Profumo

di  Mad Fem

 


Prologo:   La Password


La grande stanza circolare era rivestita di lamelle di legno di ciliegio.
Il pavimento scricchiolava appena sotto i piedi, ma era tiepido, come l’atmosfera che si respirava lì dentro.
Le panche basse correvano tutt’attorno al perimetro delle pareti, intervallate soltanto da tre piccole porte.
La luce già spenta del tramonto filtrava dai lucernari, ma il buio era già lì ad affidare il compito di rischiarare alle fiamme.
Ciò che rendeva unico quel luogo era il camino ad isola, proprio al centro con la grande cappa d’acciaio che scendeva fin quasi a terra.
La luce rossastra dei legni incandescenti proiettata sugli specchi creava ombre.
Le stesse variazioni che si susseguivano veloci sul volto della donna seduta nella poltrona vicino al fuoco.
Profumo. C’era un aroma delicato, ma persistente. Il tepore esaltava la nota fresca ed umida di neve della lavanda ancora acerba, lasciata, come dimenticata, qui e là, sul pavimento.
Nessuna aveva le scarpe, non sarebbe stato in sintonia con l’ambiente.
Era piacevole appoggiarsi agli strapuntini ed affondare i piedi sulla lana ruvida di quei tappeti un po’ irregolari, fatti a mano.
“Lei” teneva in mano quello che pareva essere un libro aperto: in effetti, le pagine erano tutte bianche, ancora da scrivere.
La storia cominciava ora.
A lei era stato affidato il compito di narrare, prima, e scrivere, poi, quello che sarebbe successo da ora in avanti.
Una specie di gioco, un labirinto da percorrere insieme, senza schemi prestabiliti.
Mettersi in discussione, ma anche barare; aprire le porte e vedere cosa c’era dentro.
Due giovani donne si erano, allora, alzate.
Erano andate al centro della stanza, avevano scaldato le mani al calore delle braci ardenti e, dopo aver sussurrato qualche parola alla signora, si erano avviate verso la porta di sinistra.
La maniglia si abbassava, ma l’uscio non si poteva aprire.
Avevano provato entrambe, anche insieme, sovrapponendo le loro mani, senza risultato.
Nella penombra non si erano accorte della piccola tastiera sulla quale comporre una password.
 


Profumo. C’era un aroma delicato, ma persistente.
I diffusori con l’olio alla lavanda, erano accesi qui e là sui piccoli tavoli di legno.
Mazzi di fiori ancora acerbi, finemente acconciati, appoggiati su panche di giunco, vi si confondevano, quasi, con il loro verde discreto.
Lei era sdraiata su di una chaise longue, nella veranda.
Lui era seduto lì vicino e l’accarezzava dolcemente con le labbra appena dischiuse.
Entrambi indossavano un morbido accappatoio.
Piccoli baci sulla pelle umida, vicini, sempre più vicini.
Forse era il nirvana, o, comunque, qualcosa che vi assomigliava molto.
Era quasi un arcobaleno di sensazioni e colori.
La bella bocca risaliva piano le cosce.
In quell’attesa, i pensieri colorati arrivavano, uno dopo l’altro.
Ripensava a quei giorni trascorsi in una dimensione diversa, forse non lì.
La lingua s’insinuava piano.
Bianco, il colore delle tenerezze a fior di pelle, lo sfiorarsi delle ginocchia sotto il tavolino del vagone.
Un calore soffuso.
Le labbra così maschie contornate appena dalla corta barba succhiavano il piccolo bocciolo.
Grigio, come la pioggia che li aveva spinti dentro il portone di una casa sconosciuta, di una città qualsiasi, la prima stazione utile per scendere.
La lingua si faceva strada, senza ostacoli.
Azzurro come il cielo sopra di loro sulla panchina del parco dove l’aveva accarezzata, come adesso.
Mugolii serrati.
Blu come la notte che li aveva sorpresi sulla riva del lago in un languido bacio intimamente osceno, lungo ed avvolgente, con la sensazione di avere mille occhi attorno.
Gridolini ad accompagnare quel fantastico dito medio, un centimetro quadrato di pelle così sapiente che mai l’avrebbe dimenticato.
Verde come i prati tutt’attorno al taxi che filava via dalla città, per strade sterrate, accompagnando in modo naturale la sua cavalcata, sul sedile posteriore.
Sussulti, spasmi, gocce di sudore, un rantolo gioioso ed appagante.
Abbagliante come il flash della fotocamera che l’aveva immortalata in uno di questi momenti, con le gambe aperte, rigide di piacere non ancora del tutto liberato.
L’aveva attirato a sé, bocca contro bocca e subito l’aveva cercato e trovato, turgido, caldo, morbido.
Giallo come il vestito di seta dai mille bottoncini, aperto fino all’inguine sui riccioli del pube orgogliosamente mostrati al ragazzo del bar.
Ecco, ne aveva preso possesso, ma tastarlo non bastava, voleva assaporarlo tutto, leccarlo e farsi accarezzare il palato.
Arancione come il sole di mezzogiorno che entrava dalla finestra trovandola ancora impiastricciata di miele, rossa di eccitazione e di baci.
Stava affondando piano, si ritraeva, affondava con foga, roteava la lingua, la insinuava sotto la pelle, succhiava la punta e poi di nuovo affondava in un susseguirsi di esclamazioni quasi soffocate.
Rosso come la foga della lussuria nei tanti amplessi brucianti consumati sul tavolo della cucina.
La fine stava velocemente andando loro incontro, desiderava il suo sapore da ricordare, voleva che non dimenticasse mai la sua bocca e che ritornasse a cercarla.
Indaco come il tramonto che entrava nel bagno chiaro ed offuscava i suoi occhi, quando la prendeva così forte da farla urlare, appoggiata al lavandino.
Leccava quell’asta con una familiarità così avvolgente e totale, come se fosse stata l’ultima volta.

Violetto come la notte che arrivava portando con sé compagni di quel viaggio erotico, effimeri e senza volto, esistenti solo in funzione dei loro attributi.
Lo stava portando al punto di non ritorno, lo sentiva nella gola e sulle labbra, nella mano che ora stringeva, ora violava.
Nero come il foulard sugli occhi che esasperava gli odori del sesso e dell’olio caldo con il quale veniva accarezzata fino allo sfinimento.
Un suono roco e morbido, un caldo aroma di maschio, un buon sapore di puro godimento.
Arcobaleno come la certezza che si sarebbero rivisti.
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