La commessa

di  Liberaeva

 



Sarà che tra poco saranno le sette, e stanca m’inoltro per le strade di sera, obbediente mi lascio guidare dal vento, che soffia e s’insinua e porterà pioggia. Le vedo le nuvole basse, che s’addensano e fanno paura, mi velano gli occhi che sia sera e poi notte, mi crucciano il cuore d’un altro giorno che passa, e nulla è successo nonostante i miei tacchi, la gonna il cappello la prima volta che metto, e mi illude che solo possa bastare, a farmi posare quel sorriso che bramo, per non essere sola almeno stasera.
Ho preso l’ombrello per ripararmi se piove, per essere bella per essere intatta, dal trucco ai capelli che porto legati, dalle gambe alle mani che vedo diverse, negli occhi di gente che passa più in fretta, e sorpresa rimango a vedere il riflesso, nella vetrina ogni giorno che addobbo, tra liste di nozze di tovagliati e bicchieri, che vendo e guarnisco come un sogno un miraggio, a giovani coppie che si fanno guidare.
“Io vado, buonasera!” Sono anni che indugio prima di uscire, perché lui mi guardi mi noti e m’apprezzi, che senza grembiule sono più bella, di come gli appaio fino a quest’ora. Lui è sposato di religione diversa, ha una moglie un’amante e un figlio che studia, una villa sul lago e questo negozio, a due passi soltanto da Piazza Navona. Come faccio a spiegarli che non m’interessa, far concorrenza alle sue donne che ama, che non cerco l’amore ma un surrogato che ostento, almeno nel seno che mostro evidente, mentre m’inchino per farlo notare, anche se poi non è tanto abbondante, quanto due mele colte prima del tempo.
“Ma come è possibile, che non se ne s’accorga?” Se solo mi prestasse un po’ attenzione! Potrei raccontargli cosa faccio la sera, che faccio tre volte il giro di casa, per chiudere il gas e la porta d’entrata. Potrebbe domandarmi che ci faccio truccata, quando spengo la luce e mi metto a dormire, che alle volte nemmeno mi spoglio, e mi lascio le calze e mi lascio le scarpe, perché se davvero l’incontrassi nel sogno, non vorrei che mi trovasse col pigiama da notte.
Saranno manie di una donna che sola, ha vissuto da sempre badando a se stessa, cercando nei dettagli di un giorno che muore, il senso del vuoto prima dell’alba. Ne ho avuti di uomini! Ogni tanto li conto, di fiati d’amore che mi scaldavano i seni, ne ho avute di bocche che mi leccavano i fianchi, i piedi le dita per esser padrona, il collo le orecchie per essere amante, ma nessuno di loro ha soddisfatto il bisogno, come ora mi sale ogni giorno alle sette, ogni sera che spero che lui mi trattenga.
“Buonasera Signorina.” Sono anni che mi chiama in quel modo, nonostante da tempo abbia passato i quaranta! Se solo pensasse di chiamarmi per nome, mi darebbe la forza almeno d’osare, almeno un sorriso ammiccante e distratto, almeno un bottone per vedere negli occhi, se il paradiso è davvero a portata di mano, in fondo alle scale che faccio ogni giorno, dentro un budello di scatole e cocci, servizi spaiati di tazzine e coltelli, Limoges e Boemia coi fiori di pesco.
Come nei film tra negozianti e commesse, tra lamenti e passioni che consumano in fretta, avidi istinti di fuoco e di carne, soffocando le urla con i baci al riparo, di mogli alla cassa e clienti noiose, che reclamano sconti come a Porta Portese. E’ un luogo romantico se l’odore che senti, ti fa pensare ad una donna che solleva una gonna, e s’abbandona al gusto di non stare in un letto, lasciandosi in dosso reggiseno e mutande, per non perdere tempo e non fare rumore. Ti fa pensare ad un uomo in giacca e cravatta che scende la lampo quel poco che basta, che spunta tra i denti il suo sesso orgoglioso, d’avere una donna che è solo commessa, che neanche un’amante sarebbe più porca, quando la vede che afferra il suo sesso, e lo guida sicura nella voglia che s’apre, che chiede e spalanca e prende la forma, adatta all’istinto che ora la preme, proprio nel punto dove escono oscuri, bisogni notturni che si calmano appena, al primo sfiorarsi di dita e di unghie.
Chissà se quest’uomo che mi saluta distratto, ha capito davvero che basterebbe poi nulla, perché la ragione non fa bene all’amore, e il sentimento non spaia servizi, di piatti limoges con i fiori di pesco. Sono pensieri cattivi di una donna che esce, ogni sera alle sette e lui non capisce, mai finora m’ha chiamato per nome, nemmeno troia e puttana se non ricordasse davvero, che mi chiamo Giovanna e sono anni che aspetto, di rimanere ferma ad ammirare il bisogno, gli occhi di un uomo che fotte una donna, e la fotte davanti e la prende di fianco, e la morde coi denti per sentire il possesso, le infila due dita nella bocca che urla, le divide le gambe per sentirne il sapore, che belle che snelle si divaricano storte, per esser capienti ad ogni frusta di sesso, ogni colpo che assesta mirando il bersaglio.
Poi si ferma insicuro e mi tappa la bocca, per un rumore sospetto per sua moglie che chiama, che vale ben oltre un sesso rubato, di fiati che muti rimangono in gola, che ora zittisce spingendomi in bocca, parole che sanno di bordello e borgata. E’ un attimo ma sembra una vita, poi torna sicuro finito il rumore, e mi dice mignotta e mi chiama commessa, ed ora pretende che urli convinta, che mai fino ad ora m’era successo, di prenderlo enorme d’ingozzarmi d’un sesso, che pigia che preme e sale e non scende, perché non c’è fine nel vuoto che sento, non c’è orgasmo che possa bastare, a farlo sentire padrone indiscusso, d’una donna che geme tra scatole e cocci, avanzi invenduti che non servono ad altro, se non al pensiero che s’è fatto una donna, senza la noia di invitarla a cena, una commessa senza spendere un soldo, in un magazzino come suite d’albergo.
Vorrei solo pregarlo che finito l’amore, non mi faccia domande perché non ci sono risposte, se come stasera non dovrò correre a casa, né suocera e figlia per guardar l’orologio, né marito che scruta la gonna sgualcita. Che mi strappi le calze se ha bisogno d’odore, di succhiarmi la pelle fino alle ossa, ma faccia attenzione a non lasciarmi indelebile, un segno qualunque che uccida il mio sogno, che mi faccia temere che il giorno che cerco, l’ho vissuto stanotte e non serve sognare. Mi dica se ha voglia e mi chieda altro tempo, mi chieda la notte mi prometta la luna, ma sappia che all’alba sparisco nel nulla, perché la luce che nasce mi ritrovi da sola, nel letto a pensare che sarà un giorno d’attesa, un giorno diverso da quelli passati.
Come oggi che credo che ci sia una sera e una notte, che posso decidere di non tornarmene a casa, aspettando quest’uomo che non ha ancora capito, che l’amore che cerco non è fatto di rose, ma fiori di pesco che cadono in pezzi, di bicchieri e stoviglie che sento distinti, mentre alzo lo sguardo ed apro l’ombrello.
 

 

 

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