Ditelo con i fiori
di Narratore
Mi incuriosiva la sua treccia. Era in qualche modo
antica. Mi ricordava mia madre, la sua voce dietro di me mentre mi annodava le
ciocche lunghe di quel dorato cangiante che ti rende sempre indecisa sulla
dichiarazione da fare per la carta d'identità: bionda o castana? La sua invece
era nera, abbondante, lunghissima. Un serpente nero che sembrava uscirle dalla
testa e che per scendere a terra sceglieva la via sicura delle sue spalle.
Riflessioni delle prime ore quando il mondo ti appare tremolante oltre l'aria
riscaldata della prima tazza di the bollente, aspro e senza zucchero. Il vapore
che appanna il vetro, il dito che impietoso svela il mondo con un gracidio da
Last al limone. Fissavo quel serpente nero che ondeggiava senza vederlo. Non è
che vedessi altro, intendiamoci. E' come quando guardi senza vedere: attraverso
le file di auto, attraverso quel chiosco da fioraio che era una piccola giungla,
una micro foresta pluviale dove il serpente nero sembrava di casa. No, non
vedevo nulla di tutto cio' mentre il mio sguardo si estendeva alla ricerca del
filo logico che doveva portarmi fuori dal torpore del mattino. Microbilancio di
previsione: programma della giornata. Di solito il segnale era quando il the
smetteva di fumare. Allora le sorsate diventavano più lunghe mentre mi muovevo
verso il bagno per il quotidiano appuntamento con lo specchio. Invariabilmente
cominciavo con la lingua. La tiravo fuori come davanti ad un medico. E finiva
sempre che facevo le boccacce. Poi tiravo giu' la pelle sotto gli occhi sempre
pronta a prendere atto dell'insorgere del temuto ittero da stravizi. Poi
ravvivavo i capelli. Non ci voleva molto. Li portavo a spazzola, tutti tesi
sulla testa come mister "io ti spiezzo in due" di Rambo o, se preferite, modello
Ombretta Fumagalli Carulli. Ma che esempi mi saltano in testa. Cominciavo a
strofinare i denti con lo spazzolino. Maledetto rubinetto, schizzava
dappertutto, mi bagnava il pigiama sul seno. Via tutto. Seduta sul water mi
liberavo ma non mi perdevo di vista. Si, avevo uno specchio davanti al water. E
allora? Eccentricità da single, forse. Ma quell'immagine mi prendeva sempre.
Perche' l'Eros si annida la dove meno te lo aspetti ed e' cosi' insolito vedere
te stessa mentre stai seduta sul cesso che finisci col pensare che stai guardano
un'altra che fa quello che vuoi tu. Contorto? Forse ma vedere quella li che si
appoggia le mani sulle ginocchia e le separa con dolcezza rivelando la
fontanella castana, fa sempre un certo effetto. Poi vederla chinarsi in avanti,
far penzolare i seni appuntiti, dondolarli e guardare i capezzoli che si
animano, si allungano nel tentativo di riuscire finalmente a strofinarsi sulla
pelle delle cosce di nuovo unite. E sollevare la testa e guardarsi negli occhi
alla ricerca di una conferma, di quel lampo selvaggio che ti dice che sei ancora
viva. Il resto va via liscio: la doccia, la stuoia ruvida che ti arrossa ogni
millimetro di epidermide e poi il sollievo consolante dell'accappatoio morbido.
Poi le creme fredde, i capezzoli che tornano all'erta, la pelle che si tende.
