Quaranta minuti
di Monica Maggi
Quaranta minuti.
Li aveva calcolati chiudendo il telefono, pensando all’arrivo della prossima sua
paziente. Sua, di lei che l’aspettava a casa. Forse ci sarebbe andata. Perché
non aveva detto aspettami. Perché non era sua abitudine dare certezze. Abitudine
sua, di se stessa.
L’altra, che facesse quello che voleva. La vita ognuno la imposta come vuole.
Ricapitolando, questo era un appuntamento ipotetico dato al telefono. L’unica
cosa certa era il tempo a disposizione, un’ora circa (tolto quello per arrivare
da lei, in taxi, se lo avesse trovato subito). Si erano salutate, lei aveva
chiesto al telefono”vieni?” e la risposta era stata “forse”. Ma la velocità con
cui Miriam scese le scale dava certezza alla probabilità.
In taxi Miriam si sentiva in fibrillazione. Andava ad un appuntamento
clandestino, incerto, volutamente non confermato. Stava andando da quella donna
strana, incontrata per caso in un locale dove era arrivata stanca e
insofferente.
“Certo non ero al meglio, quella sera” rise tra sé e sé pensando all’immagine
che aveva dato entrando. E poi era pure stata annunciata come la “poetessa
dell’eros”, pensa te.
Una poetessa con abito a fiorellini e scarpe da cartone animato, capelli corti e
occhiali. Una che il sesso lo immagina, più che farlo, avranno pensato. Meglio,
meno postulanti e meno richieste a cui dire “no, grazie”.
Era stata la seconda a leggere, l’unica a piangere a verso finale. E a pensare
“sono una scema, sono anni che faccio ‘sto mestiere, e stasera mi vado anche a
commuovere”. Sarà stata la stanchezza, aveva supposto, stanchezza e
rassegnazione ad un corso di vita tranquillo e un po’ monotono.
Mai sfidare gli dei, Miriam sorrideva e il tassista la guardò contento. Meglio
avere un cliente felice che un passeggero incazzato, forse sta pensando questo.
Io adesso più che felice sono eccitata e sconvolta, si disse Miriam.
A fine serata era stata contesa dai clienti ai tavoli. Che bello sentirsi una
star, dopo anni in cui ci si è considerati Calimero pulcino nero. Una sensazione
che sosteneva con forza e convinzione, e un bel tocco di vanità.
Primo tavolo: il vincitore di un concorso di cui Miriam era stata madrina.
Secondo tavolo: coppia di maturi amanti, lei aspirante poetessa, lui
imprenditore sentimentalmente sottomesso.
Terzo tavolo: collega poeta, molto fascinoso e giovane, bel maschio rude dal
cuore d’oro, con donna indecifrabile. Lì per lì Miriam aveva preso la donna per
una editrice, o una manager. Poche parole di presentazione, qualche frase che
sbuca insolita dalla sua bocca, e poi il collega poeta mette sotto il naso di
Miriam alcuni fogli. Dimmi che ne pensi, chiede, lei si chiama Arianna e scrive
da tempo.
Piacere Miriam, piacere Arianna. Fatte le presentazioni, Miriam prese quei
fogli, li sbirciò rapidamente, li infilò dentro il mucchietto che aveva già, e
salutò. Arianna si alzò prima di lei, come a scappare. “Che fai adesso?” domandò
generica Miriam.
Faceva spesso quelle domande, era abituata ad essere amabile, affabile, anche un
po’ ruffiana. Sii diplomatica, le raccomandava la madre da piccola, sei troppo
sincera e schietta. Impara a blandire e conquistare, aggiungeva, e Miriam aveva
imparato.
Anche quella domanda “che fai adesso?” apparteneva al genere
le-domande-che-si-devono-fare-per-piacere. Ma Arianna, che stava già andando
via, reagì stranamente.
“Perché?” rispose con domanda dal retrogusto terrorizzato. “Che vuoi dire?”
Miriam era stupita della reazione eccessiva della donna. “No niente, nel senso
che se aspetti un po’, parlo con altre persone, e poi beviamo qualcosa”.
“Non fa nulla, avrai molto da fare. Io vado via, ci sentiamo presto. Sui miei
racconti c’è tutto, indirizzo mail e telefono”.
