Canone in Re Maggiore ( La ragazza e Tom Gordon )
di Morgain
Tutti credono di conoscere bene il proprio demone, ma non è così. In realtà la
molla segreta, la ragione che ci spinge ad alzarci ogni mattino e ad esserci
ancora, ci è perlopiù ignota. Come la nostra vera natura, del resto. Lasciamo
che siano altri a saperne di più sul nostro conto e ciecamente proseguiamo,
certi di costituire per chiunque l’impenetrabile mistero, mentre la piccola
sfinge del privatissimo enigma ammicca ai passanti. E nulla cambia mai,
all’apparenza. Continuiamo a parlarci, a girarci intorno. Come in un tourbillon.
Girano i giorni, giriamo noi, e gli altri intorno a noi.
Uno scrittore ha affermato che le parole siano leggibili a rovescio e spesso, in
altre culture, anche scritte così, tra l’altro. Bisogna pensarci prima di
scriverle.
Lei ci ha pensato e così ha scritto né a diritto né a rovescio ma in maniera un
po’ sghemba, seguendo un ritmo claudicante: la zoppìa di un Efesto.
A volte la semplice verità in sé ci appare troppo vasta, e la stessa semplicità
ingannevole. Allora, come in un racconto a più voci, ne affidiamo l’intima
solidità a chi volesse poi ricomporla. Ma a quel punto non avrebbe più
importanza, perché ciascuna voce sarebbe divenuta storia e quindi verità essa
stessa, e variamente riformabile, a partire dai frammenti. L’inizio come la
fine, ciascun frammento diversamente sussurrato ma infine uguali.
Più Achab che Ismaele (marinaio, dove sei?), lei è occhi, non voce. E ciò che a
volte hanno in comune scrittore e lettore è che nessuno crede assolutamente in
nulla, e tuttavia mentre per molti le parole son qualcosa, per loro e soltanto
per loro, possono esser quasi senza differenza tutto, e niente. Un niente ricco
e oscuro.
Rammenti? Lei che ha occhi ma non voce, come un Ismaele che avesse smarrito la
propria nave o il proprio Capitano, si era voltata - non aveva guardato dietro
di sé - era andata via.
Perché la storia che non può essere scritta, la storia che ha coltelli al posto
delle parole, in realtà è già accaduta.
Lei quel giorno disse quelle parole e si voltò, e fu scritta da allora. Era
iniziata già prima, era iniziata con la donna nella polvere fra sassi scagliati
e con T., che come uno straccio vecchio si era cosparsa di liquido e si era data
fuoco, e lei ora non può modificare ciò che è accaduto né raccontarlo
diversamente. Ma può farti entrare nella storia (te lo aveva promesso, ricordi?)
e anche se tu non capirai, questo cambierà la storia e forse cambierà anche lei.
Ogni cosa potrà essere diversa, o semplicemente come avrebbe dovuto.
Non è ciò che desideriamo tutti?
C’è una storia in ogni storia narrata, ed è tra le righe e non nelle parole che
leggi. E tu lo avverti che c’è un’incrinatura, la nota stonata.
Quante volte, da spettatori, ci diciamo che noi avremmo agito in maniera
diversa. Desideriamo intensamente essere lì, o almeno poter far sapere al
protagonista che da quel momento in poi la storia prenderà la china che la
porterà ad essere ciò che non avrebbe mai dovuto. La storia che ha punte aguzze
dentro soffici nidi di parole.
Ma quando sei sul crinale di lama potresti ritrovarti a pensare che le parole
non hanno alcuna importanza. E decidere di non ascoltarle.
***
E’ uno di quei luoghi in cui potresti quasi credere d'essere invisibile, a patto
di rispettare alcune regole. Dopo un pò non fanno più caso a te.
Ti guardo, e sembra che il peso della quotidianità non ti tocchi.
Le persone sono noiose perché prevedibili. C'è una sorta di grazia nell'economia
dell’ esecuzione, fluida. O davvero è il semplice atto dell’osservare a
far sì che l'oggetto osservato sia una cosa, e non l'altra?