Vestirsi in fretta, i jeans, la felpa, la giacca di panno, le dr. Martens viola
che adoro. Chiudi tutto, via, fuori. Verso il serpente. La incrociavo ogni
mattina. Intenta a sistemare i fiori nei vasi. E ogni volta la treccia le
scivolava di lato e quasi si imbrogliava con le foglie delle piante. E lei, le
mani occupate, cercava di toglierla via scuotendo la testa. Il serpente volava,
le ricadeva sulle spalle, quasi le frustava le natiche che indovinavo piccole e
muscolose sotto il grembiule azzurro. Indovinavo, appunto. Il grembiule non
lasciava margini per la previsione tanto era largo e sformato. Consentiva solo
la divinazione e mi ci abbandonavo con la presunzione di chi ha tanta fretta da
essere disposta comunque all'assoluzione. L'auto era sempre li' vicino e quando
mi mettevo alla guida e istintivamente guardavo lo specchietto retrovisore, la
vedevo tra i suoi fiori. E sempre vedevo che guardava verso di me. Me, me, me,
ma quanta presunzione. E perche' mai avrebbe dovuto guardare verso di me. Cosa
mai poteva saperne di me, della mia vita, di cosa mi piace e di cosa detesto. Ma
guardava verso di me. E questo bastava a fare in modo cheil semplice movimento
delle cosce impegnate a guidare i piedi su frizione e acceleratore fosse
sufficiente a contribuire ad un certo riscaldamento. Così riscaldavo i miei 65
cavalli vapore, ma anche il singolo cavallo dei miei jeans. E quando mi fermavo
al distributore per fare il pieno di benzina verde, avevo gia' fatto il pieno di
quel coktail contraddittorio fatto di fantasie e di buoni propositi. Il giorno
che trovai i "nontiscordardime" sul parabrezza era convenientemente un giorno di
primavera inoltrata, non avevo particolare fretta ma ero particolarmente
distratta. Cosi mi accorsi del mazzetto di fiori solo quando avevo già messo in
moto ed ero uscita dal posteggio. Al primo semaforo c'era Kaled con la sua
spugna. Ormai eravamo amici e la pulizia del vetro era ormai uno dei riti del
mattino. Ma quel giorno Kaled mise dentro la mano col mazzetto. "Ehi - disse -
tu hai amico chelui vuole tu fidanza" e si allargo' nel suo solito inopinato
sorriso. Presi i fiori senza rispondere. Gia mi tempestavano dietro con i
clacson. "Scappo, Kaled, a domani". Inserii il pilota automatico che mi portò
drittaallo studio dell'architetto dove sto cercando di imparare qualcosa in
materia di arredo urbano. Ero sola. Misi i fiori in una tazza di ceramica che
avevo riempito a metà. Misi la tazza sulla mia scrivania e comicniai a guardarla
tenendo il mento appoggiato a una matita con la punta conficcata in una gomma.
Era stata lei, lo sapeva. Doveva essere stata lei. Non poteva che essere stata
lei......
Guardò l'orologio ma erano le nove e un quarto. Era appena arrivata. Ne aveva
fino alle due. Non le andava di lavorare, non accese neanche il computer ne' il
plotter. Accese la radio, evito' "3131", sopravvisse ad alcuni secondi di "radioanchio",
si fermo' su Radio Oidar e cominciò a studiare i fiorellini cercando tra i
petali il volto della piccola fioraia. Ma come si chiamava? Già, che sapeva di
lei a parte quel camice sformato e una divinazione sulle fattezze del suo culo?
Dondolo' il mento facendo perno sulla matita. I suoi seni si strofinavano contro
il bordo della scrivania. Sotto la camicetta bianca, sotto il reggiseno
virginale di semplice cotone, quei diavoletti si indurivano come segugi esperti
che avevano gia' fiutato la pista dei suoi pensieri. Non fece nulla per evitare
il contatto tra i suoi capezzoli, i suoi pensieri e il bordo della scrivania.
Anzi, accentuo' il dondolio del busto mentre Radio Oidar dava un esasperante
pezzo dei Doors. La pensava. Si, la pensava. Il suo lungo serpente si apriva e
diventava come una grande medusa scura i cui tentacoli la liberavano dal camice
rivelandola, chissa' perche', vestita di una di quelle sottanine con le
bretelline che sembrano continuamente voler scivolare via. Immaginava piccoli
seni, piccolissimi capezzoli, un petto senza ombre ne' chiaroscuri. E mutande
bianche con piccole stelline blu'. Roba da mercatino. Vedeva la sua bocca
carnosa e perfetta, i suoi denti bianchi con gli incisivi un po' piu' grandi del
normale. Il naso piccolo e gli occhi grandi come i personaggi di un Manga
giapponese. E la sua pelle liscia, sottile, tiepida, bianchissima. E il bordo
della scrivania aveva ormai avuto ragione dei suoi indumenti. Ora era nuda sulla
poltroncina di velluto, le mani tra le cosce, gli avambracci stretti a unire le
mammelle e a spingerle in avanti. Certe cose si fanno ad occhi chiusi. E lei li
chiuse. E fece certe cose. Le fece con le mani, Le fece con un grosso pennarello
color indaco e poi di nuovo con le mani spargendo i suoi umori sulla pelle
sensibile dell'interno delle cosce, allargandosi, separando la peluria e
ascoltando il piccolo sisma che saliva dentro di lei e la scuoteva prima piano
poi sempre piu' violento fino a farla quasi cader giu' dalla potroncina, le
gambe incrociate, strette sulle due mani impietose sul sesso ormai spremuto.