C’era tutto, su quei fogli, ma Miriam non li guardò fino alla sera dopo.
Partendo per un convegno, li mise nella valigetta “lavoro da sbrigare”, dedicata
alle cose da fare quando il tempo avanzava (quando?). Li tirò fuori in aereo. Li
lesse. E lo stomaco si aggrovigliò.
Erano storie di amori, folli e irrazionali, appassionati e laceranti,
distruttivi e vitali. Amori tra donne, sempre e tutte donne. Lì per lì non captò
i soggetti, poi rileggendo le figure, i soggetti e i pronomi possessivi si
impressero meglio. “Lei la leccò” era inequivocabile, no?
.-.
Qualche giorno d’attesa. Rientrata dal viaggio, Miriam si mise al lavoro da mulo
diligente qual era. Come a scontare peccati mai fatti (o forse fatti, ma
accantonati o dimenticati) lavorava davvero come un animale. Senza pausa o
concessioni, una cosa dopo l’altra, dalle sei del mattino alle dieci di sera.
Ma in ufficio, quel giorno dal caldo insolente, le scrisse. Le scrisse “Belli, i
tuoi racconti”, anzi, adesso ricordava mentre il taxi era fermo al semaforo,
scrisse “stupendi”.
Il gioco delle mail è delizioso. Si scrivono poche righe, ma dentro c’è tutto,
come l’estratto di dado o come il concentrato di pomodoro. Bisogna metterci
l’acqua per diluire, ma il sapore si sa già. L’effetto è garantito. Un buon
sugo, un brodo saporito.
Così fece, scrivendole.
Prima mail: Stupendi, i tuoi racconti.
Sua risposta: (vezzosa, si scherniva) grazie, te ne mando altri, visto che li
hai trovati stupendi.
Terza mail (Miriam): adesso ti mando io un racconto.
Quarta mail (Arianna): grazie, per esserti fatta leggere (e seguiva
interpretazione dello scritto inviato).
Ovvio che il racconto mandato da Miriam era (neanche a dirlo) saffico. Come ad
affermare “guarda cara, che anche io sono una che non scherza”.
Due giorni dopo arriva la telefonata. Che Miriam non si aspettava. Stava
camminando per via Barberini, godendosi il sole e il passeggio, e squilla il
cellulare. Piccoli rituali e convenevoli, e subito arriva (ecco la strategia
diplomatica e ruffiana) la frase tipica di Miriam “tu non mi disturbi mai”.
Arianna reagì burbera. Come la sera del locale, come per una paura immaginata,
come una bestia sorpresa, come una donna ferita, pensò Miriam. “Non mi dire
così, magari invece ti disturbo”.
La franchezza di Arianna la spiazzò. Beccata, si disse, ti ha beccata a fare
finta. Beccata, inesperta seduttrice e cattiva giocatrice di poker. Beccata.
Miriam venne invitata a cena. Accettò.
A Roma il traffico c’è sempre. Dannatamente sempre, può essere ferragosto o le 4
di mattina. Sempre. Adesso poi c’era in maniera insopportabile. Miriam era
impaziente, sudata, agitata. Accavallava instancabilmente una gamba dopo
l’altra. Erano ancora su via del Corso, accidenti, “e la paziente di Arianna
arriva alle tre”. E ora è l’una e cinquanta.
Il tassista era troppo prudente, forse. Sarebbe bastato un piccolo zig zag, o un
sorpasso. Niente. Davvero un imbranato.
Il fatto di sentirsi imbranati capita, era capitato anche a lei, la sera che era
andata a cena con Arianna. Avevano mangiato, avevano parlato (forse Miriam aveva
più ascoltato), erano uscite dal ristorante. Poi si erano dirette verso la
macchina. Sì, Miriam si sentiva imbranata e confusa. Non aveva capito niente di
quella donna, era una mistificazione continua. Un gioco, un bluff, un
camuffamento, una metamorfosi. Prima pensava di trovarsi davanti
un’appassionata, poi una seduttrice, poi una manager, poi ancora una donna
ferita e abbandonata.