Qui non vi sono occhi a guardare, tranne i miei. Sembri così assorto, forse solo
concentrato in quello che stai facendo, e non so se ciò che provi è blanda
molestia per la ripetizione… il filo non è sottile e non si spezzerà… o una
tranquilla sicurezza.
“La perfezione non è di questo mondo”, hai detto. Se c'è una cosa che le
si avvicini, è questo misto di abilità, destrezza, e apparente noncuranza di sé.
Come un esercizio zen che superi l'intenzione per la purezza del gesto.
E’ poco zen, invece, una risonanza emotiva fatta di curiosità razionale e
partecipazione, interesse e contatto con il mondo dell’altro, senza conflitto.
La chiamano Einfühlung e significa empatia.
Guardo, e mi credo invisibile.
***
“Chi è Trish?” Il romanzo di Stephen King è aperto sul mio letto, quasi
alla fine – non il genere di lettura che ti saresti aspettato. La tua voce è
bassa e tranquilla, ed io non faccio fatica a spiegarti che Trish ha nove anni,
tifa per i Red Sox e si è persa – persa come solo a nove anni ci si può perdere
– in una foresta sui monti Appalachi, con solo il suo walkman per seguire la
fine di campionato e quattrocento miglia di nulla fra sé e il Canada, nella
direzione sbagliata. Il lanciatore di chiusura si chiama Tom Gordon, lui è
bellissimo e quando salva la partita indica il cielo con un dito (ma non è detto
che Dio sia tifoso dei Red, sappi questo, ragazza… ha spiegato il padre a Trish).
Esiti per un istante con la mano sul pomo della porta – adesso sai chi è Trisha.
***
Ad ogni alba, una fanciulla viene messa a morte per placare il Tiranno, una rosa
di sangue è offerta ad addormentare la Notte, una notte dopo l’ altra.
Ma Shahrazad intesse una storia ed incanta il Re, parole come perle che legano
il Cielo alla Terra, mille e una notte di storie incompiute che trasfigurano le
une nelle altre, fino a che il sovrano-carnefice, avvinto, depone la lama.
Shahrazad è l’archetipo.
Come Shahrazad, narriamo o scriviamo per tenere a bada la pavidità e il tedio,
che poi sono la stessa cosa della morte, perché chi scrive ha il potere di
inventare mondi. O, più semplicemente, di raccontarli.
Chi scrive è egoista, scrive per il proprio piacere e, incidentalmente, per
quello altrui. Non si preoccupa di risultare gentile. Tanto meno
corretto. In genere, non si preoccupa affatto. Scrive, e non sa in che modo
verranno accolte le sue parole, e se mai qualcuno le leggerà.
E' tardi adesso, a piedi scalzi attraverso il corridoio e sono nella mia stanza.
Frasi aleggiano sospese nell'aria per un momento, prima di svanire come il
sorriso del Gatto del Cheshire.
E' tardi, tu dormi adesso, e non ci sei. Scrivo di te, e sei parole sullo
schermo mentre Invio.
***
Questa mattina li hai zittiti con un gesto appena accennato. “Sa già tutto.
Non dobbiamo dirle nulla”. Ti ho ringraziato in silenzio. Mi succede spesso,
in questi giorni. Non hai fatto domande.
Mi sono persa, e forse non c’è una strada del Ritorno, per me.
Sembrava lavato di fresco, il cielo, questa mattina presto. Porcellana bagnata,
lucente di ghiaccio. Un’alba innocente e prodiga. Ma ogni luogo ha una sua
storia segreta, e questo luogo non fa eccezione: avrei potuto essere io la donna
nella stanza accanto, l’altra notte.
Ci sono storie che non ci appartengono, che sfioriamo soltanto e non abbiamo il
diritto di raccontare. E poi c'è questa notte, fredda, brillante e dura, solo
una manciata di stelle su nero di purissimo giaietto.
Hai detto: "Si ottengono risultati migliori, con un tempo così", e ora
chi potrebbe desiderare un cielo spolverato di diamanti.