Respiro', prese i capezzoli tra le dita, li allungo', li rotolo', li guardo',
fece in modo che un po' di saliva le colasse giu' dalla bocca per bagnarli. E
quando furono unti e luccicanti li strinse ancora tra le dita. E la marea torno'
inattesa e magnifica a portarla via, lontano dalla spiaggia noiosa come noiosa
puo' essere la spiaggia conosciuta quando in mare aperto si sente gia' il
profumo di un atollo sconosciuto.
Sabato 24 gennaio 1998
Tremava dalla testa ai piedi, senza controllo e i capezzoli duri vibravano come
due diapason. Si guardava intorno, l'ufficio luminoso come un luogo sconosciuto
che riprendeva lenta fisionomia man mano che rientrava in sé dopo la fuga
fantastica verso il chiosco di fiori. La matita spezzata giaceva sulla scrivania
bianca, la poltroncina di velluto denunciava il suo piacere umido nelle macchie
che ne cospargevano il sedile. Si rivestì in fretta, passò dal bagno a
ravvivarsi il viso e nello specchio vide quel lampo selvaggio che conosceva
bene. Torno nello studio, lascio un rapido messaggio all'architetto, lo informò
che un improvviso malore le consigliava di tornarsene a casa. Indossò la giacca
e uscì. Fuori il sole aveva asciugato l'umidità e la foschia del mattino aveva
lasciato il posto ad una mattinata che avresti detto radiosa. Troppo? Forse, ma
oggi il suo umore non ammetteva mezze misure. Con il mazzolino di fiori infilato
nel taschino esterno della giacca, salì in macchina e tornò verso casa.
Posteggiò e si avviò verso il chiosco di fiori. Lei era lì, intenta nei suoi
soliti traccheggi con i vasi e le piantine. Le dava le spalle. Lei non sapeva da
dove cominciare. Eppure non era certo timida, non era alle prime armi e nel
corteggiamento era di solito aggressiva e sbrigativa.
- È permesso?
La ragazza ebbe un leggero sobbalzo e si girò. La guardo leggermente perplessa.
- Prego, desidera?
- Un mazzetto come questo...
- Ah...si, nontiscordardimé..
- Esatto, proprio quelli. Qui ne avete tanti che li regalate...
Sorrise guardandola
- Sono contenta che le siano piaciuti. Io mi chiamo Dorotea. La vedo sempre
uscire da casa.
- Piacere Dorotea. Io mi chiamo Silvia. Grazie per i fiori. Ma perché proprio a
me?
- Così, senza motivo. Fiori piccoli per un piccolo pensiero. M'è venuta su
così.. Non dovevo?
- Ma si certo. Perché no? Anzi, mi hai fatto ricordare che devo prendere delle
piante per il soggiorno. Piante grandi e resistenti. Ho visto che avete le
durantelisie.
-Vero, eccole li. Davvero le vuole?
- Si, almeno sei. E poi...
Così si rifornì di piante. Ne comprò tante che la sua casa si sarebbe
trasformata in una serra. Dorotea prendeva nota diligentemente.
- Le manderò tutto nel pomeriggio
- Va bene, ma ho bisogno di aiuto per sistemare ogni pianta nel modo migliore.
Non sono una grande esperta.
- Mi lasci pensare.. Facciamo così: dopo la chiusura vengo su un attimo e le do
una mano, posso?
- Ci mancherebbe, certo che può. Ma non vorrei disturbare.. magari l'aspettano a
casa. Oppure il fidanzato...
- Ah ah ah.. niente di tutto questo. A casa non ho problemi e il fidanzato non
ce l'ho. Quindi tutto ok.
- Va bene, allora ti aspetto..
