E così sia

di  Marthita

 



Te li senti appiccicati dietro. Giù dove finisce la cintura e comincia la pelle abbronzata, con le fossette dalla sfumatura più marrone. Che mentre cammini sfuma e sfuma ancora in qualcosa che solo loro vedono. E prova a voltarti di colpo. Sorridono persino. Incollati alle tue chiappe, che manco si accorgono di urtare la gente. Ti seguono tipo cagnolino. Ho provato. Giro a destra. Giro a sinistra. Uno scatto e attraverso la strada . Magari col rosso. E loro sempre dietro. Loro. Lui. Dico loro perché hanno tutti quel modo di scodinzolarti appresso. Mica hai bisogno del guinzaglio. Non li smarchi facile.
Insomma. Via Roma ore dodici. Sole da impazzire. Caldo soffocante. Niente male per settembre.
“Che abbronzatura…”
Dai. Ma no.
“Sei stata al mare?”
Bene, adesso guardami le tette. Maglietta sottile che manco una pelle d’uovo.
“Bella davanti e dietro. Da non decidermi.”dice.
“Se sei indeciso…”rispondo.
Aumento l’andatura.
“So cosa voglio, stai tranquilla.”
“Assì? E cosa vuoi?”
“Be’, intanto capire cos’hai appeso all’ombelico…”
Mi fermo. Sorride chinandosi un po’a guardare da vicino il pesce azzurro.
“Ti piace?”chiedo.
“Mi piace il tuo pancino. Chissà com’è morbido…”
Mica lo so come mi vengono certe cose. Comunque. Mi blocco, sai in quegli androni che sembrano caverne tanto sono freschi e bui anche d’estate, coi vasi enormi di fogliaggio verde.
“Vedere si può. Toccare e usare, si paga.”
Apre la bocca. Ebete. “Ma che sei, una…”
“E tu che sei? Morto di fame?”
Poi via, sotto il sole di Piazza S. Carlo, proprio in mezzo, dove tutti mi guardano passare e gli uomini un’occhiata la tirano.
“Andiamo in un bar a bere qualcosa, ti va?”domanda.
“Non ho tempo da perdere.”
“Dai, voglio sapere qualcosa di te. Studi o lavori?”
“Al Torino.”
Tanto vale trattarsi al meglio. Ci sta, certo che ci sta.
“Che caldo…”sbuffo sollevando i capelli con le mani. Così la maglietta sale sale sale e lui vede vede vede.
Mi è incollato al fianco, continua a urtare chi passa e manco se ne accorge. No, se ne frega.
Seduta con l’aperitivo davanti, finalmente lo osservo. Non male, il tipo. Vecchiotto, ma non male. Sarà sui trenta, mica di meno. Gongola fissandomi.
“Allora? Cosa mi dici?”chiede.
“Dipende da quel che vuoi.”
Smette di sorridere. “Stai scherzando?”
“Credi che l’università sia gratis?”
“Cosa studi?”
“Mi iscrivo a Lingue Orientali.”
Mi scruta serio serio. Non sa se dico davvero.
“Vero.”lo rassicuro.
“Bello.”
“Bello e costoso.”
Fissa il chiodo che ho sotto il labbro.
“Non lo svito nemmeno se ti dà noia all’uccello.”dico.
Ride. “Dici davvero…?”
“Davvero. E non ho tempo da perdere.”
“Almeno il tuo nome posso saperlo?”
”Agata.”
“Bello.”
“Bello di qua, bello di là e siamo ancora qui a parlare.”
“Stasera…”
“Noooo…Non se ne parla. Saluti.”
E mi alzo.
“Ma…dico, hai fretta?”
Però mi segue, e anche di corsa. Riesce a raggiungermi molto più avanti, che ormai credevo di averlo seminato. Via Barbaroux, dove la città sembra ricredersi e scivola in angoli d’ombra morbosa. Qui, di notte, gli uomini seguono la scia delle braci di sigarette fino a stanze con le tendine tirate, su per scale che tutta la notte sono salite e discese senza sosta. Qui, in pieno giorno, è un normale viavai di donne con uomini dagli occhi attaccati alla pelle, per capire se valgono il prezzo pattuito. Qui devi fare attenzione, ma non puoi permetterti troppa paura. Nessuna esitazione e in poco tempo sei fuori. Fuori da questi androni con nicchie profonde, con l’odore di gente che passa veloce, che soltanto pochi minuti si perde in un sogno a occhi aperti.
Il primo pianerottolo è già occupato da una coppia che si sbatte contro il muro e neanche ci guarda. Al secondo, mi fermo.
“Ma…qui?”dice piano.
“Qui.”
Mi tolgo la maglia scrollando i capelli e resto ad attendere. I suoi occhi sono calamitati sul mio seno. Allora lo nascondo con due ciocche.
“E così sia.”dice.
Prende il portafogli e me lo tende, aperto. Mi servo veloce, senza discrezione.
“Sei cara…”
“Li valgo.”rispondo in un soffio.
Mi abbassa i pantaloni, spingendomi contro la ringhiera, voltandomi come una trottola, costringendomi ad appoggiarmi al mancorrente di legno. Mi entra da dietro, e io serro la bocca per non gridare. Mica te lo puoi permettere di fare rumore. La gente che passa, là sotto, là fuori, non lo deve sapere che tu sei qui a farti scopare da uno qualunque, un po’ per gioco e un po’ sul serio, come fosse un lavoro.
Anche lui è silenzioso e solo alla fine gli scappa un sospiro, un urlo che soffoca sulla mia nuca. Rimango sotto il suo peso a vagare con lo sguardo le scale che salgono o scendono, come si vuole.
Appena mi lascia, mi rivesto in fretta e corro giù. Giù da quelle scale di vecchia graniglia, col ferro battuto che risuona ai miei passi pesanti. Via da quell’ombra che rimbomba di voci. Via da quell’aria di soffoco. Fuori. Dove il mezzogiorno risplende nel caldo di una giornata magnifica d’inizio settembre.