Stand-by

di  Messalina Serafica

 

 

  E’ un pomeriggio di settembre, come tanti.
E’ sabato, giorno non canonico per i nostri incontri, solitamente infrasettimanali e scanditi dalle ore che passano veloci, troppo veloci, e che dobbiamo forzatamente tenere sotto controllo, come moderni forzati dell’amore.
Com’è difficile controllare il tempo, com’è assurdo pretendere di volerlo fare. La temperatura è piuttosto mite, il cielo terso e chiaro come la mia visione delle cose da quando ti conosco, da quando sei entrato in sordina nella mia vita, insinuandoti quasi in silenzio in quel posto, vacante da anni, quasi per diritto, quasi per pretesa, quasi come se quel posto fosse rimasto vacante, senza pubblicità alcuna, perché attendeva te.
Ora mi è tutto chiaro, come se avessi pulito gli occhiali da uno sporco di anni, come se avessi messo finalmente a fuoco un obiettivo mal regolato. Ci vedo.
Da quel giorno di marzo, conduco un’esistenza in stand-by. In attesa di qualcosa, sempre, ad ogni ora del giorno e della notte. In attesa di qualcosa che so, sento, arriverà. Certezza precaria, eppure così tangibile, inspiegabile. Questione di sensazioni, questione di sensi. Tutti, senza esclusione alcuna, coinvolti in questa bagarre di emozioni, vissute come valanghe che ti travolgono e ti lasciano senza fiato, a doverti riattaccare i pezzi della tua essenza, scomposti e stravolti dopo ogni incontro, per poter tornare a capire chi sei, chi sei diventata, e chi non sei più e non tornerai più ad essere, dopo. La mia attesa, oggi, in questo sabato non canonico, viene premiata. Mi scrivi che ci sei, che puoi, che vuoi.
E sai che io ci sono, che posso, e che voglio. Ti voglio. Per un minuto, per un istante che duri sempre.
Mi preparo. Come una macchina progettata per piacerti, scelgo il vestito che immagino ti stuzzichi, le calze che adoro vederti togliere, la sottoveste che so ti farà immaginare, le mutandine che vorrei mi strappassi di dosso. Mi depilo accuratamente di ogni traccia di vita precedente, perché quella che verrà nei prossimi minuti sia tua, soltanto tua, come tu la vuoi. Liscia, morbida, setosa, invitante. E i minuti passano.
Guardo l’orologio che gira su se stesso, mentre immobile analizzo la mia immagine riflessa nello specchio, e mi immagino di guardarmi con gli occhi con i quali mi guarderai tu. Vedo il mio corpo di donna matura, matura per te. I fianchi sui quali la seta cade morbida sembrano chiedere di essere afferrati e stretti, di essere morsi. I seni gonfi, questi seni che attirano così tanti sguardi, vogliono il tuo, di sguardo, e sembrano sapere quel che sta per accadere, sembrano pregustarlo, preparandosi indecentemente. L’agitazione cresce.
Non penso, non voglio pensare, mi rifiuto di immaginare. Perché immaginare, in questo momento, significherebbe agganciarmi al link virtuale che la mia mente ha creato dopo ogni volta che sono stata tua. E, come il bambino che passa davanti alla vetrina di un pasticcere, e nel guardare le torte esposte comincia a salivare desiderandone una fetta golosa, anche io mi turberei precocemente, copiosamente, pregustandoti. Non voglio, non ora. Non da sola. Non voglio cedere, non devo cedere. Rilassati, mi dico. Rilassati e fidati. Mi fido, mi affido.
E ti vedo. Ed ogni volta è una sfida che immutata si rinnova, per me. Che faccio ancora un po’ fatica a scollarmi di dosso la sensazione atavicamente ancorata al mio DNA, di vederti come l’amico conosciuto, di sentirmi come l’anatroccolo che era tollerato ma decisamente fuori luogo per età e ambiente. E’ la sensazione di un secondo, un battito di ciglia, che mi trattiene e mi blocca. E che scompare come nuvole, che tu sai inconsciamente come soffiare via quando ti avvicini, e mi baci. Un bacio veloce, di saluto, sufficiente. Sufficiente a trasformarti magicamente nell’uomo.
Quell’uomo che mi piace, che mi attrae come una calamita irresistibile e che mi smuove internamente con la sola forza del pensiero, come una foglia pendula, esposta, eppure necessaria per la sopravvivenza dell’albero. E’ passato tanto dall’ultimo incontro. Forse troppo. O forse no, il giusto intervallo di tempo per farmi salire la necessità che ho di te a livelli incontenibili, livelli che provocano una sorta di sordo dolore inebriante, che annebbia le capacità cognitive ed esalta tutte le altre.
Incoscienza voluta, così a lungo desiderata e controllata. TI guardo, per poterti ricordare nei momenti di vuoto, mentre parli. Ti ascolto, per poter risentire la tua voce calda e calma, mentre ti muovi su e giù per la stanza. E mi stupisco, ancora una volta. Mi stupisco di me, e mi stupisci tu. Mi stupisci perché hai sempre qualcosa di interessante da dirmi, da mostrarmi, da descrivermi, che mi stuzzichi l’attenzione, che mi riporti su quella nuvoletta che è la fantasia e che credevo aver persa da tempo. Mi stupisci per le cose che sai, innumerevoli. E per la passione con le quali me le illustri, me le proponi.
E’ come se descrivessi in parte un pezzettino di te, perché è come se quella cosa l’avessi fatta anche un po’ tua, ed ora permettessi anche a me di farne parte, includendomi. E mi stupisco di me, di come io abbia potuto fare senza tutto ciò, fino ad ora. Di come io abbia potuto alzarmi al mattino, lavorare, mangiare, divertirmi e respirare senza tutto questo, a fare da contorno necessario. Attrazione cerebrale. Magnetismo puro per me, che vivo di attrazioni, di sensazioni. Cammini, passeggi su e giù, parli, gesticoli. Ti fermi, prendi un bicchiere d’acqua, ti disseti.