Sali le scale di corsa in preda a un'euforia che non provava da tempo. Andò
direttamente in bagno e riempì la vasca. Si tolse tutto e si immerse nell'acqua
caldissima piena di schiuma. Vide la sua pelle diventare rossa, sentì mancare il
respiro ma poi si abituo e si rilassò. Dopo il bagno si avvolse in un telo di
cotone poi cominciò a massaggiarsi il corpo con una crema balsamica molto
profumata. Cosa indossare? Aprì l'armadio e scelse la biancheria: slip neri di
cotone, piccoli, molto elastici. Reggiseno molto scollato anche se non proprio a
balconcino, con l'apertura sul davanti. Poi una gonna corta e scampanata e una
polo con le maniche lunghe che le cascava addosso e sembrava essere tenuta su
solo dai seni sporgenti. Poi scarpe nere col mezzo tacco, niente calze. Rimase a
lungo davanti allo specchio ad osservarsi. Si toccò i seni per fare inturgidire
i capezzoli e verificare se si notassero sotto la maglia. Fece tutte le prove
possibili di movimenti per controllare quanto lasciasse intravedere. Mise una
poltrona davanti allo specchio e si sedette provando tutte le posizioni. Poi si
truccò: una cosa leggera ad esclusione delle labbra che dipinse con un rossetto
molto appariscente. Erano le otto quando bussarono alla porta. Andò ad aprire
col cuore che le scoppiava. Dorotea era li sul pianerottolo. Deliziosa.
Deliziosa. Deliziosa. Un abitino corto corto blu scuro con le maniche corte.
Scarpe basse anche quelle blu, un foulard verde al collo. Tutto faceva risaltare
la sua carne bianchissima e la sua treccia nera. Silvia notò subito che Dorotea
aveva il seno piccolissimo ma che certamente non doveva indossare il reggiseno
perché riusciva a vedere sotto il vestito la forma dei capezzoli. La fece
entrare e le indicò il salone dove la seguì. Sorrise pensando al camice sformato
che indossava al chiosco e alle sue fantasie sul suo culo. Era bello, altroché..
Tondo, piccolino e, a guardare i muscoli della parte posteriore delle cosce,
doveva essere stretto e asciutto.
- Ecco, vedi vorrei mettere le piante grandi con un certo criterio. Inutile
metterle tra i divani oppure davanti alle finestre, ti pare?
- No, infatti. Davanti ai divani proprio no. Sono messi di fronte e le piante
impedirebbero a due interlocutori di guardarsi. Sarebbe uno spreco. Vediamo un
po’...
Spostò alcuni vasi tra i divani orientandoli in modo che la luce delle finestre
colpisse i rami e le foglie.
- Ecco, così va ben. Venga, proviamo, si sieda su quel divano, io mi metto qui e
vediamo se le piante danno fastidio
Si sedette prima di lei quasi lasciandosi cadere. Forse credeva che il divano
fosse più duro certo è che sprofondò e istintivamente le cosce si disunirono e
Silvia notò le mutandine bianche. Senza perderla di vista si sedette di fronte a
lei senza curarsi di controllare gli svolazzi della gonnellina svasata. Anche
Dorotea guardava. Non si parlarono. Silvia teneva le mani in grembo, giocava con
l'orlo della gonna. Silvia teneva le mani sul divano ma non accostava le cosce e
aveva lo sguardo perso sotto la gonna di Silvia.
Dorotea si alzò.
- Vediamo un po’. Ha già annaffiato?
Si alzò e si mise accanto ad una delle piante. Poi si chinò dando le spalle a
Dorotea. L'abitino fece il suo dovere e salì lentamente scoprendo gli slip
bianchi e la pelle candida. Silvia era in piena vertigine, Non si rendeva conto
di tenere una mano tra le gambe e quando Dorotea si voltò senza curarsi di
tirare giù l'abitino elasticizzato le scocco un malizioso sorriso e si passo la
lingua sulle labbra carnose. Si mosse verso di lei. Le si parò davanti con le
gambe leggermente divaricate.
- Dillo
- Cosa?
- Dai, dillo..
- Ma cosa??
- Che mi vuoi
- Non capisco che vuoi dire..
- Mi vuoi, lo so. Ti voglio anche io e lo sai. Te l'ho detto con i fiori e tu lo
hai capito .....
- Ti ho vista guardarmi, i tuoi occhi addosso erano come mani. Li sentivo
dietro, su per le cosce. Ormai mi ero abituata a cambiare le mutandine dopo che
te ne eri andata in ufficio. La mattina ne inzuppavo già un paio a forza di
vederti dalla finestra, di sentirmi addosso i tuoi occhi...Lo sapevo che non
capivi per via del camice. E adesso?
Si mosse velocemente e fece scivolare il vestito sulle spalle scoprendo il seno.
Quasi piatto, candido, appena accennato. In compenso capezzoli lunghissimi,
scurissimi su aureole molto piccole e scure anch'esse. Capezzoli già durissimi
che lei cominciò ad arrotolare tra indice e pollice mentre la guardava.
