Cul de Sac
di Liberaeva
Sarà quest’inverno che mi piace e mi sfiora, che s’inoltra gelato nelle tette di
sera, tra i vicoli stretti d’una Roma che amo, tra le maglie più larghe della
mia camicia di seta. Saranno i miei seni che colmano il vuoto, d’una notte che
luna non riesce a riempire, tra il rumore dei tacchi che fanno la scia e mi
fanno più preda come femmina calda.
Offro tette a chi passa come se fossero frutta, al vento che soffia e mi secca
le mani, mentre cammino su una Roma disfatta, dove neanche una cagna si
inoltrerebbe da sola, perché dietro ogni muro c’è un uomo che guarda, una
cicatrice alla luce che fa più paura, di un delinquente comune che ride e che
piscia, e mi lancia parole d’amore e di cesso.
Ho paura che qualcuno m’aggredisca di colpo, ma cammino e mi turo le orecchie e
la bocca, sapendo che questo mi basta ed appaga, quest’anima informe che tace
acconsente, con le membra scrostate dai muri che struscio, dagli angoli oscuri
che sanno di muffa.
Saranno i miei anni che passano in fretta, perché nel mio letto non è passato
nessuno, e l’amore che sento lo trovo ogni notte, nei bassifondi più miseri che
sanno di sporco, in fondo alla strada che ripida scende, dentro un culo di sacco
dove mi nutro e m’ingozzo.
Mi sono vestita di foglie e di fiori, perché un minimo soffio mi scopra e mi
spogli, dei timori dei dubbi che non è solo piacere, e l’amore che sento non è
altro che vuoto, che buco che fica da riempire nel collo, d brividi intensi tra
la carne e le ossa. Cammino decisa cadenzando i miei tacchi, senza sapere cosa
c’è oltre il rumore, se nell’infinita ricerca c’è davvero il bisogno, di
conoscere il fondo di dimenticare chi sono, infangando di notte il cognome che
porto, come macchie indelebili di seme biancastro, sul mio twin-set attillato
nero di Fendi.
Mi inginocchio ed allargo lentamente le gambe, sopra questo tombino che
rigurgita fango, alzo la gonna e scopro il tesoro, ed aspetto paziente un rivolo
d’acqua, che mi sfiori leggero e bagni il mio sesso, i peli che radi li taglio
con cura, ogni sabato all’alba dopo la doccia. Che direbbe ora se mi vedesse
qualcuno, con un cappello da sera ed i guanti di rete, che aspetto e raccolgo
solo acqua piovana, avanzi di mondo come bestemmie, come seme infecondo lasciato
scolare? Che direbbe se mi vedesse strusciare, contro l’asfalto per sentire il
bisogno, d’essere l’ultimo anello del mondo, prima del quale c’è una donna
borghese, che si lava le mani dieci volte ogni giorno. Che direbbe se mi vedesse
strusciare, accovacciata come cagna che femmina piscia, a carponi che pendo i
miei seni abbondanti, come vacca in attesa d’essere munta?
Questo rivolo d’acqua diventa uragano, m’inumidisce le pieghe che apro e
spalanco, perché nemmeno una goccia vada poi persa, e l’amore che sfamo non
rimanga deluso. Con una mano apprensiva m’alzo la gonna, perché sia mai che
s’insozzi di fango, con l’altra più esperta accompagno la voglia, dove l’acqua
da sola non potrebbe arrivare. Sono baci e carezze sono spremute di seno, mentre
un fiotto improvviso mi esce da dentro, e l’acqua s’insinua e sto per godere,
come al cospetto d’un amante che lecca, la voglia impetuosa che fluisce viscosa,
e generoso m’aspetta per sentirmi gridare, perché nulla è più intenso d’una
donna che gode, mentre sgorga d’umore e la bocca poi lava.
Sono delta di fiume e foce di mare, tombino che succhia e raccoglie nel ventre,
la parte del mondo dove non esiste l’inferno, in questo culo di sacco dove non
esistono scale, per andare più in basso per sentirmi migliore. Sono vicolo cieco
di un viottolo d’erba, canale di melma ai bordi del cuore, dove la sera sento
rane gracchiare, uccelli che dritti m’additano bella. Oddio che darei per
entrarmi di dentro, scoprire l’intarsio dove depongo le uova, di questa brama
ossessiva che la sera mi prende, e mi lascia pensare che se fossi puttana, sarei
una regina che mi guarda dall’alto. Eccomi ci sono! Mi struscio e m’imbratto, mi
bagno e m’infango e rimango nel dubbio, se il mondo mi sporca, o è la mia voglia
che cola, che inquina quest’acqua immonda e piovana.
Sarà che ora mi riaggiusto il cappello, mi riassetto la gonna che leggera mi
fascia, cammino orgogliosa come se nulla è successo, signora per bene che ha
sbagliato la strada, e si ritrova per caso in questo culo di mondo, tra un uomo
che fischia e l’altro che piscia, in una nausea intensa che mi tura la gola, che
mi fa schifo soltanto a sentirne l’odore, di questa miseria volgare e violenta,
mentre a casa m’aspetta un letto di seta, che candido avvolge le mie notti
pulite, i miei sogni leggeri che non partoriscono fogne, che non finiscono
all’alba dentro un culo di sacco.
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