Senza parole
di Messalina Serafica
Ti piace esser provocato. Questo, ormai, dopo due
ore di crocevia di sguardi durante un meeting noioso e di pochi
concetti, mi è chiaro e lampante. E chissà perché non mi stupisco,
quando il lampeggio del cellulare silenzioso mi avverte che la nostra
comunicazione visiva è divenuta ora anche verbale, perché mi comunichi
con un sms che vorresti allietare la tua cena con la mia presenza.
Istintivamente ti rimbalzo la risposta al di là del tavolo della sala
riunioni, rispondendoti di botto con un “ci sarò”, che ti fa alzare il
sopracciglio con un moto di soddisfazione. Ore 20,10, tanto per non essere puntualissima. Non voglio darti l’impressione di scalpitare, quando in effetti ho parcheggiato i miei tacchi fuori dalla stanza per 5 minuti, rendendomi conto di essere troppo puntuale. Non ci posso fare niente, lo sono. Sono una puntuale e precisa, ma in questo caso non lo ritengo una dote, quindi lascio scorrere i minuti e gli ascensori davanti a me, attendendo per un po’ quello successivo, che dopo 5 o 6 rifiutati, arriva. Ci entro, e percorro la discesa, atterrando nella hall. Dove ti scorgo comodamente in attesa su di un divanetto d’angolo, intento nella lettura del quotidiano. E, come se mi sentissi arrivare, alzi lo sguardo, e sorridi. Con un sorriso che mi sento addosso, sulla pelle, che mi calza perfettamente come una guaina invisibile ed aderentissima, ed istintivamente rilasso collo e nuca in attesa di accogliere il tuo bacio di benvenuto sulla guancia, che avviene mentre morbidamente mi appoggi le mani sui fianchi, trattenendomi per un istante. Un istante fatale, nel quale ti annuso, registrandoti nel mio archivio sensoriale sotto la cartella: buono. Anzi, buonissimo. “Ho l’auto parcheggiata qui fuori, andiamo?” mi dici, risvegliandomi dal lieve torpore che si è impossessato di me. Come no, in questo esatto momento verrei con te ovunque, basta che tu me lo chieda. E ti seguo. Il tragitto verso il ristorante è breve, poche vie traverse e trafficate durante le quali la musica dell’autoradio mi distrae. Ecco, da ora in poi, ogni volta che sentirò questa canzone, mi ricorderò di questo breve viaggio con te, che mi racconti di quello che è successo dopo il meeting, di cosa ti hanno proposto e di chi hai incontrato. Il ristorante è circondato da un bel boschetto, sapientemente illuminato da lampade a terreno, che scompaiono tra l’erba tagliata a dovere. Il tavolo riservato ci attende, non vedo l’ora di sedermi: le scarpe che indosso, come al solito, mi stanno torturando. Ma sono così belle, e non lo ammetterò mai di star più comoda senza. Un lieve imbarazzo mi coglie, pensando all’argomento da trattare per non cadere nel silenzio impacciato che normalmente segue la scelta dal menù. La mia parlantina sciolta mi viene provvidenzialmente in aiuto, e mentre ti sciorino una serie di concetti, tu mi guardi, sorridendo lievemente. Anzi, non mi guardi: in realtà mi stai leggendo. Sento le mie pagine rigirarsi dentro di me, al tocco delle tue dita. Introduzione, indice, testo, conclusione. Hai visto tutto, lo sento. E la prima scarpa abbandona il piede destro. L’abbandona così furtivamente, da costringermi a palpare il tappeto col piede nudo alla sua ricerca, invana. La cercherò dopo, mi riprometto. Cerca di concentrati sul filetto, ora, e non fissarti sul fatto che ti stia guardando in questo modo. Impossibile. Impossibile distogliere lo sguardo dai tuoi occhi che seguono il percorso dal piatto alla mia bocca della forchetta, carica di carne succulenta, fino al suo scomparire all’interno delle mie labbra. Non riesco a deglutire. Un sorso di vino a facilitarmi il compito, agevola anche il suo, di osservatore: il liquido rosso scivola