- Ora fallo anche tu
Silvia cominciò a sbottonare la camicetta, poi l'aprì. I seni ancora dentro il
reggiseno. Si mise in piedi e cominciò a dondolare sempre più velocemente e, a
ogni dondolio, qualche millimetro di pelle sfuggiva al controllo e alla tutela
della stoffa del reggiseno. Alla fine solo i capezzoli erano ancorati al bordo e
le aureole erano già scoperte per metà. Dorotea allungò le mani, anzi, le dita.
Le affondò nel reggiseno, prese i capezzoli e tirò verso l'alto facendo
sgusciare i seni di Silvia fuori dell'indumento. Poi senza lasciarla, l'attirò a
se schiacciando i capezzoli contro i suoi e prendendo tra indice e pollice il
suo e il proprio. E Silvia si sentì morire.
Si aggrappò a lei tremando mentre smaltiva un orgasmo violento, repentino. La
bocca semi aperta, la testa abbandonata sul petto di Dorotea, la sua bocca
ansimante accanto al suo capezzolo ancora eretto. Dorotea le sollevò il volto,
si inumidì un dito e lo passò sulle sue labbra, poi cominciò a baciarla piano.
La sua lingua le forzò le labbra e prese possesso della sua bocca
scandagliandola doviziosamente. Poi avvolse la lingua di Silvia nella sua e la
risucchiò nella bocca schiacciandola contro il palato per imprigionarla. Le sue
mani le stringevano i glutei allargandoli mentre le sue dita percorrevano la
divisione.
Silvia cominciò a rianimarsi. Anche le sue mani si misero in movimento e
cominciarono a percorrere le cosce di Dorotea che se ne stava ancora in piedi
con le gambe larghe. Silvia ne approfittò per accarezzare l’interno delle cosce.
E finalmente poté davvero guardarla tra le gambe. Il sesso di Dorotea era
assolutamente privo di peli, sembrava finto, perfetto, chiarissimo, molto
stretto, lucido di umori. La afferrò per mano e la fece sedere sul divano e
Dorotea appoggiò la testa sulla spalliera abbandonandola e abbandonandosi.
Silvia cominciò a passarle le mani sui seni quasi inesistenti poi prese un
capezzolo tra le labbra e cominciò a stringere sentendolo allungarsi. Si lasciò
scivolare in ginocchio e la sua lingua cominciò a leccare la pelle delicata
dell’interno delle cosce sin quando non arrivò al sesso che cominciò a titillare
con rapidi coli della sua lingua. Con le dita morbide separò le labbra e fece
sgusciare il cappuccio del clitoride sul quale soffiò. Lo vedeva indurirsi e lo
prendeva tra le dita massaggiandolo. Anche Dorotea cominciò a tremare piano e
Silvia affondò il volto tra le sue gambe e cominciò a leccare il sesso aperto
cercando di andare in più possibile in profondità. Dorotea le afferrò i capelli
stringendo ancor di più la sua testa tra le proprie gambe e cominciò a godere
con un lamento lungo e di progressiva intensità.
- Uff…ce ne hai messo prima di deciderti
Silvia se ne stava distesa sul divano con la testa appoggiata sulle cosce di
Dorotea
- Si, vero, ho perduto tempo. Ti volevo ma non sapevo. Ho dovuto aspettare il
tuo mazzo di fiori per decidermi
- Il mio motto è: Ditelo con i fiori
- Il tuo motto è: ditelo con il fiore, quell’orchidea che tieni tra le cosce…..
- Hai la mia parola che non te la farò mancare
- Lo credo bene, non ne riuscirei a fare a meno
- Ma sarai capace di venirmi dietro
- Ragazzina, sono più grande di te
- Non vuol dire nulla. Io sono stata più coraggiosa, ricordi? E sono anche più
intraprendente di te proprio perché sono più giovane. Guiderò io, lo hai capito
no?
- Guiderai tu?
- Certo. Ancora non sai cosa ti aspetta. Devi ancora conoscermi bene. Devi
conoscere cosa mi piace, come mi piace, con chi mi piace. Se sei pronta dillo.
Altrimenti mi rimetto le mutande, ti lascio sul tavolo il lucidante per le
foglie e me ne vado a casa. Da domani torno al chiosco come se niente fosse
accaduto. Che mi dici?
Silvia si sollevò, si mise davanti a lei, le prese i capezzoli tra le dita e
cominciò a metterli in tensione e a tirare verso di sé. In questo modo riuscì a
metterla in piedi fino a trovarsela proprio di fronte. La guardò negli occhi e,
senza lasciare i capezzoli, le disse
- Quando si comincia?