***
“Non ricordo mai che rapporto ho con ciascuno, fuori della sala.”
Deve esser vero, perché ogni volta che t’incontro, mi chiami con un nome
diverso.
Ieri no. Ieri non abbiamo parlato affatto. Camminavo nel solito corridoio, ero
arrivata quasi alla fine e non credevo che foste già tutti lì. La porta si è
aperta, c’eri tu insieme ad altri ed io ho scartato. Proprio come davanti
a un ostacolo imprevisto, non ho potuto trattenere un ansito e ho piegato a
sinistra, verso le scale. Quasi piegata in due anch’io. Per un momento mi è
sembrato di non riuscire a respirare. Che succede, che hai, mi hanno chiesto.
Niente, ho risposto, non ho niente.
Solo che, d’improvviso, mi ero ritrovata a pensare “mi farà del male. Non
potrà evitarlo”. E, per la prima volta, avevo avuto paura di te.
E le parole non sono perle bensì sassi strappati al mare, a costruire
significati e attribuire senso.
***
Nessun acume o eloquenza né traccia di misericordia.
Ma in realtà l’uomo che fabbrica bambini non ha alcuna colpa. Sono giunta da lui
senza saperlo, che fabbricava bambini. E forse avrei dovuto capire, mentre
aspettavo, e tutte col ventre gonfio di vita, a ripensarci.
E’ che ci sono abituata, ad essere una culla vuota. Così non ho fatto caso alle
altre, mentre riflettevo tra me non le ho neppure guardate bene.
Lui invece ha guardato me, e ha visto solo la culla.
Vuota.
***
E’ stato dolce con me. Sembravamo innamorati, e non lo siamo.
E’ strano questo mondo, dove a un uomo e a donna sembra essere concesso farsi di
tutto, tranne volersi bene. E’ strano, ma tant’è.
Mi ha detto: “Tu te lo ricordi, la prima volta che ti sei innamorata?” Ho
sorriso, ma certo che ricordavo. Ero alle scuole elementari, il cuore a danzare
nello stomaco. “Ecco” e sembrava stesse per concludere, “è lì che dovrai sentire
di nuovo. Nello stomaco”.
Poi: “Ma cosa vuoi che ne sappia, io, di queste cose” E mi ha strizzato
l’occhio, così.
Ecco, è fatto così, lui: dolce e piuttosto bello ed eccentrico.
E’ che ama gli uomini, questo mio amico, ma sembra volere un gran bene alle
donne.
E, occorre che lo dica? Gli voglio un gran bene io pure.
***
E’ una culla vuota ed è una vela gonfiata dal vento, e il vento la accarezza e
non la piega. Sa di mare, il vento, e la solleva. La porta in alto. E lei non
cade, non cade mai. Lui la bagna e non l’asciuga.
E’ il Battello Ebbro. E’ l’incessante sciabordìo di due corpi in amore.
Ha il ritmo dell’onda e il respiro del cielo.
Perché è Terra, ed è Mare.
Legamenti cardinali come corde tese a croce. Lame di carbonio a recidere gòmene.
Rosse le labbra e/o rosso di sangue. Elevatori e prossime interazioni fasulle,
da costruire.
Senza più centro, senza equilibrio né spessore o resistenza.
Le parole abitano uno spazio fisico. I simboli, anche.
Percorsi che, da domani, dovrò imparare a mediare.
***
Il dolore è una dimensione intima. Io mi chiudo in me stessa per celarlo, poi mi
rendo conto che questa stessa chiusura è rivelatrice, agli occhi degli altri,
del fatto che sto soffrendo. “Lasciaci essere accanto a te” mi ha scritto
l’altro giorno mio padre. “Lascia che ti aiutiamo”. Non può. Loro,
semplicemente, non possono. Proprio perché loro mi amano e un po’ mi conoscono.
Non voglio rivedermi nei loro occhi. Un freddo specchio che non mi menta, è
tutto ciò che potrei volere. Per vedere come sarò davvero.
***
“Un atto di fiducia assoluta”.
Era quello che mi avresti chiesto, dicesti, se avessi scelto di rimanere.