Ed io ti guardo, ti fagocito con gli occhi, analizzandoti mentre registro ogni singola parola, ogni singolo movimento. Non voglio perdermi nulla di te, come se oggi fosse l’ultimo nostro incontro, come se domani non dovesse venire più, come se io non dovessi più esistere, domani. E domani è troppo lontano, esiste solo ora, l’adesso. E le tue spalle, la tua schiena. Spalle che da sempre mi hanno colpito, perché larghe, maschie, forti, che promettono protezione, che ispirano calore contro il freddo dell’anima. Spalle che vorrei mordere mentre urlo di piacere, mentre mi fai urlare di piacere.
Mordere lì, proprio lì, nel punto in cui il collo si fonde con le spalle, in quel triangolino meraviglioso che intravedo dalla tua camicia blu, aperta quel tanto da permettermi di sognare. Posi il bicchiere, con calma. E con calma, ti avvicini, sornione, felino. Annusi nell’aria l’odore della mia eccitazione, del mio essere preda, affamata. Mi abbracci. Mi stringi. Ti stringi. E finalmente mi dimentico tutto, tutti, perfino me stessa. Non sono più io. Sono quello che vuoi che io sia. O forse sono finalmente io. E non chiedo altro. E’ ciò che voglio. La tua lingua, le tue labbra, sono la mia lingua, le mie labbra. Ora sono io che mi disseto, dopo la lunga e, mi rendo conto ora, insopportabile, traversata del deserto settimanale. Ho sete, ho terribilmente sete di te. E le tue mani mi scostano i capelli dal viso e dal collo, provocandomi un brivido infinito, profondo, che preannuncia livelli conosciuti ed ancora da esplorare, che non vedo l’ora di raggiungere, di vivere.
Le tue mani grandi, belle, da intellettuale, mani che studiano, che toccano per mappare, che toccano per godere e fare godere. Mani da esperto, che sanno quello che vogliono, ed in questo momento prendono il mio seno come fosse una coppa, se ne riempiono e lo accarezzano, lo strizzano, lo inturgidiscono sapientemente. Quasi dolore, quasi piacere. Da gemere, da implorare che continui. In bilico tra il chi ero ed il chi sto per diventare, come creta vergine tra le tue mani, alle quali mi sto abbandonando voluttuosamente, mi abbandono.
Toc toc, mi dici….avanti, sospiro, avanti….prendimi, sono qui..sono sempre stata qui, mi sembra di essere qui da una vita, di non essermi mai mossa. Forse sono nata per stare qui, e non me ne rendevo conto..forse era il mio destino essere penetrata da te, perché è la cosa più normale del mondo, sentirti entrare piano piano, quasi timidamente, ed aprirmi a te come una farfalla in attesa di volare. E la mia mente è la prima, a volare.
Quel link pieno di promesse al quale mi sono rifiutata di pensare fino ad ora, è stato inevitabilmente cliccato. Brividi che partono dal mio ventre ripieno di te si diffondono come onde d’urto fino a coinvolgerti, mentre cerchi di ancorarti saldamente alla roccia della concentrazione, in attesa che si calmi, che mi calmi, che arrivi la temporanea bonaccia.
No, mi dici, non puoi..non devi godere, non ora..ubbidiscimi, fai la brava..altrimenti il gioco finisce…ed è l’unica cosa che non voglio, l’unica cosa della quale sono totalmente sicura, l’unica cosa per cui venderei l’anima: non voglio che finisca, non voglio..e ricominci a muoverti, mentre il mio respiro torna per una frazione di secondo regolare, mentre cerco di controllarmi, mentre cerco di riordinare i pensieri caoticamente sparsi. Ricomincia la tua danza, che ora è diventata nostra, uguale ma unica, alla quale mi unisco involontariamente, come al richiamo di una musica conosciuta, alla quale non riesco a dire di no, al quale suono devo per forza danzare. E sento la mia voce che ti dice di continuare, che ti dice di non fermarti, che ti implora di continuare a toccarmi in quel punto lì, esattamente lì, dove tu sai farmi perdere la ragione e la volontà, dove sai che urlerò, attendendo che le mie buone intenzioni crollino per lasciare il posto al piacere, che sento salire piano piano, che sento invadermi, che sento invaderci .
Ed ora sono io che mi aggrappo a te, per non farti uscire più, per trattenerti in me, per prolungare questo piacere intenso ed immenso nel quale vorrei perdermi senza mai più ritrovarmi. Le mie gambe ti stringono, ti avvolgono, ti spingono. Non potrei essere più tua di così, non potresti essere più mio di così, non chiedo altro, non voglio altro. I nostri cuori battono all’unisono, come campane bitonali suonate contemporaneamente, e non c’è nient’altro che conta, se non questo. Non voglio definirlo. Non potrei definirlo. Non voglio ghettizzarlo in una definizione, limitandone e circoscrivendone il valore, il significato. Non voglio limitarlo, perché, con te, non ci sono limiti. Voglio soltanto continuare a provarlo, a sentirlo, a viverlo. Mi ricompongo, per quel che posso. Mi attende il mondo, fuori, ora.
L’altro, di mondo.
Quello dentro il quale mi riconosco sempre meno, quello dove sto cominciando a recitare la parte di me stessa, quello dove ricomincerà l’attesa di qualcosa, sempre, ad ogni ora del giorno e della notte. L’attesa di qualcosa che so, sento, arriverà. Certezza precaria, eppure così tangibile, inspiegabile. Questione di sensazioni, questione di sensi.