La nostra prima volta
di Morgana
Avevamo parlato per ore, fantasticato e seguito i fili
sottili delle nostre comuni strane inclinazioni, ci eravamo eccitati
crogiolandoci tanto nelle fasi lunari quanto a pelo d’acqua, tu solo sai quanto
ci piaceva ed ancora ci piace riconoscerci, tastarci, sentirci simili e nel
contempo complementari.
La prima volta nel tuo ufficio l’avevo vissuta in mille sogni caleidoscopici,
era stata ancor prima di essere, l’avevo visitata nei sogni e perfezionata negli
incubi, erano gli incubi che avevo cercato tutta la vita, una sofferenza sottile
e vellutata, di quelle che ti si insinuano sottopelle e formano abitudini a cui
poi diventa impossibile rinunciare.
Non ti potrei descrivere la biancheria che indossavo, perché ero nuda in strada,
almeno così mi sentivo,
tutti gli sguardi addosso ed io avvolta nella mia nube di desiderio, il mio
unico vestito quel giorno, l’unico vestito in cui potessi sentirmi a mio agio.
Cercare la via, trovare il portone, suonare il citofono, tutti momenti veri,
momenti vissuti, eppure prontamente dimenticati, riposti in un anfratto
inutilizzato del cervello, sepolti sotto una pesante coltre di aspettative.
Tu che mi aprivi la porta sarai stato certamente anche vestito, ma io ti
guardavo sotto la camicia, ti spiavo dall’interno dei pantaloni, respiravo il
mio alito caldo sui tuoi capezzoli, scendevo sfiorando l’ombelico e mi
soffermavo a sussurrarti il mio desiderio sul pube, poi ti percorrevo a ritroso
nascondendomi tra le tue natiche sode, introducendo la lingua nel tuo buchino
più remoto.
Invece tu mi stavi già baciando, ma nel frattempo mi facevi prigioniera delle
tue manette, mi spegnevi la luce serrandomi gli occhi nella mascherina, ed in
breve ero solo forma di vacillante donna, allungata sulla tua scrivania dura,
dimentica di lenzuola e materassi del recente passato, ma presente per
soddisfare le tue lussurie scoprendo i limiti inesistenti delle mie, limiti che
si slabbravano, che si riempivano di umori preziosi.
Non conoscendo più i miei confini corporei, sperimentavo con te l’ineguagliabile
gioia di consegnartelo completamente, questo corpo, delegato a te l’onore e
l’onere del mio piacere, come esso potesse essere conseguito non era più affar
mio, ma tuo.
Sono pittrice, per me la vista è un senso fondamentale, normalmente i miei occhi
corrono ovunque in cerca di ispirazione e fissano immagini su immagini, che poi
saranno filtrate ed elaborate dalla sensibilità, così trovarmi privata della
vista acutizzava la consapevolezza degli altri sensi, chiamati a raccolta per
supplire alla privazione.
In particolar modo la pelle si faceva recettore attento di vibrazioni, le attese
si dilatavano in supplizi e quando infine giungeva la tua mano a portare ristoro
era come giungesse acqua alla rosa del deserto,
acqua portatrice di vita e quella rosa dimenticata sulla sabbia e trasportata
dai venti poteva allungare le radici e tendere allo spasmo le sue foglie,
coprendo spazi insperati e dimenticando i silenzi della notte.
Avvertivo la tua presenza indaffarata, la curiosità eccitata, la fretta di
possedere tutto e l’abilità nel dilazionarti il piacere, mentre mi perdevo negli
orgasmi, avrei voluto contarli, ma poi mi ritrovavo a galleggiare e fluttuare in
un’area in cui era difficile valutare, perché stavo godendo senza più smettere,
senza trovare il tempo e la voglia di respirare.
Avrei voluto dirti che forse mi avresti uccisa in questo modo, ma non temevo più
per la mia vita, nel mio delirio di onnipotenza stavo sperando che non sarei più
uscita dal gorgo, mi trovavo dentro il mio corpo e non potendolo vedere lo
sentivo, il sangue che pulsava, gli organi interni straziati dalle contrazioni,
mi trovavo a benedire il mio cuore di sportiva, abituato a resistere, ad
assecondarmi nella caparbia volontà di consumare energia.
Mi mancavano le mani, con quelle avrei voluto stringerti le natiche, avrei
voluto affondarti le unghie nella carne, desideravo afferrarti e condurti dentro
di me, anche se non sapevo in quale anfratto, ovunque purchè dentro, volevo
fonderti dentro il mio calore, volevo scioglierti e riceverti in forma liquida.
Ero alternativamente dentro di te e dentro di me, con gli occhi della mente,
mescolavo i colori del sangue e degli umori, sentivo di poter dipingere il
nostro quadro, la tela che si dilatava e fremeva nel fuggirmi ad ogni istante.
Non so nulla del tempo che tu dedicasti a conoscere il mio corpo, avevo perso
ogni parametro, ma fu con gioia che ti accolsi infine nella bocca, finalmente
avevo una bella porzione della tua carne da succhiare, avevo una parte di te su
cui concentrarmi anch’io, a quel punto avevamo entrambi fretta, volevo questo
sperma più di ogni altra cosa, era una fame che non si sarebbe mai sopita, in
quel momento ne sperimentavo certezza.
Liquido caldo, abbondante, i tuoi sussulti ripetuti, piccole pause e poi ancora
fremiti, colma di te, non potevo guardarti in viso, non potevo cercare i tuoi
occhi, allora mi godevo quello che avevo in bocca, le tue mani nei capelli,
restando nell’immobile rispetto del momento, del tuo silenzio nel recupero delle
parole e del respiro, l’infinita gioia della tua gratitudine.
Non occorre che mi liberi dalla mascherina, io ti vedo dentro.