velocemente scomparendo in me, e riscaldandomi come fuoco capillare, sciogliendomi lingua e sensi. “Sono mesi che aspetto questo momento”, mi dici senza distogliere lo sguardo. “Non hai idea di quante cose io abbia immaginato, di te e su di te”. Non oso immaginare, in effetti. Anzi, voglio immaginare, tutto. “E cosa avresti immaginato, di me? Dai, sentiamo!” ti incito, provocatoriamente. Non attendevi altro. “Ti ho immaginata proprio vestita così, con una camicetta bianca, ed un tubino nero al ginocchio. Ho immaginato le tue gambe velate dalla tovaglia, dalla quale si intravede lievemente la bordura del reggicalze. Perché, ne sono sicuro, lo stai indossando”. Un fremito mi percorre la schiena. Mi pare di esser stata radiografata. Ma non sono paga, ti incito a continuare. “Hai un reggiseno delizioso, di quelli che si slacciano sul davanti, per aumentare l’effetto sorpresa al momento dell’apertura dei ganci contenitivi, che liberino i seni, che mi immagino pieni e stupendi”. Sono scioccata. Non so che dire, ti guardo semplicemente con aria interrogativa, chiedendomi come tu faccia a sapere. Forse stai soltanto tirando ad indovinare, con una mira eccezionale. Ma non ho ancora udito il bello, che sta per arrivare quando mi dici: “Hai capezzoli reattivi, di un colore nocciola chiaro, proporzionati. Che in questo momento stanno spingendo il tessuto del reggiseno, eccitati alle mie parole”. Basta, non posso sentire oltre. Non voglio. “Gradirei un dolce”, ti dico, mentre il carrello si avvicina sospinto dal cameriere. Sono turbata. Non riesco a concentrarmi sulla scelta. Penso ai miei capezzoli eretti, cercando disperatamente di ritrarli in una manovra impossibile per non darti ragione. Che sortisce l’effetto contrario, imbarazzandomi ulteriormente, per quanto possibile. “Per me fragole senza panna, grazie” E la prima cucchiaiata me la offri tu, verso la bocca, che si socchiude in automatico all’avvicinarsi del cucchiaio colmo, avvolgendolo con la lingua. Ora sono io che ti fisso, dritto negli occhi. Non ho intenzione di distoglierlo, non ci riesco. Mangio fragole e uomo. Ti sto immaginando, sotto la mia lingua. Sai di buono. “E poi? Cos’altro hai immaginato, di me?” ti chiedo, ormai lanciata verso lidi lontani. “Ho immaginato di cenare con te in un bel ristorante, circondato da un bel boschetto, sapientemente illuminato da lampade a terreno, che scompaiono tra l’erba tagliata a dovere. Un tavolo riservato, ed un filetto succulento contornato da verdure fresche. Ho immaginato di terminare la cena con una coppa di fragole, e di lasciare il ristorante per una breve passeggiata, durante la quale mostrerò a tutti quelli che incontreremo quanto sei bella, perché questa sera voglio essere invidiato. Ho immaginato il rientro in albergo, con il receptionist che mi guarda e segretamente pensa che vorrebbe essere al mio posto. Ho immaginato di chiamare l’ascensore, percorrere in salita i 3 piani, uscirne e non trattenere la voglia di baciarti in corridoio, spingendoti contro la parete e affondando il mio viso nei tuoi capelli, che sanno di olio di mandorle. Ho immaginato le tue gambe aprirsi al mio tocco, e finalmente raggiungere il reggicalze che mi attendevo, e valicarlo. Ho percepito le tue gambe stringersi intorno alla mia schiena, mentre ti sollevo e ti penetro senza attendere oltre, cercando di farti urlare senza ritegno. Ho trattenuto il respiro mentre i tuoi seni sobbalzavano al ritmo delle mie spinte, fino ad esplodere dentro e fuori di te. Ho immaginato il tuo godimento mischiarsi al mio, e di vederli colare lentamente lungo l’interno della tua coscia calzata. Questo, ho immaginato”. Ti guardo, e sento la mia voce che, alterata, dice: “cameriere, il conto, per cortesia” |