Non ho mai saputo come si conciliasse, questo, in una persona che coltiva dubbi
come altri coltivano una passione. “Sono un uomo cinico.”
Quella prima volta, mi sono sentita come un Faust che dovesse pronunciare
l’indicibile. Poi, mentre tutti intorno sembravano agitarsi e al tempo stesso
ogni cosa allontanarsi e sbiadire e tu solo restavi calmo, solido e reale, mi
sono detta che sì, a questo potevo credere.
Mi sono risvegliata per rendermi conto che, mentre dormivo, mi ero trasformata
nell’anitra di Lorenz. O forse era iniziata un poco prima: fatto sta, che
ricordavo soltanto te. E io lo sapevo che non era andata così, che durante
quell’interludio dovevano esserci state altre facce e altri dialoghi. Eppure,
per qualche motivo, non me ne rammentavo. Così ho capito e, una volta rimasta
sola, mi sono guardata cercando al di sotto delle lenzuola piume, palme. E ho
avuto la conferma che la mutazione era avvenuta: un’anitra ero, con tanto di
palme e di piume.
Ho preso cura di nasconderlo, per un po’.
Poi mi sono detta che, peggiore di un’anitra, c’è solo un’anitra ingrata.
***
Adesso ho il mio specchio. Sembra essere freddo e caldo allo stesso tempo. Non
lo amo, il mio specchio, ma è quello di cui avrò bisogno perché mi rifletta alla
perfezione. Mi ha detto: A volte fai paura, dimostrando con ciò di essere
perfetto, perché era esattamente quanto stavo pensando io. Non amarmi, specchio,
non iniziare ad amarmi anche tu, o non servirai più a nulla.
Ma forse m’inganno. E’ la mia sofferenza, che non voglio rivedere negli occhi
degli altri. Lui non me la mostrerà, ma solo perché non gliene importa nulla.
Specchio bugiardo, che direbbe qualsiasi cosa io volessi sentirmi dire.
Specchiospecchio, sono una sciocca e ti butto via subito.
***
Come una fanciulla sceglie il suo abito, io ho scelto il mio. L’ho scelto con
cattiveria verso me stessa, il mio abito, e per questo l’ho scelto di niveo
candore. Bianco, a ricordarmi che non sono più una fanciulla. Bianco: perché non
sarò una sposa. Bianco: che possa intridersi di sangue. Bianco: per farsi beffe
dell’innocenza. L’ho scelto con grande attenzione, il mio abito, e la commessa
mi aiutava premurosa credendo servisse a chissà che e poi dopo un po’ incerta
perché non ne indovinava lo scopo.
E’ un po’ monacale, il mio abito, e questo mi fa sorridere amara. Me lo
toglieranno, e sarà come una svestizione. Non faranno caso al mio abito, e così
resterà un segreto perché mai io lo abbia scelto tanto accuratamente.
***
A volte bisogna dominarsi con fredda decisione. E forse agli altri sembrerà che
ce ne stiamo lì, in piedi con gli occhi vitrei o seduti, impettiti e
indifferenti, mentre ogni cosa precipita nella assoluta mancanza di senso. Ma,
in noi stessi, sappiamo. Comprendiamo.
Tuttavia si aspettano che piangiamo e gridiamo, per non sentirsi deprivati di
senso anche loro. O forse solo perché il pianto e le grida gli apparirebbero
maggiormente intelligibili. Qualcosa da poter fronteggiare, magari con una pacca
sulla spalla.
Se riuscissero a far penetrare il loro sguardo adesso, scorgerebbero neve fresca
che si posa sull’acqua, come riflessa mille volte in specchi d’argento. O la mia
amata Torre di
Galata, da dove si dice che Hazerfen Ahmet Celebi abbia spiccato il suo volo.
Specchiospecchio, ho bisogno del tuo gelido splendore e riposare un po’. Il
freddo che ho in me non mi basta. Dimmi, specchio, chi è la più cattiva del
reame. E menti, se puoi.
***
Domani è oggi.
