Faticosamente era arrivata a casa
di Monica Maggi
Il vapore caldo dell'ingresso l'aveva assalita benefico, appena aperta la porta.
Le saltava agli occhi subito l'angolo buio della sua postazione da lavoro, così
la chiamava affettuosamente, un trespolo su cui si arrampicava insofferente del
mondo intorno, quel serraglio di cose della memoria che non avrebbe gettato mai.
Si tolse le scarpe, le spinse con la punta del piede sotto la panca di legno
scura da chiesa appoggiata al muro, le appaiò meticolosa. Nella sua vita
correvano paralleli l'ordine e il caos più totale, le scarpe messe attaccate una
all'altra e i cassetti di biancheria aggrovigliata, i tappeti piazzati al
millimetro sul parquet nero e gli appunti buttati alla rinfusa come le banconote
nella piccola borsa. Chiuse la porta sull'aria fredda dell'esterno. Il camminare
a piedi nudi le accarezzava la pelle.
"Voglio pensare che sia stato per me, che tu sia passata qui da me per rivedermi
e non per una casualità. Voglio immaginare progetti ingegneristici del cuore,
studiati al centimetro, che non lasciano nulla al destino. Voglio stringere
forte le dita e sentire l'appiccicoso del tuo sudore e del tuo odore"
Arrivò in cucina sempre senza accendere le luci. Il buio le dava terrore, ansia,
le offriva la sensazione paralizzante di qualcuno che le alitava addosso la sua
presenza, e questa paura serpentina fredda e calda dietro la schiena la
elettrizzava. Con indosso la giacca di pelle nera, il bavero ancora alzato si
diresse al bancone di legno chiaro, aprì la bottiglia dell'acqua, versò alla
cieca nel bicchiere, se lo portò alla bocca bollente e bevve. Aveva la gola
riarsa, le pareti carnose delle guance che aderivano ai denti, serrati e stretti
che le facevano male. L'intero piccolo viso era stretto e contratto. Chiuse gli
occhi, portò una mano appena sotto la gola che batteva forte, posò le dita sui
bottoni che trovò slacciati della camicetta nera.
"Ma perché maledizione, ogni volta che scendo dall'auto e mi dirigo verso di te
che mi aspetti dall'altra parte della strada, perché io tremo, ho paura che sia
un film, che un regista riporti indietro le riprese ”ciak, non è venuto bene, si
gira di nuovo” oppure che l'asfalto maleodorante si apra in due come nei
peggiori cult movie di Superman, e io che precipito dentro mentre mi guardi
finalmente libera di me. Perché quei pochi metri tra te e me mi sembrano sempre
infiniti, un percorso olimpionico da fare nel migliore dei modi. Cerco di
mettere bene le gambe una davanti all'altra, come mi insegnava mia madre,
muovendo il culo da destra a sinistra e da sinistra a destra, guardando altrove
ma non te, e sento invece che mi trapasso da sola con aghi infilati dai tuoi
occhi ai miei"
Accese l'abat-jour sul tavolino di marmo. Spinse i due bottoni del pc. Si
accoccolava come un uccello su quella sedia che ormai le infliggeva un martirio
continuo alla schiena, una tortura che le ricordava durante la notte quanto
avesse scritto, di giorno. Più scriveva, più dolevano le ossa e i muscoli, e di
più e di più ancora avrebbe voluto. Il dolore a volte, come quella sera, le
aveva fatto compagnia per tutto il giorno trapassandola come una freccia di San
Sebastiano dalla schiena al viso alla nuca, girandole intorno come uno scialle
di seta.
Piegò sotto di sé le gambe e appoggiò i piedi nudi nelle calze velate sul bordo
della sedia, incastrandone i talloni. Così poteva rimanere per ore dimentica del
mondo. Poteva tralasciare il mangiare e il bere, il vociare intorno le diventava
un noioso brusìo, il richiamo era dato solo dal tempo e dalla scansione dei
doveri. Ad un amante passato aveva detto sbruffona "vorrei solo fare sesso e
scrivere, scrittura e sensi" e mai era andata così vicino all'essenza stessa
della sua carne. Che forse erano la stessa cosa. Strusciò la mano fredda sul
viso, fregandosene dei rimasugli di trucco sfatto che le rimanevano attaccati
alla pelle, tanto c'era già il rimmel sbrodolato sotto le ciglia girate
all'insù. Fece andare su e giù le dita sulla fronte, massaggiò pelle e pensieri.
Qualche lacrima quasi secca scese automatica dagli occhi.
