Lo spazio magico

di  Mariemonique

 

 

  Perché volevo raggiungere quell’uomo? Perché quel breve viaggio? Perché stavo facendo tutto questo? Decisi di non pensare e di non farmi domande: era il sistema migliore, il più semplice e il più sicuro.
Lo frequentavo ormai da diversi mesi, senza una vera regolarità. Lui mi piaceva; dopo tanto tempo mi sentivo coinvolta, finalmente qualcuno mi prendeva davvero, mi sentivo leggera, senza età e un po’ stupida. “Forse ha ragione a darmi della cretina” pensai. Volevo accettare quella sfida, abbandonarmi alla situazione, agire senza pensare, come una piuma svolazzante in un vortice di polvere alimentato da un vento leggero.Ripassai le istruzioni che mi aveva dato. Per la prima volta non ci saremmo visti al solito posto. Sapevo che mi voleva motivata, decisa a seguirlo nelle sue labirintiche fantasie, a percorrere la sua misteriosa mappa mentale. Ero preoccupata, non tanto dalla paura di ciò che poteva accadermi perché avevo imparato quanto bello fosse trasformarsi in automa per superarla. Quello che mi spaventava davvero, molto oltre la durezza di ciò che mi aspettava, era la consapevolezza di quanto, poco a poco, stavo dimostrando di essere disposta ad accettare.
Scesi dal treno, cambiai due volte autobus e alla fine arrivai dove lui voleva. La zona era periferica, deprimente, così lontana dalla ricca provincia in cui vivevo. Mi soffermai nuovamente a domandarmi che cosa mi avesse portato lì. Piccoli pensieri per distogliere la mente da quello che stavo facendo. “Non voglio che per te sia facile”, mi aveva spesso ripetuto e certo quello che aveva architettato per me facile non era. A fatica, perdendomi più volte tra quei palazzi sconosciuti e inquietanti, riuscii finalmente trovare l’indirizzo. Suonai il campanello e quando la porta si aprì con uno scatto secco, l’angoscia di cosa e chi mi aspettasse al di là di essa mi prese alla gola. Mi tornarono in mente le sue ripetute minacce di farmi giocare con altri, di mettermi al servizio dei suoi amici, o, ancor peggio, di qualche sua amica. Ero terrorizzata e allo stesso tempo eccitata dall’idea di veder appagato quel mal celato desiderio di essere violata che spesso si insinuava in quella mia “testa marcia”. Riuscire finalmente ad essere sua, totalmente sua, meno di nulla, ancor meno degna delle attenzioni che distrattamente rivolgeva al suo gatto, ai suoi oggetti personali. L’atrio era buio e spoglio, un leggero odore di muffa pervadeva l’aria calda e umida. “Piantala di pensare! A questo punto tanto vale fare quello per cui sei venuta”, mi dissi “Sei qui per obbedire, andiamo fino in fondo”. Mi spogliai velocemente e rimasi nuda ad aspettare come mi aveva ordinato. Ha sempre saputo giocare bene con la mia paura! Non sapevo nemmeno se lo desideravo o cosa desiderassi realmente. Avevo solo fifa e la mia vista era incerta, un po’ per l’oscurità molto perché indebolita e confusa dal timore…Come avrei voluto vedere i miei occhi di bestia spaventata, sentire la puzza d’ansia e di adrenalina…
Il tempo passava, poco a poco smisi di calcolare da quanto ero là nuda ad aspettare All’improvviso era sopra di me; non potevo vederlo, inginocchiata com’ero con la testa china e capelli che mi coprivano il volto, quasi a proteggerlo.
Non potevo vederlo, ma sentivo distintamente i suoi occhi azzurri, liquidi e distanti che mi perforavano, mi scrutavano, violavano ogni mia intimità. Senza una parola mi trascinò con rudezza a quattro zampe nella camera attigua illuminata dalla calda luce di alcune candele . Percepii fugacemente l’immagine di un corpo femminile riflesso in una parete di specchi. Nonostante il mio turbamento mi soffermai a pensare:”Sono io quel corpo” e la mia forma riflessa mi trasmise una leggera onda di piacere narcisistico, a volte il mio corpo mi piace tanto! “Sei eccitata, vero signora?” mi sussurrò con finta dolcezza, per poi proseguire urlando riportandomi alla realtà di ciò che mi aspettava. “Guardati! Solo una troia come te può venire fin qui per farsi usare a mio piacere!”. Era l’inizio del rituale: prima gli schiaffi, abbastanza forti da lasciarmi stordita, poi il conosciuto rosario di prevaricazioni. Mi lasciai sfuggire solo qualche gemito soffocato. Era inutile lamentarsi, sapevo che non si sarebbe impietosito anzi i miei strepiti più che compiacerlo lo infastidivano e anche questa volta, finì per zittirmi, come era solito, con un imperioso cenno del capo. Non toccò mai il mio corpo se non per martoriarlo, nessuna attenzione alla donna, nessuna carezza sensuale, sfiorava a mala pena la mia pelle, i miei capezzoli solo per infliggere dolore. ”Eppure so di avere un bel seno, posso piacergli … Non mi tocca? Nemmeno per scherno? Non cerca di godere?” mi chiedevo, sentendomi sempre più umiliata nella mia femminilità. La femminilità di una donna che in altre circostanze sapeva divertirsi a sedurre. Quella strana sensazione mi disorientò ulteriormente e forse, infondo, non mi dispiacque. La mia testa si stava svuotando progressivamente di ogni pensiero, oscillando in una specie di limbo vago fatto d’immagini frammentate.
