Antonia
di Luna
Sotto i morbidi capelli spettinati di un pulcino, gli occhi di calda castagna di
Antonia restavano spesso abbassati. Nel suo piccolo corpo, le curve sbocciavano
languide, una donna poco cresciuta, infantili le labbra rosse e arcuate, dove la
lingua correva rapida. Sempre umide, sempre brillanti.
Non le assomigliavo, e avrei voluto. Rubarle quell’aria innocente e perversa,
l’aspetto tranquillo della bambina per bene, io così scura e decisa e troppo
adulta, io occhi felini che tagliano e attraversano. Lei avrebbe voluto esser
me, diceva, amava le mie mani lunghe e sottili, le labbra carnose, la sfida che
porto tuttora nei gesti.
Ci incontrammo per caso e subito restammo incantate di specchiarci al contrario
in noi stesse. A sedici anni succede. Antonia aveva paura delle bambole e
mangiava farina di nascosto, chiusa nella dispensa: era l’amante di un uomo
gigantesco, che imparai ad odiare subito, in ogni lungo minuto in cui la vedevo
baciarlo, aggrappata a lui, quasi sollevata da terra.
Quando la scuola era di troppo, restavamo da lei, al mattino.
La trovavo sempre nelle sue camicie da notte morbide, più spettinata che mai.
Nel letto caldo di lei scivolavo vestita, respirando l’odore della notte nella
sua nuca, le braccia intorno alla vita incredibilmente sottile sotto il seno
tondo. Poi lei chiedeva le mie mani e loro scendevano, sollevando la flanella
morbida, alla ricerca della pelle liscia, della seta fra le gambe bianche,
ancora più soave dei capelli che mi accarezzavano il viso. In silenzio, si
inarcava contro di me, svelta, una piccola gatta in calore, che poche carezze
bastavano a calmare.
Io restavo stordita, il suo profumo sulle mani per tutto il giorno, annusato
tristemente mentre lei incontrava quell’uomo. Lo immaginavo mentre la possedeva,
straziando la carne delicata, mossa dalla sua furia. Immaginavo lei cedere,
soffice come la flanella delle sue camicie, e sciogliersi sotto di lui,
uccellino trafitto da un ramo feroce.
Respiravo appena per il dolore.
Molti anni dopo, venne a cercarmi, lei in fuga da quell’amante, io già fuggita,
tempo addietro, dalla noia, dal disagio di me stessa. Sposa bambina di un uomo
senza vita sua, cercavo la vita altrove. Lui la succhiava dai miei racconti
bugiardi, adorando ogni parola.
Quando Antonia arrivò trafelata, umida di una notte di pioggia, portò scompiglio
ovunque, come nei suoi tormentati capelli. Le feci conoscere i miei amici,
divisi con lei letti diversi, uomini diversi. I miei amanti, stregati di lei, si
innamoravano nuovamente di me insieme a lei. Antonia si lasciava usare con
pazienza, ma cercava me sola, e io la guidavo attraverso lenzuola sempre più
disfatte, intrise. Ancora tiepide, fuggivamo ridendo nelle strade pericolose e
pulsanti di rabbia che si attorcigliavano sconnesse intorno al porto, tornando
all'alba da chi aspettava le nostre invenzioni dormendo.
Una notte, regalai all’uomo cieco la verità non richiesta, spingendogli Antonia
nel letto. Mentre restavo a guardare, mentre nuovamente quel dolore antico mi
sbocciava nel petto oppresso, seppi che non me l’avrebbero perdonato mai. Non
lei, non lui. Usando Antonia, mi disfeci dell’altro.
Tornammo in fuga, come se avessimo vinto.
La persi poi subito, senza cercarla, senza ritrovarla mai.