Niente. Non ci capiva un’acca. L’unica cosa certa era l’imbarazzo dettato dalla
confusione (eppure io il genere umano lo capisco, eccome, pensava di continuo) e
l’irritazione con se stessa per il fallimento dell’intuizione. E l’altra cosa
certa era stata la scollatura generosa sul seno, florido e prepotente. Due ore
per decidere che maglietta indossare, e poi aveva scelto una stile ape Maya, che
non dimagrisce, appunto.
Ok, cena a vuoto, non porta a nulla, né a conquiste né a conoscenze
interessanti. Ok, si torna a casa.
Lungo la strada Arianna le aveva messo un braccio sulla spalla, poi velocemente
ritratto. Erano salite in macchina, avevano fatto tre volte il giro
dell’isolato, e Miriam aveva parcheggiato di fronte al portone della donna.
Convenevoli. Saluti. Bacio sulla guancia. Bacio.
Bacio bacio, cioè bacio sulla bocca. E per l’ennesima volta Miriam si sentì una
cretina, perché non se l’aspettava. Ma forse se lo augurava.
Quella sera Miriam disse no alle avances di Arianna. Con le scuse più sceme, che
sbiadivano sempre di più: sono sposata, ho poco tempo, ho anche una storia in
corso, non è il caso, guarda che sono un casino. Niente. Tutti motivi insulsi ma
in fondo utili, perché non capitolò.
Si sentiva scema ma rimase salda. Solo per un attimo, un attimo velocissimo e
tenero, velocissimo tenero e struggente e violentemente penetrante, qualcosa la
conquistò, e la fece vacillare. Ad Arianna tremò una gamba, la sinistra, fragile
infantile e palese. Il tremore non si controlla, si disse Miriam. Non si
controlla e viene dal battito del cuore, è collegato strettamente e ci dice chi
siamo.
E adesso era arrivata al suo portone, da Arianna. Scese dal taxi, pagò,
attraversò il cortile, salì le scale, non fece in tempo a suonare che la porta
si aprì.
Aveva il fiato corto.
Chiuse gli occhi e si tuffò nel ritaglio buio dell’ingresso.
Miriam al ritorno non prese un taxi, ma si immerse nella folla sudata di un
autobus. Un taxi le avrebbe dato modo di pensare, troppo comoda sul sedile
posteriore. Lo stare attenta a borseggiatori o a fermate brusche l’avrebbe
costretta ad una soglia di attenzione maggiore.
Aveva discipline interne tutte strane e personalizzate. Se aveva una notte
appassionata, al ritorno in auto accendeva la radio e viaggiava sulla musica. Ma
se la notte era stata “troppo” appassionata, se era scesa come un punteruolo in
pancia e cuore, allora preferiva il silenzio, il buio, la strada nera e lucida.
Assenza di parole e ombre facilitano l’eco di cose non dette, da ricordare, si
diceva.
Adesso era la calca maleodorante a distrarla un po’. Meglio.
Perché trovare una porta aperta di fronte, imbattersi in una piccola donna
diversa dalla costruzione della mente, avvinghiarla, sbranarla quasi, fare i
conti con l’eccitazione e la voglia di corpo e di pelle, e poi consumarla per
quaranta minuti, non si digerisce facilmente. Non è un pasto leggero.
Miriam non aveva detto una parola quasi. Arianna aveva aperto senza che l’altra
avesse suonato, aveva mormorato “non so se arrivo viva al mio compleanno”,
facendo capire che non aveva creduto a quell’ “arrivo”. Poi si erano avvolte una
sull’altra, come due stracci bagnati a strizzare l’ultima acqua superflua e
ingombrante, per qualche minuto prima di entrare nel salotto.
Un amore selvaggio e selvatico, era stato. Un amore di scoperta e di ri-incontro.
Un annusarsi e leccarsi e ingoiare famelicamente qualcosa rimasto non mangiato
del tutto. Un rincorrere l’orgasmo, perché quello c’è, come premio, ma non è
detto che soddisfi e che sazi. Un fuggire insieme in zone lontane dove non ci
sono parole ma suoni e segnali.
Una corsa.
Quaranta minuti. La paziente bionda, incontrata sui primi cinque gradini al
ritorno, non era poi un granchè.