"perché io, sai, non vorrei vederti mai, vorrei strapparti da questo petto che
batte più forte e quasi si alza, nel respiro che diventa affannoso,mi slaccerei
quello che ho addosso in maniera plateale e teatrale, mi metterei a nudo la
carne bianca offrendomi all'ultimo colpo del carnefice, uccidimi ma non
martirizzarmi più, vattene via e dopo due passi torna da me, ti prego,
strusciami i tuoi capelli sul viso, fammi respirare tra di loro e sentire il tuo
odore, come quando sei distesa su di me, a poca distanza dal mio viso, e aliti
piano il tuo respiro caldo. Vivrei solo di quello e dei tuoi occhi vacui e
presenti come un incubo"
Si accarezzò un ginocchio scendendo con le dita appena sotto. La gonna nera di
gabardine le era salita sulle cosce lasciando parte delle gambe. Si piegò ancora
e si immaginò da fuori a sembianza di embrione, un feto quasi raccolto su se
stesso a vivere del liquido impalpabile intorno. Assumeva la stessa posizione
anche di notte, su un fianco con la mano stretta tra le cosce e premuta sugli
slip, come a fare compagnia ad un'altra parte di sé. Le arrivò improvviso un
brivido nello stesso momento in cui iniziava a scrivere. Fece scivolare piano la
mano tra le gambe raccolte, trovò un calore ristoratore e consolatorio. Le
veniva da insultarsi, come si fa ai bambini che vengono sorpresi alle soglie di
un disastro ancora da commettere. Non farlo non farlo. Ma aveva ancora i segni
delle mani di lei, come lacci troppo stretti di sandali estivi intorno alle
caviglie, come il bordo ridicolo dell'elastico degli slip sui fianchi, come il
segno intorno al dito di un anello che non si toglie.
Scivolò giù, quella mano. Trovò una parte morbida come un frutto da negozio di
primizie, sembrava non sua, lei che era passata su troppi letti rimanendo
indenne in un angolo sconosciuto del cuore. Siamo brutte, lì, le dicevano da
bambina, brutte e vergognose, e lei si lavava sempre con un misto di curiosità e
peccato, divertita che non si aprissero le bocche dell'inferno proprio accanto
al bidet.
"Toccami, ti prego. Hai dita che quando mi entrano nella fica mi scardinano il
cuore, è come se avessi quella piccola chiave assurda dei diari segreti, così
piccola che si perde sempre, tu ce l'hai, mi tocchi e sento male e bene, mi apri
con le dita le pieghe del cuore, mi strappi fogli già scritti sul diario e li
sostituisci con tuoi epigrammi incomprensibili, quando mi tocchi è come se
sfiorassi con le dita una trappola nascosta sotto la sabbia, si apre tutto in un
attimo e la voragine mi porta via, richiudendosi subito dopo, sopra di me. Non
respiro più, muoio, tu mi guardi e riprendo un po' di mio respiro dal tuo"
Chiuse gli occhi.
La pelle umida e spudorata accolse subito le sue dita. Cominciò a scivolare
sopra, avanti e indietro, con un ritmo che era lo stesso della vita, del tempo,
dell'equilibrio stesso del cosmo. Avanti e indietro, perché quella era la miccia
e il combustibile, come i legnetti dei boy scout che accendono il fuoco, per
mangiare e dormire, per vivere. Avanti e indietro come un'altalena che toglie il
fiato, come un pendolo che scandisce il tempo. La casa buia le stava diventando
complice, sentiva nell'oscurità compatta e quasi fangosa un respirare che forse
era solo il suo, forse no. Spinse le sue dita in avanti, e sollevò poco i suoi
fianchi per andare loro incontro. Ti muovi proprio da femmina, le diceva lui
all'orecchio, da dietro, quando la penetrava prepotente, e con la stessa
prepotenza lei faceva aderire il suo culo tondo al bacino piatto di lui. Staccò
le sue dita dalla sua mano, come un chirurgo invisibile, e immagino' di
trapiantarle idealmente su un'altra mano.
"se fosse possibile ti sposerei, in una cerimonia profana e insultante ti
prenderei come moglie, e io moglie tua. Per te farei schiava e sarei padrona,
per ridere scompostamente e fare cose mai fatte, come questa che stiamo già
facendo, tu ed io. Ti vestirei dei miei vestiti, ti infilerei le mie calze con
te distesa sul letto con le gambe alzate, ti truccherei da bambola gonfiabile e
ti esibirei per dirti che sei solo mia. A volte sento la mente in questi
pensieri osceni che va in mille frantumi di pazzia, come un vetro colpito da un
sasso anonimo e omicida. Sei tu che sfondi i miei pensieri, e poi, subito dopo,
cerco di rimettere ordine sul pavimento sporco"
L'orgasmo arrivò come arriva il vento a chiudere una persiana, sbattendola
all'improvviso, netto, lasciando l'eco e il segno sul muro.
Lei rimase con le dita nel suo corpo. Dopo, aveva quella sensazione di sé
racchiusa e stretta in una bocca che la inghiottiva tutta, la carne del sesso
avvolta sulle dita che palpitava ancora. Si riaggiustò le pieghe della gonna, il
video lampeggiava messaggi lasciati lì dal pomeriggio ad aspettarla. L'indomani
sarebbe stato il suo compleanno. Aprì il cassetto davanti a lei, spostò con la
mano al bordo del legno le cose alla rinfusa, fece spazio. Voleva occultare
quella forcina, di sbieco, come un piccolo tridente con le punte in su.
Gliel'aveva sfilata dai capelli, mentre faceva scivolare le mani spalancate
sulla sua testa. Poi la prese, e prima di chiuderla per sempre lì, la strusciò
sotto le narici. Il suo odore le arrivò a zaffata schiaffeggiante, chiuse gli
occhi, "nulla sa più di te che il tuo odore", mormorò tra sé e sé, e chiuse il
cassetto.