Frammenti. Molto meno che un ricordo. Eppure, curiosamente nitidi, come riflessi
a giorno dall’alogena.
Dicono che un chirurgo possa anche amarla, la suspence. Ma non in una sala
operatoria. Lì, non devono esserci sorprese. Che se anche si presentassero, puoi
esserne ragionevolmente certo, non sarebbero di quelle che avresti voluto tu.
La volta buona è questa volta.
Nella voce del tuo assistente un pò di sorpresa c'è. Nella tua, no. Riveli poco.
Guardi quel che c’è da fare, e lo fai. Dunque, bisogna fare presto, e poi
chiudere. Prima, però, vuoi essere sicuro che io abbia capito che non cambierà
nulla. Che potrò avere tutta la vita che vorrò per altri a venire, dopo me.
Hai le dita insanguinate. Non le muovi, ti sposti tu, appena un pò. Non è un
riguardo, e forse non sai o non ti chiedi, ma posso vedere nella lampada,
sospesa su me.
Se hai mai visto una farfalla trafitta quand'eri bambino, allora sai cosa
intendo.
Io, non posso neanche sbattere le ali.
"...questa fine di maggio, dalle parti d'Antalya, sono così le spighe, di prima
mattino; così sono i castagneti di Bursa, le foglie dopo la pioggia, e in ogni
stagione e ad ogni ora, Istanbul.” Occhi d'ambra. Occhi di gatto alle luci
aliene della lampada, e…
“… mi sente?” No. Cioè sì, ti sto ascoltando e sì, ti sento ma
inizio anche a sentirmi male. E’ luce netta, senza ombreggiature. Penso alle
luci guizzanti e tremolanti di candele in una cappella. Affiorano immagini,
parole. Versi: “Your eyes your eyes your eyes...”. “Gozlerin”, Nazim Hikmet.
Penso a niente e a ogni cosa mentre una parte di me ripercorre a mente i
passaggi di ciò che ti accingi a fare e i miei occhi seguono, là in alto, ciò
che sta avvenendo. Sono consapevole, o così a me pare, di ogni vostro movimento.
Poi la nausea mi sembra incontrollabile e mi mettete a dormire. Rapido, un
anestetico sortisce il suo effetto e i miei pensieri si spengono.
***
La cicatrice è un piccolo solco rosso che mi attraversa.
Sbiadirà, col tempo. Ma per adesso segna la memoria come un memento vivo.
Sono obbligata a ricordare.
***
“L’ho fatto perché era possibile farlo.” Una risposta elegante.
La verità è che, non ci fossi stato tu, avrei finito col perdere ogni cosa.
Insomma, avevo espresso un desiderio, lo scorso dicembre, e lo credevo
inesaudibile.
Si è poi avverato, soprattutto grazie a te. Tuttavia non te lo dico, poiché
immagino che la gratitudine possa essere assai noiosa. In effetti, ringrazierò
tutti tranne te. Mi pare banale e insignificante e anche del tutto inadeguato e
io, le ovvietà, le detesto.
Era Natale e… insomma, proprio non si può raccontare, una storia così. Non ci
crederebbe nessuno. Infatti, non ci hanno creduto. Ho chiamato i miei genitori,
dopo, e mi sono sembrati ecco, increduli, appunto. Ed io, mi son messa a
scrivere. Come sempre faccio.
***
“Ehm… la stanno chiamando”. Sto per essere dimessa per la seconda volta in pochi
mesi, siamo nella stanza delle medicazioni che adesso risuona del tuo nome. Alzi
lo sguardo verso l’infermiera che ne sa meno di te, e stavolta del felino del
Cheshire è rimasta solo l’indolenza gattesca: “Cosa vogliono…”.
Chissà quante volte t’avrò scocciato io pure, con i miei silenzi, le mie
chiusure da ostrica, e poi domande su domande.
Scusa. Scusa.
***
Mi parli lento, ripetendo più volte, come a un bambino. Nessuno mi ha mai
parlato così ma non riesco ad adombrarmene, forse sono sotto choc perché ogni
cosa, le parole, i gesti, la luce, mi appaiono di una qualità ovattata,
imprecisa. Rifletterò poi che probabilmente lo avevi capito.
