Lontano
di Giulia Lenci
C’era la foschia evanescente dell’alba di fine estate,
sul mare grigio come acciaio. I gabbiani camminavano pigri sulla sabbia delle
spiagge deserte. Salivo adagio nell’aria fresca, su per il sentiero tra le
rocce, fermandomi ogni tanto a guardare la linea cupa dell’orizzonte risplendere
d’un bagliore segreto contro il cielo diafano.
( Mi aspettavi già sveglio, spiando il mio arrivo dalle imposte socchiuse. Mi
sembrava di vederti, mentre in fretta preparavi il caffè. Sorridevi, scorgendomi
arrancare nel viottolo stretto, nascosta a tratti da un’incurvatura o una roccia
alta. )
Arrivata in cima, evitavo d’indugiare con gli occhi sulla baia. Gettavo lo
sguardo subito sui primi ciuffi di lavanda che segnavano l’ingresso alla tua
casa. Ne sentivo il profumo ancora prima di avvicinarmi. Gli steli oscillavano,
lunghi e fioriti, sotto il peso di qualche insetto mattiniero. Bordavano tutto
il viale fino alla porta, sporgendosi rigonfi sulla ghiaia bianca.
( Ridevi, delle mie vertigini. Ti mettevi sulla roccia più alta e respiravi a
fondo,lanciando un’occhiata larga sul panorama che mai ti stancava. Poi saltavi
giù, venivi a prendermi per mano e insieme andavamo verso casa. Sotto i nostri
passi i ciottoli minuscoli scricchiolavano allegri. )
Ogni volta era un tuffo al cuore. Mi pareva una visione, la piccola casa di
legno azzurro sospesa sul mare. Come in una fiaba. E i colombi sul tetto,
addossati uno all’altro, che attendevano me, per frullare tra i rami dei pini e
darmi il benvenuto con il glottare sommesso. E tu ti voltavi da lassù, e
sorridevi.
( L’uscio di legno l’avevamo riverniciato noi due. “Blu cobalto, ti va?”, per
avere una scusa di lavar via le macchie di vernice, sotto la doccia. Me ne avevi
disegnata una sulla fronte, con delicatezza e “indovina cos’è…” avevi chiesto e
io “un cuore” avevo indovinato. Occhi negli occhi. Prima di rientrare. )
Quel mattino il cuore mi si è fermato in gola. Dov’eri? L’angoscia batteva
dolorosa alle tempie. I colombi sul tetto si sono affrettati a dileguarsi in
silenzio. Non c’erano insetti sui fiori di lavanda. Forse era già troppo freddo,
per loro. La ghiaia aveva un riflesso opaco e dopo alcuni passi mi sono accorta
che non scricchiolava.
( Chiudevamo la porta alle nostre spalle. Entravo nel mio sogno. Mi sentivo
sospesa tra il mare e il cielo. Tutto il resto non esisteva. Erano le voci dei
gabbiani a screziare il silenzio. Quel silenzio che mi riempiva appena mi
avvolgeva la penombra impregnata di caffè. Ti seguivo in cucina. )
Sono rimasta immobile. Non avevo il coraggio di proseguire. Le mie mani
tremavano e il rimbombo del cuore mi appannava il respiro. Adesso esce, mi
dicevo. Ma quelle imposte troppo serrate, quei gabbiani troppo taciturni,
trattenevano sospiri. Qualcosa si stava incrinando davanti a me. O forse era il
velo negli occhi. Tremulo, distorceva la mia visione. Temevo che tutto
scomparisse. Così ho spinto l’uscio.
( “Un bacio al caffè. Niente di meglio per cominciare al giornata.” Lo dicevi
tu, stringendomi forte, premendo il tuo corpo sul mio. Faceva troppo caldo, i
vestiti erano di troppo, la cucina era troppo scomoda, nel corridoio troppa
luce. Eccola, la nostra stanza preferita : quella affacciata sul boschetto di
pini. Invasa dall’aroma di resina. Solo una rete da pescatore appesa a una
parete. Sul pavimento, il tappeto con le navi e tanto mare blu. )
E’ strano, l’odore dell’abbandono. E’ il respiro di una casa priva di vita.
Tutte quelle stanze mute. E i miei passi. Superflui. Ho guardato dalla soglia le
navi sul tappeto e quella rete che pendeva triste. Soltanto la resina persisteva
intensa. All’improvviso tutto ondeggiava. Mi sono appoggiata allo stipite,
ansimando.
( Ci svestivamo in fretta. Tu mi spogliavi con gli occhi. “Oh, tu…”bisbigliavo.
E mi eri addosso, ad allacciarmi con le braccia calde, a spingermi a terra, sul
tappeto. Scivolavi in me con la foga che mi conquistava, che mi faceva gemere e
muovere convulsa e lanciare grida ad impigliarsi nella rete da pescatore. Tu,
che poi ti lasciavi andare sulla nave preferita e “questa mi porterà lontano”
dicevi indicandola e io “non te lo permetterò” rispondevo. Mi fissavi serio e
“lo sai che l’estate finisce…”dicevi e “ci sono altri giorni…”rispondevo.
Scrollavi piano la testa, distogliendo lo sguardo. Allora mi prendeva l’euforia
crudele della certezza. Ero sicura di trattenerti. Strisciavo su di te,
incollandoti la mia pelle, penetrando la tua bocca con la lingua, mettendo le
dita tra i tuoi capelli, massaggiandoti lentamente con il mio corpo. E d’un
tratto era l’illusione di averti mio per sempre, mentre il tuo desiderio
cresceva e sembrava sopirsi in me. Ancora scivolando in me. )
E’ stato atroce, quel momento. “Non si può trattenere chi non vuole restare”.
L’avevi detto, lo so. Ma quel tappeto vuoto, senza di noi, era impossibile da
guardare. Volevo uscire di corsa, ma non mi decidevo ad abbandonare
quell’incanto spezzato. Ho semplicemente messo un piede dopo l’altro fino alla
porta. E l’ho vista. Nell’angolo, per terra.
( “Ho una sorpresa…”avevo detto e “vediamo” hai riso. Un’alga raccolta sulla
sabbia. Come un nastro verde. “Che sorpresa sarebbe…” hai detto e “dammi le
mani” ho risposto. Ti ho legato i polsi, e tu ridevi e ridevi. “Mio per sempre”
ho detto. Sei diventato serio. “Tuo per questo presente” hai risposto. )
Mi sono chinata. L’ho stretta tra le dita.
Fuori, i colombi tubavano senza riguardo. I gabbiani schiamazzavano nel cielo
luminoso. Mi sono issata sulla roccia dove il tuo sguardo vagava lontano. Ho
aperto la mano. L’ho vista cadere giù verso l’acqua che l’attendeva tranquilla.
Si è librata nell’aria, allungandosi e contorcendosi in movimenti sinuosi,
cadendo nel luccichio delle onde, che l’hanno accolta e portata con sé. Lontano.