Lo sfizio
di Giulia Lenci
Quando entra, il ragazzo le lancia un’occhiata veloce,
poi finisce la sua birra e, battendo la bottiglia sul bancone, ordina uno
Sfizio. Il barista prepara la mistura ambrata e un po’ frizzante con note cupe
al fondo del bicchiere.
Lei si guarda intorno sfilando la sciarpa di seta dal collo, adagio adagio. Tra
risate a bocca larga e lunghe ciocche di capelli scosse a mettere in evidenza
magliette troppo aderenti, non ne vede una che possa starle a paragone. Sono
tutte uguali, pensa sorridendo.
Passandogli accanto, bisbiglia :”Vieni, se ti va di toglierti uno sfizio.”e lo
supera lentamente, in modo che possa individuarla senza dubbi. Strizza un occhio
e svelta si dilegua.
Non ci sono séparé in quel brutto bar, però c’è una scala che scende al
ripostiglio delle bevande. E’ piuttosto buio, se si esclude la luce malata della
lampadina appesa al filo. Ha tempo di controllare che tutto sia tranquillo,
perché lo sa, ai ragazzi bisogna dare tempo. Tempo di riaversi dallo stupore di
un’offerta inattesa. Tempo di esitare. Tempo di decidere se fingere indifferenza
o cogliere al volo un’occasione da raccontare. Ha avuto il suo tempo. Si gira e
lo vede sugli ultimi gradini, sbattere le palpebre per abituarsi all’oscurità,
le mani annaspare tentando di ancorarsi tra porta e muro. Non è ancora convinto.
Non l’ha mai vista, non può fidarsi.
“Ciao…”sussurra lei.
“Allora?”dice lui, un mezzo sorriso nella faccia ossuta.
Lo vede, come sarà. Un uomo interessante, non una bellezza comune. Particolare,
con quegli zigomi alti che appendono la pelle al volto magro.
Solleva la maglia piano piano, perché imprima a memoria le curve morbide,
generose, del seno imprigionato nella trama del tulle nero, e la lascia cadere
con indifferenza.
Lui contrae il labbro in un gesto goloso, involontario. Ma è ancora ad un passo
d’incertezza.
Slaccia la gonna, che scivola e s’impiglia sul dorso del piede. La scalcia a
lato e resta così, noncurante, le gambe appena divaricate, a offrire il disegno
del ghirigoro di pizzo da fianco a fianco, sfuggente giù oltre l’inguine,
ombreggiando il punto che lui indovina – o immagina – tra coscia e coscia.
D’un tratto gli è vicina, sente il profumo di quel che ha bevuto.
“Ti faccio vedere come si beve la birra…”mormora.
Tra le labbra di lui traspare il candore dei denti, serrato nella carne tenera
della mucosa.
“Credevo chissà che…”
Non sarà facile stupirlo. Ogni volta è una sfida. Con se stessa. Con ciò che in
lei grida sotto i segni lievi della pelle, sempre più marcati.
Lui accosta la porta e vi si appoggia, i pollici nella cintura dei jeans, il
sorriso adesso sfacciato nel lampo dello sguardo.
Lei si accovaccia, la bottiglia posata sul palmo, in equilibrio precario. Siede
sul pavimento freddo. Ora è comoda e comincia lenta a cercare l’andatura per
seguire il ritmo che le batte dentro. Unisce le ginocchia, appoggiando la
bottiglia, roteandola tra i palmi, respirando in sordina con la pelle
accapponata e quell’ardore che prorompe sotto. Sottopelle. Fissandolo negli
occhi, preme le labbra al collo di vetro.
Lui china la testa e dalle pupille scocca un luccichio rude, prepotente.
A poco a poco lei inclina il capo a lato, allacciando il vetro con le labbra,
muovendole a ventosa, allungandole e ritraendole in carezza morbida.
Ha smesso il ghigno beffardo, lui, deglutendo la osserva, a stento trattenendo
il tremito che lo percorre dalla nuca in basso, irradiandosi dove non avrebbe
mai creduto.
Lei danza con lo sguardo giù, dove i pollici si sfilano dalla cintura, cadendo
appesi alle mani aperte sulla tela ruvida dei jeans. Indolente, senza fretta,
protende la lingua carezzando il tappo con la punta umida, guizzando intorno
giro a giro, sovrastandolo con la bocca che lentamente si spalanca e d’un tratto
se ne impossessa, lo nasconde e lo restituisce con rumore di risucchio.
Il ragazzo si china in avanti, verso lei, che riceve la richiesta muta dei suoi
occhi appannati, e riprende la movenza ameboide, inghiottendo e rivelando il
passaggio della lingua nella traccia di un tepore che lui può solo indovinare.
Qualcosa, in lui è cresciuto, sotto la stoffa sbiadita dei pantaloni, spia della
scintilla che è riuscita ad innescare. Prima che l’incendio divampi, prima di
ammettere la resa, prima che la bottiglia vada in mille schegge contro il muro,
lui si concede un impeto di crudeltà.
“Vecchia porca…”sibila e ansimando rauco le si avventa addosso,
afferrandole i capelli per guidarla dove vuole, dove lei sa, a ripetere il gioco
promesso della lingua, che s’avvolge e rotea e rapida discende e lenta risale e
di nuovo guizza, incollata. Grugnendo le spinge la testa in un comando che lei
conosce. E fa della bocca ultimo riparo, spiaggia celata in cui corre a
frangersi l’onda affannosa della sua voglia.
Ha gli occhi ancora socchiusi nel respiro che si calma, lui. Lei si alza e si
riveste in fretta, abbandonandolo accasciato ai suoi piedi. Sul suo viso giovane
un leggero svolazzo di seta.
Così, uno sfizio di signora.