***
Finita. E’ finita. “Come se non fosse successo nulla”, hai chiosato tu.
Era iniziata in un giorno come un altro. Non era successo niente, quel giorno.
Una porta si era aperta, e tu eri lì.
Memoria eidetica. Linee forme colori fisionomie. Parole, anche. Non le mie.
Disposta a lasciarmi irretire da quelle degli altri, anche, la penso come il
tale: “Fare lo scrittore mi piace; quel che non sopporto, è mettere le parole
sulla carta”.
Però quel giorno tu eri lì. Una porta si è aperta e…
Eri lì, e chiedevi di essere raccontato. In qualche modo.
Ha ragione chi sostiene che le parole sono un trucco. Peggio, aggiungo io. Le
parole sono un imbroglio. Non come ossa nervi sangue tendini muscoli tessuti.
Che possono riservarti sorprese, quasi mai piacevoli, ma non mentirti. “C’è
una logica nella medicina” - hai affermato perentorio una volta. Nell’affabulazione,
non ce n’è. Chi subisce l’incanto delle parole - o intesse malìe per gli altri -
è pronto a giurare tutto. O il contrario di tutto.
“Racconta, ancora. E giurami che è vero.”
Quel giorno, una porta si è aperta. Pioveva - ma faceva anche un po’ caldo -
era settembre, ed era un giorno come un altro. E tu, partecipe e sollecito. O
invece no, vivace leggero sbadato, “assenza d’increspature su superficie
levigata polìta…”
***
Sempre così. Una parte di me, sempre a chiedersi: come potrei raccontarla,
questa, come descriverla?
Un’inflessione nella voce, occhi che guizzano, il fremito di labbra.
E l’interlocutore, persuaso ch’io fossi distratta.
(E’ che dovrei imparare a disegnare, ecco.)
In seguito avevo scoperto la verità e - non lasciarmi cadere - avevo detto, o
forse solo pensato.
Adesso ti sta di fronte, per una delle ultime volte. Riesci quasi a immaginare
l’automobile ferma, il castello sotto la neve che scende a fiocchi morbidi e
rapidi, così come te li ha descritti tempo addietro. Lo rivedi in quel corridoio
che sembra non finire mai, mentre viene verso di te, ma poi di lui ricorderai
solo dettagli, un particolare.
Come di sfuggita, un riflesso: ti volti, e già non è più lì.
Un ricordo d’infanzia e un’immagine cara da contrapporre allo sgomento, e a quel
vago senso d’orrore - forse, è quello che facciamo tutti. Per questo, avevi
sussurrato o creduto di sussurrare o soltanto immaginato quelle parole, quella
seconda volta.
E che lui ti avesse sentita oppure no, non ti aveva lasciata cadere.
***
Le parole sono fili sottili di seta e d’argento, robusti come cavi d’acciaio
ritorto.
In equilibrio, a cercarne di precise e leggere, ne chiedo in prestito ad altri.
Nel gioco del baseball, il lanciatore di chiusura è colui che chiude, e salva la
partita. Quando questo gli riesce, poi a volte fa un gesto curioso, indica il
cielo con un dito, qualcuno ha scritto perché è nella natura di Dio intervenire
nella parte bassa del nono inning. Ma forse quel gesto vuol dire solo “ho
chiuso, e ho salvato la partita”. Quella volta, in quel gelido pomeriggio di
inizio d’anno, c’era lui. Ha fatto anche più di quanto crede, di ciò che sa; ti
ha salvato la vita, ma tu non ne parlerai. Così ora lo guardi e pensi, senza
riuscire a dirglielo: grazie di aver chiuso e salvato anche per me. Perché, con
quali parole potresti mai ringraziare il “lanciatore di chiusura” semplicemente
di essere quel che è: colui che chiude, e salva.
Dedicato a tutte le donne che hanno lottato e perso, senza che ne sia stata
serbata memoria. Ma anche agli uomini che giocano e che vincono, per i Red.