Per te
di Marthita
Chissà se mi pensi, in questo scorcio d’estate, con l’aria frizzante preannuncio
d’autunno e di fine vacanze.
Chissà se ricordi qualcosa di me, oltre un neo sul seno e quel piercing
all’ombelico, che sfioravi col dito, aprendo piano le labbra in un sorriso.
Chissà se ci credi, a quello che ti ho detto, che sei stato il primo e con te
l’ho voluto fin da subito, fin da quando ti ho visto.
E mi dico che non dovrei più pensarci, che è una stagione trascorsa, passata
davvero, come questa che ancora soffia vento caldo sul mare, mentre cerco
all’orizzonte una vela o un colore più cupo e il presagio di qualcosa che non
so, che verrà e mi troverà qui, la mano sugli occhi, a pararmi dal sole.
Mi dico che è stato bello e che ormai è finito, perché non doveva nemmeno
iniziare e al ritorno sarà un non conoscerci, un non cercarci.
Poi penso alle ore rubate e nascoste. Ai baci veloci e impazienti. Alle mani
nervose, tremanti. Agli occhi chiusi. Ai sospiri violenti e improvvisi. E quella
voglia stupenda che avevo di te, correndo sotto la pioggia, verso una porta
spalancata per me. E tu dietro, in attesa, le braccia già pronte a stringere. E
confondermi.
Io, non più sicura di me.
Tu, con uno sguardo diverso.
Noi, a scoprire l’incanto di un sogno ad occhi aperti.
Ladri. Abbiamo rubato a larghe mani. Senza pudore, senza pensare, senza timori.
Giornate bugiarde tutte per noi. Una gita rinviata. Le lezioni sospese. E quante
altre bugie. Buttandoci tutto alle spalle, con l’incoscienza di una frenesia che
sapeva di passione.
Fuggivamo dalla vita, dicendo che la vita eravamo noi.
Respiravo sul tuo corpo, appoggiando la fronte sul battito del cuore, profondo.
Tu sai cosa mi faceva impazzire. Le tue mani sui miei fianchi, in quella
penombra di tende azzurre e luce soffocata. E i suoni lontani, come da un altro
mondo.
Cosa sentivo, lo so soltanto io. Ho tentato di spiegartelo, ma tu sorridevi,
accarezzandomi i capelli. Forse non credevi, forse non mi hai mai creduto.
Sentivo con la pelle. I tuoi pensieri. Entravano in me. Si trasformavano in
brividi, lì nella schiena, scendevano a zig zag, giù giù giù…E poi non capivo
nemmeno io. Tutta la mia pelle fremeva. Io vibravo. Mi tenevo a te, avevo paura
di cadere. Non avevo più gambe, non avevo più corpo. Io mi scioglievo nelle tue
braccia, e c’era soltanto una parte di me, che esisteva. Dove tu entravi. E ti
muovevi. E non sentivo nient’altro. E non pensavo. E non ero altro, nient’altro
che quella parte in cui tu affondavi. Esplodevi. E poi ti ritiravi, lasciandomi
sola. Con di nuovo il mio corpo pesante. Di nuovo gambe e braccia. E i capelli
appiccicati al viso, alla schiena. E gocce di sudore che scivolavano via in
lacrime tiepide.
Come mi sento adesso. Vuota. Non so definire in altro modo questo corpo pesante.
Come il guscio di una conchiglia. Vuoto. Anche in me c’è l’eco di parole , di
risate, di sussurri.
Promesse no, non ce ne siamo mai fatte. Era un accordo silenzioso. Sapevamo che
il nostro tempo era limitato. E stava per finire.
Perché la vita, alla fine, ci ha ingoiati. Era lì ad aspettarci, come una bocca
larga e paziente. Ci ha divorati. Senza pietà. Senza che opponessimo resistenza.
Ma chissà se mi pensi, nello squarcio della notte che getta a mare le stelle
come schegge di sogni finiti. Ormai inutili.
Chissà se ci credi, se dico che ho stretto la mano così forte da farmi male. Da
trovare al risveglio una goccia di sangue, che ho leccato golosa e un po’
triste, sentendo il sapore di un sogno lontano.