Avevo la bocca riarsa e secca per la sete, lui se ne accorse e mi portò alle labbra un bicchiere d’acqua che mandai giù avidamente; fu un attimo d’intensa dolcezza: quanto ho apprezzato quel gesto che rispondeva a un bisogno puro, elementare, cullandomi nell’illusione di essere da lui accudita. Non era che un’illusione, i nostri successivi incontri me lo avrebbero confermato. Mi sollevò bruscamente il capo, obbligandomi a guardarlo bene in faccia e iniziò a sputarmi addosso. Certo poteva farlo, e io, piccolo essere nelle sue mani, non provai più nulla, non riuscendo a districarmi in quel groviglio interiore emozioni dissonanti. Cercai di mettere in atto antiche strategie di difesa, apprese fin dalla primissima infanzia per sopportare ciò che stava diventando insopportabile: diventare invisibile, tacitare i sensi, non sentire più nulla, abbandonarmi completamente, aspettare la fine.
La sua presenza arrogante mi eccitava oltre ogni pudore, sentivo il mio sesso completamente fradicio, segno inequivocabile del desiderio e della passione che sempre scatena in me l’essere nelle sue mani. “Puttana, ora te la asciugo io con la frusta!” mi gridò nelle orecchie. Dopo avermi legato le gambe, non so come, ben aperte, prese a colpirmi sul sesso, sulle labbra, sul clitoride. Il bruciore era acuto, la pelle, sottile e delicata, così martoriata da non poter resistere oltre per il dolore. Cercai di proteggermi con una mano, sapendo che era inutile implorarlo di smettere, con l’unico risultato di farmi legare anche le mani, e restando così completamente esposta ai suoi colpi implacabili. Mi vedevo come dal di fuori mentre combattevo una lotta vana, dimenandomi inutilmente con tutte le forze. Alla fine cominciai ad abbandonarmi rassegnata e poco a poco al dolore intenso si sostituì un sottile piacere, uno stato di benessere, un fluttuare nel vuoto, poi tutto fu sublime, travolgente, come se gli atomi, e le molecole del mio corpo si fossero disgregati e fossero entrati in contatto con il cielo. Era Lui il mio cielo!
Si staccò da me di qualche passo, lasciandomi accasciata sul pavimento, in uno stato di calma profonda, rilassata. Trascorse del tempo, ma la parola tempo aveva perso il suo significato abituale. Non mi curai di lui, assorta nel mio incontaminato egoismo. Avvertii quasi un bisogno di dormire in quello stato di grazia: “Sono stanca, ho sonno” bisbigliai sbadigliando. “Hai sonno? Stupida cagna, vieni qua!” lo sentii irritato pronunciando questa frase. La sua mano mi tirò i capelli sollevandomi e riprese a giocare con me accanendosi sui miei capezzoli. Ero stanca, dolorante e mal sopportavo quella nuova tortura. In quel momento lo odiai, non potevo che detestarlo per quello che mi stava facendo. ”Perché fai quella faccia? Vuoi farmi vedere quanto sei brava a sopportare il dolore?” Una sferzata sui reni come ricompensa alla mia vana protesta fu solo l’inizio di un'altra lunga serie di torture…Mi sentii completamente sua, desiderosa di prostrarmi ai suoi piedi, di soffocare il viso sul suo petto asciutto, di essere accolta, di baciarlo con foga, di ricevere qualche carezza ringraziandolo di tante attenzioni, di tutta quella sua splendida energia...
Lo squillo di un telefono ci annunciò che purtroppo il pomeriggio stava per finire: “E’ tardi, devi andare a casa.” Per lui non sembrava così importante tenermi stretta a sé, cercare la mia bocca, condividere un briciolo d’intimità, non eravamo due amanti che hanno appena potuto toccarsi nell’anima. Tuttavia, senza saperlo, aveva toccato le corde più segrete del mio io, aveva appagato il mio masochismo, facendomi rivivere in quello spazio magico un antico e stagnante disprezzo, che mi perseguita da sempre.
Non restava che rivestirmi. Mi indicò un piccolo bagno che mi parve trascurato e inutilizzato da tempo. Mi sistemai i capelli e mi pulii il viso dal trucco colato sotto gli occhi, poi tornai da lui e lo vidi indaffarato nel sistemare i suoi giocattoli e il locale. Solo quando finalmente lo baciai sulla bocca, mi accorsi di quanto fosse sudato e affaticato. “Ciao, grazie. Ci sentiamo presto.”, bisbigliai.“Grazie a te, quando vuoi” mi rispose sorridendo. Saluti distanti, poche parole. Fuori percepii con fastidio l’aria che si era fatta fresca e le luci della sera, mentre, ripercorrendo il tragitto dell’andata, mi riappropriavo gradatamente, con la composta arte di un funambolo, del mio equilibrio infranto.