Pensione Cristina

di  Liberaeva

 



Se fossi davvero una rosa dai petali grassi, se fossi davvero come tu mi vedessi, non starei qui a chiedermi la misura che manca, per essere degna di viverti accanto. Se fossi una rosa dai petali secchi, se fossi davvero quella che aspetti, non starei qui davanti allo specchio, a truccarmi la faccia per essere altro. Se fossi una rosa soltanto, non starei in questo giorno di caldo, dentro una camera al centro di Roma, che dalla finestra s’illumina viola, ultimo piano Pensione Cristina.
Se fossi davvero come mi vedi, non ci sarebbe quest’uomo disteso nel letto, che m’ammira che fuma e m’impregna i capelli, e con la mano che dondola piano, sulla parte del corpo che lo fa forte e più maschio, sulla parte del corpo che mi fa femmina bella. Se davvero lo fossi, non ci sarebbe una donna in pieno d’agosto, che suda e che porta le calze, e mostra le gambe fissando il piacere, e mostra le tette come se fossero trote, al chiosco del pesce proprio qui sotto, tra foglie di vite e mezzi limoni.
Cammino ed ancheggio dalla finestra alla porta, poi ricomincio e qualche volta mi spingo, fuori al balcone dove si vede San Pietro, e poi Monteverde le nutrie sul lago, la mia casa in mattoni e un figlio che aspetta, un padre che gioca in sala da pranzo.
Sono anni che vado di corsa, che porto con me una busta di troppo, trafelata entro e lo trovo sul letto, mi spoglio di fretta e mi rivesto leggera, quattro volte in un mese più di trenta in un anno, e puntualmente mi dice che sono un incanto, da vivere insieme da qualche parte nel mondo, e non c’è verso di fargli capire che non pretendo poi altro, se non quest’amore coatto e segreto, all’ultimo piano della Pensione Cristina.
Manteniamo distanze ma sappiamo che in fondo, se dovessimo perderci ci inseguiremmo dovunque, perché non possiamo farne più a meno, e se per caso succedesse davvero, come barboni gireremmo per strade, di giorno e di notte per un piccolo indizio, perché io so solo che si chiama Matteo, che ha una moglie e due figlie che studiano lingue, perché lui sa solo che mi chiamo Luisa, che sotto questa gonna che leggera svolazzo, c’è un mondo segreto che ogni volta riscopre, un mondo sommerso in pieno centro di Roma.
Lui era il cameriere dove andavo ogni giorno, non c’è voluto che niente per portarmi qui sopra, per farmi salire senza chiedermi altro, senza chiedersi in caso quanto tempo ci vuole, prima di invitare una donna e baciarla, e pretendere in fretta una chiave qualunque, che aprisse una stanza già calda e disfatta. Non aspettavo che questo e non m’ha pregata per niente, ha avuto solo il pregio d’averci provato, d’essere stato il primo ad avere intuito, che non occorre bussare quando una porta è socchiusa, e tu lo ringrazi perché non hai dovuto far nulla, che lasciarti guidare e salire le scale, perché a quest’ora saresti dove vanno i tuoi occhi, affacciata al balcone a guardare le nutrie.
Non ci siamo mai sfiorati in tutti questi anni, lui rimane a guardarmi disteso sul letto, ed io in piedi mi faccio ammirare, poi mi siedo sulla poltrona due metri distante, e lui mi guarda lo guardo scambiandoci in fretta, parole d’amore che sanno di brama, rimandando a domani lo scambio di mani, di toccarci la pelle come una donna normale, come un uomo che freme toccandola in fondo, perché dopo tanto non l’abbiamo mai fatto, mai l’ho sentito una volta qui dentro, mai la mia bocca è servita per non dire parole, la mia parte più vuota per accoglierlo dove, ora si scioglie da sola la voglia, il mistero di un miracolo che si ripete ogni volta, su questa poltrona dove sprofondo e m’illudo, che niente di meglio avrei potuto trovare, che nulla è più grande di questo sesso che prova, nel desiderio perenne di sentirlo più dentro.
Chissà cosa penserebbe mio marito, se sapesse che incontro un uomo dopo le cinque, che mi spoglio e cammino per essere oggetto, che mi vesto e mi trucco per lasciarlo sognare. Che direbbe se sapesse che neanche lo sfioro, che nemmeno mi tocca le gambe ed il seno, mentre lui quando il bimbo già dorme, mi stringe mi fiuta e pesante m’affonda, come un cercatore di oro che ha trovato la vena, come un cliente alle due di mattina. Se sapesse davvero che mi consumo la mente, ed il sesso che freme con queste due mani, guardata da un uomo che mi tiene in disparte, estasiata dal brivido di rimandare a domani, alla prossima volta quel sesso che bramo. E davvero mi fotte come nessuno ha mai fatto, davvero mi penetra tra la mente e le ossa, tra queste gambe che offro come se fossero culla, che apro che chiudo per simulare la voglia, per essere pronta se lui decidesse.
Chi glielo dice a quelle signore, che passeggiano di fronte alla Pensione Cristina, e sperano che un uomo le inviti a salire, per l’unico fine di un posto al riparo, da occhi indiscreti di marito e di figli, ed abbandonarsi in un letto e chiudere gli occhi, e sentirselo sopra serrare la bocca, e sentirselo dentro duro che spinge, invece a due metri io m’appago lo stesso, col desidero mai domo di una prossima volta, con la purezza d’adesso che non ho per niente tradito, chi ora m’aspetta e gioca col bimbo, e gli dice contento di guardare le nutrie, perché tra poco torna la mamma, e torna sua moglie vergine e intatta, dall’odore di maschio e dai sensi di colpa, che si sgranano interi su questa poltrona.
Ora m’affanno e s’affanna distante, avidi di smania ci guardiamo negli occhi, conosciamo a memoria il momento preciso, il respiro bollente quando sale la voglia, e sincrona esce liquida a fiotti, e magica ci lascia un secondo a pensare. Ma è solo un momento poi m’alzo e mi spoglio, mi rimetto i vestiti e riempio la busta, lo saluto per la prossima volta, e scappo fuggo tra i semafori rossi, tra i tramonti più gialli che cadono in fretta, dentro un buco di vuoto d’insofferenza d’amore, che mi lascia incompiute le sensazioni che provo, come se una donna non avesse le tette, o un uomo la voglia d’assaggiarne il sapore, proprio come l’amore che faccio lì dentro, con il vuoto che lascio nel mio sesso che chiede, nelle nutrie che ora hanno preso già sonno. Penso a mio figlio che m’aspetta al balcone, che guarda lontano indica e chiama, ogni figura che ha le sembianze di mamma, ma poi deluso ritorna a giocare, mentre sua madre ci crede davvero, all’ultimo piano mentre bussa alla porta, che la prossima volta quando cade il tramonto, sarà con suo figlio affacciata al balcone, e mentre lui guarda felice le nutrie, lei scorge lontano un’insegna che chiama, che grida ed invano l’aspetta, un punto di viola che intermittente riflette: ultimo piano Pensione Cristina.
 

 

 

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