio perdono.
Dannazione: la sua idea era stata sempre quella di piegarmi.
A me faceva sinceramente ridere ed i caratteri forti mi hanno sempre attirato.
L’idea di passeggiare sul suo corpo era irrinunciabile per Me.
Mai come in quel momento.
Sentivo il suo bisogno di Me

Afferro la collana di perle. Ed il foulard.
Chiamo un taxi e venti minuti dopo sono in quell’hotel.
Tutti mi osservano.
Lui mi aspetta dentro quella camera.
Busso, due volte.
Mi apre.
La camera è buia.
Un fascio di luce lo illumina parzialmente.
Vedo poco, pochissimo.
Ma chiudo gli occhi.
Voglio goderci senza il peso degli occhi.
Senza il peso delle parole.
Voglio scoprire nuovi sensi.

Lui mi abbraccia forte.
Poi mi prende le mani: tutte e due.
Mi conduce in un luogo che non conosco.
Sento le mie gambe forti, ma tremano.
Non sanno cosa c’è nel passo successivo.
Mi fa sedere su una poltrona.
Sembra un trono.
Mi accarezza i capelli, si inginocchia di fronte a Me.
Sento le sue labbra posarsi delicatamente su ogni lembo di pelle che riesce a trovare.
Mi sta esplorando.
Sento la forza ed il desiderio nelle sue mani.
Forte, prorompente, impaziente.
Cerco di contrastarlo, ma soccombo.
Mi afferra il viso con le mani.
Appoggia le sue labbra alle mie.
Respira la mia stessa aria.
Rimaniamo immobili, così.

Dice che sono buona.
Pare essersi tranquillizzato.

Sferro il mio attacco: “avevi detto che avresti chiesto perdono nel modo più adatto ad una Signora”.
Sospira.
Si inginocchia ancora. Mi accarezza le mani.
“Perdono”, sussurra.
“No, non è questo il modo più adatto ad una Signora”, sentenzio.

Gli stacco le mani dal mio corpo: lo sento morire, ogni volta.
Deve avermi in mano, sempre.
Prende la mia gamba: se la poggia sulla spalla ed inizia a baciarla in modo prima impercettibile fino ad arrivare alla passione.
Mi abbraccia in ginocchio, bramando il mio perdono.
“Così si fa”, dico sprezzante.

Così gli infilo le dita tra i capelli che in questo momento sento.
Il suo desiderio lo sta logorando.
Tutta quella sua venerazione nel perdono deve averlo smarrito.
A volte lo percepisco perdersi.
Sì: non si era mai conosciuto così.
Gli stavo mostrando una Via e gliela stavo facendo desiderare.
Avrei avuto due possibilità con lui.
Pretendere la sua sottomissione a me: come un gioco di forza.
Ma lui è abituato a tutto questo e non ci sarebbe stata vittoria.
Ed allora ho scelto una dolcezza, una dolcezza che ho riscoperto tra le mie mani.
Sto plasmando i suoi desideri.
Sto rendendo desiderabile il suo più grande antagonista.
Sto rendendo il desiderio della mia sottomissione il desiderio della sua sottomissione.
E poi si ribella.
E non potevo immaginare altra reazione: gli sto facendo bere un veleno.
A piccole dosi: ma un veleno letale.
E prima il suo corpo si abitua.
Ma gli spasmi sono inevitabili.
Così mi mette le mani al collo e mi spinge le vene in gola: sa come fare.
Io non accenno un movimento.
Devo solo respirare.
In questo momento devo respirare.
Deve capire che non ho paura di lui.
E delle sue perversioni.
Vuole il mio sangue, vuole il mio respiro.
Ed io lo sfido guardandolo negli occhi bui.
Ma lui li sente, lo so che li sente.
Ed allenta la presa, stringendosi nei pugni.

Si siede un attimo sulla poltrona accanto a me.
Quale piacere: in un attimo scivola ancora a terra.
Vorrei farlo specchiare in quel momento per fargli capire come è bello.
Ed ancora ammira il mio tacco, passandoci le labbra.
Sale e sento le sue labbra sfrangiarsi sulle autoreggenti.
Percorre la trama del pizzo.
Arriva all’interno della mia coscia.
Sento il calore del suo respiro, il tremare della sua voglia, l’umido della sua lingua.
Spingo il tacco sulla sua coscia.
Ed allora mi afferra l’interno coscia e lo stringe, facendomi sobbalzare.
Sento il sangue pulsare in quella zona.
Immagino la mia pelle bianca. E mi eccito.
Sento la sua lingua in ogni mio piegamento.
Il suo naso sfregare il pizzo delle mutandine.
Sta sentendo il mio profumo.
La sua lingua mi prende.
Percorre ogni angolo della mia nudità.
Si sta nutrendo di me, mi beve in un calice di cristallo.
Abbraccio il suo collo con le mie cosce importanti.
Stringo.
Sento il suo essere inebriato: ci stiamo eccitando dell’eccitazione dell’altro.
Il tacco gli graffia la schiena.
Infila un dito dentro di me. Lo sento tutto.
Il coltello nel burro.
Lo accolgo umidamente.
Mi fruga dentro, mi cerca.
Sta cercando il punto più profondo della mia anima.
Ed infila ancora un altro dito.
È violento, ora.
Io soffro, soffro da morire.
Sento che mi sta logorando la pelle, sento la mia eccitazione mischiata al sangue.
Crollo, lo allontano.
“Macellaio”, gli dico. “Assassino”, inveisco.
Credevo fossa sua intenzione provocarmi quel dolore.
E lo avevo accolto: non senza poterlo odiare.
Sento la sua voce rotta chiedermi ancora perdono.
Stenta a riconoscersi, stenta a capirsi.
Lo sento schiaffeggiato dai suoi stessi desideri.
Gli dedico quel sangue mentre stringo le cosce per sopportare meglio.
Lo bacio e le labbra sono dolci.
Ora è solo passione.

Così ricomincia quella danza del piacere: più delicata, ora.
Mi abbandono al suo desiderio di me.
Invoco il suo nome, sussurrandogli il mio piacere.
Sento le sue mani e la sua bocca piena di me.
Lo bacio ancora.
Gli lecco le dita.
“Sei più buono, ora”. E lui sorride.